È davvero straordinario in quanti e quali modi gli scrittori di fantascienza siano riusciti a prevedere l’andamento degli eventi futuri. Nelle grandi o nelle piccole cose, dall’esplorazione dello spazio alla costruzione dei primi robot, passando per l’ambito della tecnologia applicata al mondo delle telecomunicazioni. Così William Gibson, uno dei padri della corrente poetico-sociale del Cyberpunk, scriveva già nel 1999 American Acropolis (All Tomorrow’s Parties) il cui uno dei protagonisti della narrazione, dopo gli eventi dei precedenti romanzi, lavorava come guardia di sicurezza in un grande magazzino della catena “Lucky Dragon”. La quale presentava come marchio di fabbrica, oltre al logo titolare, uno schermo con videocamera interconnessa a dozzine di altri dei altri negozi identici dislocati in giro per il paese. Con l’immagine che passava ciclicamente dall’uno all’altro, onde evitare che venissero presi di mira dai “giovani desiderosi di praticare l’esibizionismo erotico” il che del resto non fermava il regolare utilizzo da parte della popolazione generalista di tale apparato al fine di un’ampia varietà di gesti osceni, indirizzati alle anonime controparti dell’altro lato. Spostandoci in avanti di 22 anni dunque, all’inaugurazione di qualcosa di assolutamente e sorprendentemente simile collocato in piazze molto trafficate delle due città di Lublino (Polonia) e Vilnius (Lituania) ci è possibile meravigliarci della quantità di commenti reperibili online, in cui il primo pensiero della gente di Internet sembra essere rivolto alla stessa forma di scurrile vandalismo tramite l’esposizione di natiche o l’immancabile organo genitale, simbolo per eccellenza della noncurante mascolinità dell’individuo contemporaneo. Difficile in effetti immaginare quanto spesso ciò possa essere successo, davvero, alla scultura/installazione artistica di Benediktas Gylys, titolare di una fondazione desiderosa di riavvicinare i due paesi dopo gli oltre due secoli trascorsi dall’ultima e definitiva spartizione del Commonwealth, per l’effetto di forze politiche non necessariamente rappresentative del plebiscito popolare o le aspettative di coloro che ne furono direttamente coinvolti. Dal che l’idea di una struttura di cemento dalla forma ad anello, direttamente e dichiaratamente ispirata all’inflazionato concetto fantascientifico dello Stargate, attraverso cui osservare i passanti che si trovano più o meno casualmente da ambo i lati, venendo in questo modo ripresi dalla telecamere ad alta definizione inserita nei basamenti delle insolite costruzioni. L’incipit perfetto per una perfetta storia d’amore alla ricerca di un/una sconosciuto/a, o il racconto giallo di un compiuto innanzi a un testimone accidentale che si trovava a circa 300 Km di distanza, benché l’eventualità nei fatti pratici una semplice versione sovradimensionata di un Chatrandom o Chatroulette spostata negli spazi pubblici appaia decisamente più calzante nello spazio dell’universo in cui si spostavano gli stessi personaggi immaginati da W. Gibson. Per non parlar dell’estendersi, in direzione cronologicamente anteriore, di un filo ininterrotto con la storia della tecnologia moderna, capace d’immaginare qualcosa di simile già pochissimi anni dopo l’invenzione brevettata del telefono nel 1876. Quando i giornali scrissero, anticipando decisamente i tempi, delle capacità praticamente magiche di un dispositivo battezzato come il telescopio elettrico, o più in breve, telectroscopio…
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Lego Cyberpunk: una metropoli di mattoncini oltre l’immaginazione artificiale
La lucentezza imperturbabile di elementi meccanici, strumenti tecnologici, componenti veicolari avanzati. Per non parlare dei caratteristici occhiali a specchio, fin da subito ricorrenti nelle opere facenti parte di quel nuovo genere narrativo. Nell’ottenimento di una superficie riflettente, normalmente associata alla tonalità del cromo, elemento della tavola facente parte del gruppo 6 (metalli d’importanza industriale) pur trovando applicazioni relativamente limitate nella stratificata civiltà del mondo contemporaneo. Perché mai, dunque, il materiale simbolo della cultura cyberpunk non dovrebbe essere riconosciuto nella plastica? Prodotto polimerico preponderante e irrinunciabile, spina dorsale delle plurime visioni contrastanti di un’epoca possibile, fin troppo prossima, in cui la natura è stata superata dall’anelito ad avere tutto e subito, in quantità di molto superiore alle aspettative. Sto parlando della plastica capace di formare involucro dell’informatica e di altri oggetti, telecamere, persone… Ovvero la sostanza, intesa come innumerevoli mattoni dell’esistenza, capace di costituire la struttura stessa del tentacolare dio urbano. L’esiziale megalopoli, che poi QUASI sempre è Tokyo o uno dei suoi derivati, in grado di costituire il personaggio più importante che accomuna la totalità dei film, romanzi, videogiochi di questo settore. Di certo la conoscete, o altrettanto probabilmente potrete prenderne atto dall’opera del tutto priva di precedenti esposta nel corso di due soli giorni alla fiera di Chicago di una settimana fa, incentrata sulle costruzioni-giocattolo ideate per la prima volta nel 1949 in Danimarca, prima di trasformarsi nella pura e imprescindibile antonomasia di quel settore merceologico all’interno del mercato globale. LEGO che permette d’insegnare ed acquisire un tipo di creatività tattile propedeutica a moltissime altre cose, nei giovani come negli adulti, come esemplificato dall’ormai celebre dicitura “Adatto per bambini dai 9 ai 99 anni”. Coloro che potrebbero finire a vivere, un giorno, in luoghi come Neo Hashima di Stefan Formentano, il nome principale associato ad uno dei progetti più imponenti, ed indubbiamente memorabili, ad aver partecipato ad uno di questi eventi. Sotto ogni aspetto rilevante una città, nella consueta scala 1:42 fornita dalle figure antropomorfe della compagnia produttrice, raggiungendo una dimensione complessiva pari a circa 10 metri di lato e 2,7 d’altezza. Benché l’individuazione di un singolo autore potrebbe portare al fondamentale fraintendimento del progetto, trattandosi di un’impresa collaborativa frutto delle mani di 70 partecipanti provenienti da molteplici paesi, portati sotto una bandiera dall’intento collettivo nel creare qualcosa di assolutamente innovativo, che potesse dirsi a tutti gli effetti privo di precedenti…
L’alveare umano alle porte di Hong Kong
L’essere umano: creatura sociale il cui pari, assai probabilmente, il mondo degli organismi complessi non aveva mai conosciuto. Perché i polipi del corallo, i sifonofori degli abissi che formano colonie simili a meduse, o le formiche ed api in superficie, possono aggregarsi tra di loro grazie ad una predisposizione genetica innata, ma non potrebbero mai sopravvivere in solitudine. Mentre noi bipedi dall’andatura dinoccolata, abbiamo la capacità di operare scelte in merito nelle nostre alterne vite, tali da permetterci, altrettanto facilmente, di essere come l’albero solitario del deserto del Teneré, oppure un elemento fra i tanti dell’eterno bosco di querce, distrutto e ricreato sul trascorrere dei secoli distanti. Quante persone è possibile stipare in un chilometro quadrato, senza che queste siano destinate ad prossimo un futuro di follia? 25.000 come a Delhi, la capitale del prolifico sub-continente indiano? Circa 26.000 come l’isola di Manhattan, dove l’articolata verticalizzazione ha sostituito spazi che lì non ci sono, non ci saranno mai? O addirittura 44.000, la cifra raggiunta da Manila nella Filippine, null’altro che la singola concentrazione di persone più densa del pianeta? Un caso limite, di quello che comunque già era e resta il singolo paese maggiormente sovrappopolato nel complesso situazionale convenzionalmente citato. Ma non c’è limite al peggio, così di sicuro, la parola chiave diventa “dignitosamente”. Giacché non è difficile immaginare un distante futuro, in cui la costruzione di svettanti arcologie possa permettere l’attigua coesistenza di dozzine di migliaia di piccoli appartamenti dotati di ogni comfort, eppur stipati l’uno sopra l’altro come scatole di sigarette in un container dei contrabbandieri. Talle situazione, tuttavia, non ha luogo ad essere nel nostro attuale quotidiano. Né tanto meno, in quello degli anni ’70 e ’80, periodo in cui si trovò l’apice nell’Estremo Oriente un particolare insediamento, detto la città murata di Kowloon, in cui fu raggiunta l’apparentemente assurda cifra di 1.255.000 anime per Km², con una popolazione totale di 33.000: in parole povere, qui viveva molto più di una persona al metro quadro. L’uno sull’altro, all’interno di circa 300 palazzi alti fino a 10-13 piani e non più di così, a causa dell’estrema vicinanza dell’aeroporto di Kai Tak, svincolo fondamentale per la città di Hong Kong. L’unità domestica di una famiglia tipo si aggirava attorno ai 23 m², talvolta ricavati da piattaforme sospese nel vuoto, balconate ricoperte o vere e proprie piccionaie, rivettate alla meglio nelle pareti cementizie degli edifici e pericolosamente dondolanti nel vento. Le strutture massicce di un simile luogo poi, giungevano a formare, incredibilmente, un’unica massa con fessure di pochi metri appena fra un gigante e l’altro, dalle quali erano state ricavate alcune delle strade più buie al mondo. Era sempre notte, al piano terra di Kowloon. Ciò detto, un visitatore intraprendente avrebbe potuto percorrere l’intero territorio da nord a sud, grazie ai numerosi ponti di attraversamento tra un palazzo e l’alto, senza mai doversi azzardare a toccare terra.
Molti termini sono stati usati, negli anni, per riferirsi a questo luogo senza pari nella storia: città dei sogni, della notte eterna, luogo incredibile, meravigliosa dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Ma la realtà è che si trattò, oltre ogni dubbio residuo, di un vero incubo terrificante. L’intero agglomerato disponeva unicamente di otto tubi dell’acquedotto municipale, con punti di recupero dove venivano, al tempo stesso, lavati i panni e prelevate le taniche di acqua potabile per i propri figli e nipotini. Anche se, secondo alcune teorie, la città disponeva di alcuni pozzi risalenti all’antichità, gelosamente custoditi all’interno di zone sotto il controllo dell’elite locale. Il crimine, come potrete facilmente immaginare, dilagava incontrollato, con alcune delle più potenti triadi (le “mafie” cinesi) che proprio qui avevano stabilito le proprie sedi operative, complete di una fiorente industria della droga, del gioco d’azzardo, della prostituzione. Era raro che la polizia si avventurasse in questi luoghi, e quando lo faceva, stava molto attenta a muoversi in gruppi estremamente numerosi. L’aria era umida e malsana, con le migliaia di condizionatori che riversavano la loro acqua a livello della strada in una sorta di torrente ininterrotto, mentre le serrande di negozi e luoghi di ristorazione si sollevavano a poca distanza da indescrivibili cumuli di spazzatura, quali la modernità, probabilmente, non aveva mai conosciuto prima. Ma prima di parlare del modo in cui giunse ad esistere un luogo allucinante come Kowloon, e della sua demolizione fortunata ed al tempo stesso ingloriosa portata a termine nel 1994, sarà opportuno porci una domanda carica di sottintesi. Non vi ricorda nulla, tutto ciò?
Con l’orchestra punk-informatica nella valigia
Certe percezioni sensoriali vengono reinterpretate sulla base del bisogno e desiderio. Quando Kathleen Hanna, amica di Kurt Kobain, scrisse sulla parete di casa sua l’ormai celebre frase “K. Smells like Teen Spirit” si dice che l’indimenticato musicista, sempre il solito visionario, fosse stato fin troppo pronto a interpretarla come una metafora del nascente spirito anarchico dei primi anni ’90, connotato dall’importanza del punk rock come suo nume tutelare, l’unica espressione artistica capace di portare quella passione sotto gli occhi del rigido conformismo. Ma l’aneddoto ufficiale, ormai largamente noto, racconta tutta un’altra storia: che lo “spirito di gioventù” verso cui faceva riferimento la ragazza, altro non fosse che il nome di un comune deodorante, quello usato dall’allora fidanzata del cantante dei Nirvana. Eppure, non è forse vero che un odore ha la capacità di essere associato al suo contesto, facendo da punto di partenza per un’inscindibile catena di ricordi? La voglia di eccedere, lasciare un segno. Le manifestazioni, le proteste, i raduni dei conto-corrente fuori squola: tutto questo, e molto altro, può effetti rinascere dall’industriale commistione di un’aroma o due, semplice sostanza del supermercato, eppure indissolubilmente legata al ritmo di un’intera exgeneration. Siamo tutti l’amalgama della serie di esperienze vissute. Ma quelle che lasciano maggiormente il segno, talvolta, appartengono alla sfera del subliminale…
È un suono che tormenta cigolando, che distrae con scatti, blocchi e bozzi l’audio di colui che “ascolta” oppure “guarda” lo strumento sensoriale del sistema: il monitor sfolgorante, con il suo seguito di altoparlanti. Mentre la vicenda videoludica, o in alternativa, il gesto del grafico/musicista sulla sua Amiga (primo vero computer multimediale) raggiungeva l’ora culmine della sua progressione, c’era sempre questo ritmo simile a un ronzio, ma più profondo. Come il verso di un’ape di metallo, il grido di duecento pesci ringhianti intrappolati in un barile di silicio; il ronfante espletamento del cinghiale tecnico al risveglio dall’inverno. Quel frastuono che teoricamente doveva essere ignorato, ma come si potrebbe mai soprassedere alla cagnara, il bailamme, la gazzarra di una piccola testina, magnetica o così si spera, che agitata da un minuscolo motore, correva avanti e indietro, avanti e indietro, come l’ultimo dei Pac Man sregolati! Ben conosce un simile problema, anche l’utilizzatore di un qualunque dispositivo informatico raffreddato ad aria, la cui voce si scatena, progressivamente, all’aumentare dell’impegno di giornata. Che poi sarebbe questa, la sublime problematica di base: se una stufa consuma 500 watt, ed un computer/Playstation consuma 500 watt, non è che l’una li usa per fare calore e l’altro invece muove le sinapsi dei suoi calcoli virtuali, solamente; l’energia elettrica, iniettata nei nanometrici circuiti di un moderno processore, non può fare a meno d’incontrare la comune resistenza dell’attrito e sfrigolando, corre avanti. Lasciando scie di fiamme in mezzo ai cieli del colore di un televisore non sintonizzato sul canale (cit.) O per lo meno, così sarebbe, se non fosse per l’utile apporto delle masse d’aria di passaggio, controllate grazie alla potenza di un due-tre ventole rotanti. Una corsa contro il tempo. Questa è soprattutto la voce dei computer, oltre alla musica dei samples digitalizzati. Non l’ottima fedeltà di un disco ottico letto da un laser e a meno che non s’intenda, con quest’ultimo, il fluttuante sobbalzare del braccetto ben oliato. Ma qual’è il sassofono di quella razza plasticosa, quale il pianoforte, il flauto fischiettante? La risposta giace tra la plastica di un recipiente utile ai viaggiatori.