La gru precisa del portuale che fa scendere i visitatori sull’isola dello zucchero giapponese

I video di viaggio regionali dell’arcipelago del Sol Levante costituiscono frequentemente un’esperienza meditativa e vagamente straniante, con protagonisti silenziosi che riprendono in prima persona le particolari modalità e i servizi offerti ai connazionali durante le loro peregrinazioni finalizzate all’acquisizione di ricordi preziosi. Con i nostri anfitrioni digitali che salgono a bordo di traghetti o treni mentre osservano con distacco il panorama, per poi pranzare con piatti di ramen o altre pietanze acquistate nei distributori, sedendosi da soli ai tavoli, quasi come il contatto accidentale con gli sconosciuti fosse una distrazione poco desiderabile, totalmente controproducente in considerazione delle circostanze vigenti. Immaginate quindi la mia sorpresa nel vedere il modo in cui il titolare del canale Capsule Japan si è trovato a scendere, l’estate scorsa, in un luogo situato letteralmente ai confini del Giappone (e del mondo?) Non in placida contemplazione, bensì tra le istruzioni gridate tra un gruppo di esperti operatori portuali. Fatto entrare in una gabbia sospesa non dissimile da quella usata per sbarcare gli animali da fattoria. Poiché invero, non era possibile a quel punto andare avanti in nessun altra maniera.
È facile dimenticare, mentre ci si aggira per la città più vasta del mondo sperimentando i divertimenti di un universo tecnologico ed avveniristico, che il paese di Izanagi è un arcipelago e come tale costituito da isole grandi ed isole piccole. Terre vicine ed altre lontane. Sperdute, addirittura, in mezzo ai flutti del Pacifico, dove nessuno avrebbe mai pensato di raggiungerle prima dell’epoca del colonialismo e tutto ciò che deriva sul sentiero dell’industria dei giorni odierni. Narrano perciò le cronache di come Tamaki Hanemon, uomo d’affari del periodo post shogunale, avesse sviluppato una filiera produttiva per le piume d’albatross al fine d’imbottire materassi di pregio. Almeno finché nel 1902 presso l’isola meridionale di Torishima (鳥島 – Isola degli Uccelli) non si verificò una grave ed improvvisa eruzione, destinata a costare la vita a tutti e 125 gli addetti alle sue dipendenze, portando all’immediata e inevitabile interruzione delle operazioni. Fu così che questo figlio di un magistrato, con significativi contatti presso il governo della Restaurazione Meiji, decise di unirsi ai coloni che l’Impero aveva disseminato a partire da 17 anni prima in giro per gli atolli corallini che circondavano il polo amministrativo di Okinawa. Tra cui il remoto Minamidaito (南大東村) di appena 30 Km quadrati situati a 360 di distanza dal porto più vicino. Ma notevolmente pianeggiante, oltre ad essere situato a pieno titolo all’interno dell’ecozona tropicale e perciò terreno fertile per ciò che aveva l’intenzione di realizzare: un impero agricolo, questa volta, fondato sul valore della canna da zucchero e tutto ciò che questa poteva significare nel contesto commerciale del suo paese. Era il principio di quella che sarebbe diventata la Daito Sugar Co., Ltd, perfetta unità di azienda, luogo, gruppo civile ed intenti. Riuscite ad immaginare nulla di più redditizio? Oltre un migliaio di persone che lavorano con obiettivi comuni. Nella certezza che i loro figli o figli dei loro figli, un giorno ancora distante, avrebbero ereditato queste terre. Ed in effetti, molti anni dopo, così fu…

Leggi tutto

La misteriosa struttura sommersa che potrebbe costituire un’ancestrale fortezza giapponese

Ci sono molti modi per esplorare l’antichità di un luogo topografico e forse il meno funzionale è quello di avventurarsi nella pratica delle immersioni marine. Troppo significative l’erosione, le correnti, l’incidenza chimica dell’acqua salmastra e la proliferazione biologica dei microrganismi, perché possa mantenersi viva la speranza di trovare intatta alcuna struttura vecchia di secoli, o persino millenni. A meno che quest’ultima sia caratterizzata dalle proporzioni, sotto qualsiasi punto di vista rilevante, di un qualcosa di ciclopico o particolarmente abnorme, l’effettiva costruzione frutto di uno sforzo collettivo dalle proporzioni spropositate. Qualcosa di paragonabile a quanto istintivamente percepito pressoché immediatamente dall’esperto di immersioni Kihachiro Aratake, quando nell’anno 1986 si stava impegnando nella ricerca di nuovi luoghi per mostrare ai turisti gli squali martello a largo dell’isola di Yonaguni, parte dell’arco dell’antica catena montuosa affiorante oggi noto come arcipelago delle Ryūkyū. Per trovarsi all’improvviso di fronte ad un qualcosa in grado di sfidare l’immaginazione di chiunque: una… Struttura, o preminenza rocciosa che dir si voglia, dalla lunghezza di 300 metri per 150 e 25 metri d’altezza sul livello del fondale, la cui forma impossibilmente simmetrica e dai multipli angoli retti non lasciava, ai suoi occhi, alcun tipo di dubbio in merito al fatto di aver trovato quella che ben presto i giornali avrebbero definito “l’Atlantide giapponese”. Non prima, tuttavia, che la figura del professore di geologia dell’Università di Okinawa, Masaaki Kimura avesse l’opportunità di pronunciarsi ufficialmente in merito all’incredibile ritrovamento. Dicendosi convinto al di là di ogni ragionevole dubbio che il monumento di Yonaguni non potesse in alcun modo avere origini naturali, dovendo quindi rappresentare una finestra rivoluzionaria verso antiche civilizzazioni perduti, o capitoli della storia del suo paese rimasti fino a quel momento del tutto inesplorati. Con una datazione possibile che inizialmente pose attorno ai 4.000 anni prima della nascita di Cristo, finché non ritenne opportuno rivederla in funzione dell’innalzamento delle acque dovuto all’ultima glaciazione, che avrebbe permesso alla radura oggetto di disquisizioni di trovarsi fuori dall’acqua per l’ultima volta almeno 12.000 anni a questa parte. Il che basterebbe a renderla, volendo credere alle sue teorie, una delle opere create dall’uomo più antiche ad essere giunte in condizioni relativamente integre fino ai nostri giorni, rivaleggiata unicamente da ritrovamenti archeologici dal tempio paleo-turco di Gobekli Tepe o gli insediamenti dissepolti della cultura Cucuteni–Trypillia in Ucraina. Il che suscita immancabilmente la disquisizione in merito al perché l’impiego del condizionale in questo caso costituisca un’obbligo, di fronte alle contrastanti ragioni pratiche individuate per spiegare la singolare occorrenza…

Leggi tutto

Casa è dove sorgono un migliaio di pali. E i loro nodi sconfiggono la magia nera

In base ai miti ancestrali dei Masyarakat Arfak, il gruppo di tribù che vivono sulle omonime montagne dell’entroterra papuano, i loro antenati scesero un giorno in guerra per il controllo di un prezioso albero di guava. E fu così che dopo un periodo di aspre battaglie, anche i bambini scesero in campo per i rispettivi schieramenti, armandosi principalmente di arco e frecce in base alle usanze primitive. Ma uno di loro, scoccando all’indirizzo del nemico, sbagliò mira e colpì accidentalmente un sacro uccello del paradiso. Colpiti dal nefasto presagio, i capi delle due famiglie scelsero di fare un giuramento: essi non avrebbero più intrattenuto alcun tipo di comunicazione. Né sarebbero vissuti ancora sotto lo stesso tetto. Molti anni dopo, i discendenti dei gruppi linguisticamente eterogenei delle tribù di Sough, Hattam ed Arfak decisero di tentare una tardiva riappacificazione. Radunandosi in un luogo neutrale, dove si scambiarono il cibo frutto dei propri raccolti e danzarono assieme alla ricerca di un accordo comune. Le loro storie, che scoprirono essere simili, non sembravano tuttavia avere mai fine. E da ciò nacque il complesso sistema di movimenti e canzoni, suddiviso in Tumbu Tanah da praticare all’esterno e quello utilizzato in privato, tra le mura domestiche della propria abitazione che prende il nome di Tambuk Ruma. Ed è anche per questo che le dimore costruite dai Masyarakat Arfak assumono proporzioni notevolmente superiori a quelle di una comune capanna degli indigeni, risultando dotate di un ampio spazio centrale e camere separate per una o più famiglie, anche superiori numericamente al nucleo minimo di genitori e i loro giovani figli. Finendo in questo modo per richiedere, al momento della loro costruzione, il coinvolgimento di una significativa percentuale degli uomini del villaggio, per un periodo pari anche a diverse settimane di lavoro. Ma il risultato… Merita davvero il nome di rumah kaki seribu, ovvero letteralmente: casa tradizionale del millepiedi. Una metafora senz’altro desumibile, nella sua origine, mediante mera osservazione dell’aspetto, caratterizzato dalla più fitta base immaginabile di una serie di sottili palafitte. Fatta continuare, dal punto di vista strutturale, nell’incrocio dei numerosi pali verticali ed orizzontali utilizzati come base delle sovrastanti pareti, legati assieme tramite quello che potrebbe avvicinarsi ad un migliaio di nodi. Questo per una significativa pluralità di ragioni: difendersi per quanto possibile dall’ingresso accidentale di animali selvatici, come serpenti o tarantole, e mantenere i membri più deboli della tribù lontano dagli occasionali conflitti armati condotti innanzi all’uscio della casa. E proteggerli allo stesso tempo, assieme ai loro parenti armati, da un tipo di attacco ben più subdolo e pericoloso nella sua frequenza: quello del suwanggi, lo stregone possessore delle temibili arti della magia nera.

Leggi tutto

Il falso girino di un abisso a otto chilometri dalla superficie del mare

Provate a immaginare, per un attimo, la sensazione. Di una creatura che ha trascorso la sua intera esistenza nell’oscurità, pur non rinunciando agli occhi per poter individuare l’occasionale predatorie bioluminescente o gamberetto luminoso da fagocitare. Che si trova all’improvviso dentro un fascio di fotoni generato da un potente faro creato dall’uomo. Quello situato, per l’appunto, sul sottomarino compatto Limiting Factor, inviato ad esplorare la profondità della fossa oceanica del Giappone, parte dell’anello di fuoco responsabile di molte delle sue eruzioni e terremoti più devastanti. Non sarebbe almeno in parte ragionevole, per tale inimmaginabile presenza, provare l’istintiva sensazione di trovarsi al cospetto di una divinità? Specialmente quando la sonda estendibile, facente parte della dotazione tecnologica del mezzo, cominciasse a rilasciare una copiosa quantità di cibo, largamente superiore a quella normalmente rintracciabile in svariati mesi di perlustrazione a simili profondità. Pesce attento, piccola presenza, non più lunga di una decina di centimetri. Eppure in grado di riuscire a sopportare, per l’intero estendersi della sua esistenza, una pressione di 800 bar, paragonabile al peso di svariate migliaia di elefanti. Questo grazie, chiaramente, alla natura non del tutto permeabile della sua pelle mucillaginosa, e l’alto contenuto di osmoliti nell’organismo. Sostanze in grado di garantire l’ottimale funzionamento di un organismo, persino in situazioni tanto estreme, garantendo al pesce lumaca (snailfish) la sopravvivenza. Già, ma che cos’è, esattamente, un pesce lumaca… Creatura della famiglia dei Liparidi, originariamente descritta scientificamente nel 1777 e che da quel momento avrebbe accolto, attraverso le lunghe decadi d’avvistamenti, grosso modo ogni tipologia di nuotatore “abissale” che nessuno fosse in grado d’inserire in specifiche categorie distinte. Anche in forza della tipica maniera in cui esseri creati per sopportare simili pressioni, erano inclini a deformarsi e diventare tutti uguali una volta esposti senza camera iperbarica alla vastità dell’atmosfera terrestre. Aggiungete a questo l’inerente fragilità di tale stirpe, incline a frantumarsi una volta intrappolata nelle reti o altri simili implementi di cattura, per comprendere la lunga confusione tassonomica che ha circondato i nostri amici del tutto incapaci di lamentarsi. Pur rappresentando, d’altra parte, uno dei pesci più studiati della zona hadopelagica, ad oltre 6 chilometri di profondità, in forza della sua presenza cosmopolita e relativa semplicità d’avvistamento. Come dimostrato ancora una volta nella spedizione dello scorso settembre a bordo della nave oceanografica DSSV Pressure Drop, culmine di un progetto decennale, organizzata da studiosi del laboratorio Minderoo dell’Australia Occidentale e l’Università di Tokyo, interessati a confermare determinate teorie in merito alla massima profondità abitabile da una creatura vertebrata. E che nel caso preso in considerazione, si sarebbero trovati con sommo senso di stupore al cospetto di non uno, bensì dozzine di tali auspicabili presenze, ad oltre 8.200 metri di profondità, superando qualsiasi altro record ittico mai registrato prima di quel momento. Una visione… Impressionante.

Leggi tutto