I sette saggi nei sarcofagi posti a sorvegliare dall’alto il destino dell’Amazzonia

Quando Francisco Pizarro iniziò la sua opera di sottomissione e conquista delle terre appartenute ad diversi secoli alle spietate istituzioni dell’impero degli Inca, durante la sua terza spedizione nelle Americhe iniziata nel 1532, si concretizzò per valide ragioni una delle sue più inaspettate alleanze. Formalmente proposta dal sovrano Huaman, con sede a Quchapampa, di un popolo che avrebbe potuto appartenere alla tipica cultura delle regioni andine parlante lingua Quechua, non fosse stato per i suoi tratti genetici e lineamenti. L’eccezionale diversità esteriore di coloro che erano inclini a definirsi Chachapoyas o “Guerrieri delle Nubi” fu estensivamente descritta dai primi europei che li conobbero, dopo gli svariati secoli trascorsi a ribellarsi al potere incontrastato di Cuzco, in molte battaglie destinate il più delle volte a finire con copiosi spargimenti di sangue. “Di bell’aspetto” ed “I più bianchi tra le genti delle Americhe” le cui donne erano “Tanto affascinanti da essere frequentemente chieste in moglie dai dinasti delle istituzioni imperiali” lasciando ipotizzare a posteriori l’esistenza di un gruppo etnico estremamente distinto dai suoi vicini, in maniera potenzialmente analoga a quella degli Ainu giapponesi. Tralasciando tuttavia le successive ipotesi, secondo cui i suddetti potessero discendere da un pregresso insediamento edificato in epoca medievale dagli esploratori vichinghi giunti fin quaggiù dall’Islanda, costoro sembravano soltanto possedere tratti culturali tipici dell’area andina, ivi incluso un particolare rapporto con la sepoltura e la celebrazione dei propri antenati. Che includeva la costruzione del tipo di monumenti funebri a torre noti come chullpa, collocati sulle alture in vere e proprie piccoli necropoli destinate a sopravvivere intatte al calcolo d’innumerevoli generazioni. Ed occasionalmente, in determinate e non meno frequenti circostanze, l’implementazione del sistema di sepoltura tipico di quel contesto culturale del “pacchetto” o “fascio” funerario, in cui il defunto veniva disposto in posizione fetale prima dell’inizio del rigor mortis, assieme a copiose regalìe ed oggetti di valore tra cui stoffe, monili e pelli d’animale, appositamente accatastate al fine di accompagnarlo nell’oltretomba. Ed assicurarsi, nel contempo, la sua protezione e salvaguardia per molti anni a venire, un proposito talvolta esemplificato dalla costruzione di un apposito monumento. Soltanto molti anni dopo la pacificazione e parziale sterminio dei loro nemici, quindi, ulteriori spedizioni europee sarebbero riusciti a vederli: gruppi di sarcofagi antropomorfi in posizione eretta, situati in posizioni particolarmente alte ed irraggiungibili ma anche riparate dagli elementi, avendo garantito in questo modo la loro sopravvivenza fino ai nostri giorni. In molti casi ma non tutti, tra cui il più eclatante nonché notevole può essere senz’altro identificato nel sito archeologico di Carajía, non troppo lontano dalla città del nordest peruviano di Chachapoyas, provincia di Lima, regione di Amazonas. Una presenza altera e costante in una nicchia potenzialmente artificiale, scavata a 70 metri dal fondo della valle di Utcubamba. La posizione ideale per scrutare, tramite occhi senza tempo né palpebre, i frenetici avvicendamenti delle genti vissute per almeno cinque secoli a portata della loro immagine incombente

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Il gruppo di monoliti che rimette in discussione le capacità ingegneristiche del mondo antico

Tra le diverse categorie di teosofi di un corso della Storia alternativo, sono tutto considerato meno estremi quelli che predicano la pregressa esistenza di un’epoca remota in cui il mondo era popolato da massicce ed avanzate civiltà perdute. Un tempo di culture sofisticate e macchine complesse, per certi versi addirittura superiori a quelle della modernità, ma senza la diretta partecipazione di giganti, stregoni illuminati o visitatori provenienti da altri regni e dimensioni collaterali. E dopo tutto esistono dei luoghi, nel patrimonio archeologico della Terra, che difficilmente possono essere spiegati tramite l’applicazione del convenzionale nozionismo storiografico e filologico dei nostri giorni. Vedi il grande Tempio di Giove in Libano presso la città di Baalbek (ex-Heliopolis) con il suo basamento inclusivo di tre pietroni da 800 tonnellate ciascuno e vedi soprattutto le altrettante pietre ciclopiche, oscillanti tra le 1.000 e 1.650, abbandonate a circa un miglio nella stessa cava calcarea di epoca romana in cui vennero estratti, tagliati e preparati allo spostamento gli ingombranti materiali necessari a costruire uno dei siti più massicci, ed al tempo stesso stranamente poco conosciuti dell’intero repertorio architettonico del primo Impero Romano. Poiché questa è l’ufficiale datazione attorno al I secolo, elaborata grazie alla presenza di alcuni graffiti sulle più alte e irraggiungibili colonne del complesso, di almeno la maggiore parte delle sovrastrutture oggi largamente andate smontate o andate in rovina durante il lungo corso dei secoli pregressi nella turbolenta storia del vicino Oriente. Sebbene come dicevamo, siano in molti a ritenere possibile, se non addirittura probabile, che alcune delle opere più ingegneristicamente complesse furono state compiute millenni addietro attorno ai tempi delle similmente sovradimensionate rovine di Göbekli Tepe nella Turchia sud-orientale, forse più antica struttura mai costruita dall’uomo grazie ai suoi accertati 12.000 anni di età. Al fine di condurre riti assai difficili da immaginare con i dati di cui disponiamo, oppur volendo dare credito all’altra ala più estremista dei sopracitati teosofi, permettere l’atterraggio agevole di potenziali astronavi portatrici di liete novelle interstellari.
Le rovine del complesso dei templi di Heliopolis rientrano a pieno titolo, d’altronde, nella categoria delle opere difficilmente spiegabili proprio perché disallineate da ogni considerazione di tipo pratico, sulle modalità convenzionalmente giudicate ragionevoli nella costruzione di una grande opera di tipo religioso e civile. A partire dall’interrogativo niente affatto privo di fondamento sul perché i Romani avessero deciso di erigere la più spropositata e impressionante delle proprie opere architettoniche qui, ai confini dell’Impero nella regione del Levante, senza evidenti possibili vantaggi per il prestigio della classe dirigente tipicamente incaricata di sancire simili idee. Non è perciò impossibile immaginare l’importante ruolo di un oracolo affine a quello dell’antica Delfi, per la cosiddetta Colonia Julia Augusta Felix Heliopolitana, sebbene ciò non inizi neppure a spiegare l’utilizzo di qualcosa d’inamovibile come il trilithon (trio di pietre) del basamento, ed ancor meno l’esistenza delle loro controparti abnormi perfettamente tagliate e poi lasciate ad un tiro di schioppo dal luogo in cui avrebbero dovuto trovare un più probabile impiego. Quasi come se a prepararle fosse stato qualcun altro, prima che devastanti eventi storici e cataclismici lo costringessero ad abbandonare gli obiettivi finali del suo progetto di partenza…

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L’enorme muraglia costruita in Africa per proteggere la capitale del Benin

Esiste una modalità interpretativa della storia dei nostri predecessori secondo la quale, tra i molti criteri possibili, la migliore indicazione dell’importanza pregressa di una civiltà è individuabile nel lascito tangibile delle sue costruzioni durature nel tempo. Quasi come se la capacità di costruire utilizzando determinati materiali, e farlo prima di tanti altri, costituisse un merito del tutto imprescindibile, nella creazione di un’ideale classifica dei popoli attraverso il succedersi dei secoli e dei millenni. Ciò non spiega, tuttavia, la mancanza di agevolazioni nei confronti di tutti coloro che avendo raggiunto determinate vette, sono poi tornati nelle più profonde valli delle circostanze, a causa di risvolti spiacevoli o in qualunque modo inappropriati nella “naturale” progressione storica degli eventi. Ben pochi conoscono allo stato attuale, per esempio, l’esistenza pregressa di una grande muraglia superiore per le dimensioni al Vallo d’Adriano in terra d’Africa occidentale, ed invero paragonabile alla principale opera di fortificazione costruita 2.000 anni fa in Cina. E che sebbene posta in essere in un’epoca più recente di entrambe, viene giudicata in base a determinati criteri una delle più significative opere antecedenti all’invenzione dei macchinari pesanti. E tutto questo presumibilmente per la naturale esigenza del consorzio umano, di difendere le proprietà ereditate dalla cupidigia dei popoli, potenzialmente da quella stessa dei propri coabitanti. In base al mandato di un sovrano del tutto simile a una divinità e che proprio per questo, necessitava anch’egli di disporre di un’invalicabile barriera tra se stesso e gli altri, la propria famiglia, la propria stessa madre.
Quando i primi esploratori portoghesi, nel sedicesimo secolo, entrarono in contatto con il potente regno militarizzato di Edo, che per una mera coincidenza condivideva il nome con la capitale del Giappone all’altra estremità del globo, scoprirono dunque l’ultima cosa che si sarebbero mai aspettati: un vasto centro urbano nel mezzo di una costa selvaggia, altrimenti disabitata, eppur paragonabile nelle dimensioni e concentrazione demografica a luoghi come Lisbona o Porto. Dove l’esistenza di un codice legale era evidente, e la gente viveva in pace e un tale rispetto reciproco da non aver neppure bisogno di porte in corrispondenza dell’uscio delle proprie case. Eppure il viaggiatore Duarte Pacheco Pereira, redigendo un resoconto della propria visita, scrisse esplicitamente che non vi era nessun tipo di muraglia ma soltanto un fossato, forse per il categorico rifiuto di considerare tale l’inevitabile terrapieno risultante dallo scavo di semplice materia fangosa, compattato ed alto, ai suoi occhi nulla più di una friabile barriera. Altri, a distanza di meno di un secolo, non l’avrebbero pensata allo stesso modo, come esemplificato dai diari dell’olandese Dierick Ruiters, che descrisse nel 1600 un’alta porta utile ad oltrepassare la suddetta barriera, insolitamente ricoperta di vegetazione ed alti alberi perfettamente funzionali al suo rafforzamento. Volendo quindi prendere in esame l’intero estendersi di tale opera architettonica, incluso quello che rimane delle sue ali periferiche nelle campagne dell’intera regione, si può giungere alla cifra impressionante di 16 chilometri d’estensione, almeno quattro volte più della sezione coéva ricostruita e solidificata dalla Cina della dinastia Ming. Questo grazie all’originale periodo di consolidamento e sviluppo della manodopera garantito dall’egemonia del principe Ọranyan, figlio dell’Ogiso (Re) in esilio Ekaladerhan, che venne richiamato attorno al XIV secolo d.C. per proteggere il popolo dai suoi nemici e raddrizzare i torti imposti da una classe dirigente corrotta e priva di scrupoli. Ripristinando gli imperituri metodi esternati dalle vecchie metodologie di governo…

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Strane piccole bare: chi ha tumulato 17 bambole sotto l’antica rupe arturiana?

Quella mattina sul finire di luglio del 1836, la morte era nell’aria e i tre ragazzi non più grandi di 14 anni erano determinati a trarne un qualche tipo di giovamento. Così John, George ed Oliver (nomi di fantasia) si lasciarono alle spalle le propaggini esterne della loro città natìa, Edimburgo, per addentrarsi nella regione verde nota con il nome di Holyrood Park, uno dei tanti spazi ad uso pubblico nominalmente appartenenti alla famiglia reale. Ciascuno di loro aveva una mazza ricavata da un ramo di pino, laboriosamente levigato e appesantito con un sasso legato sulla sommità. Ed Oliver portava anche, inserito nella cinta, un lungo coltellaccio da macellaio prelevato dalla cucina dei suoi genitori. “Gliela faremo vedere, a quei dannati… Conigli.” Affermò costui. O lepri, che dir si voglia: poiché non era insolito a quei tempi, ed invero risultava addirittura un’usanza mediamente diffusa, che la dieta del popolo venisse integrata con la risultanza di battute di caccia informali, concettualmente non dissimili da quelle condotte secoli, o millenni a questa parte. Dopo qualche altro minuto trascorso nella spensierata, fu quindi il momento per John di dare il proprio contributo alla conversazione: “Ecco ragazzi, ci siamo quasi. Il figlio del calzolaio mi ha spiegato dove ha visto l’ingresso di una tana piuttosto interessante, sull’altro lato della rupe leonina. Come vi dicevo, dovremo arrampicarci.” Quella presenza estremamente familiare nel paesaggio antistante la città, la roccia vulcanica di Arthur’s Seat (il Seggio di Artù) che veniva citata nel poema elegiaco del sesto secolo Y Godolin come la fortezza principale del popolo dei Gododdin. Ed in tempi non così distanti, la presunta località ove sorse l’alto castello di Camelot, appartenuta al grande condottiero bretone che fu capace di unificare i popoli dell’Alto Medioevo e scacciare via il male del nostro mondo. Non che tutto questo interessasse particolarmente ai nostri tre giovani eroi, che raggiunte le irte pendici del rilievo, si legarono le armi primitive dietro la schiena. Ed un piede ed una mano alla volta, cominciarono a dirigersi verso la vetta della collina. Ora le cronache del tempo, o per esser più precisi i quotidiani pubblicati contestualmente al racconto, spiegarono che uno degli improvvisati cacciatori fu più lesto degli altri, ritrovandosi a tastare per pur caso quella che sembrava tanto essere una roccia preminente nella scoscesa parete del paesaggio. Potremmo dire che sia trattato di George. Sporgenza la quale, per sua sfortuna, cedette causando la sua rovinosa caduta a terra. Non da una posizione sufficientemente in alto da arrecargli un significativo infortunio, tanto che rapidamente tentò subito un secondo approccio. Soltanto per trovarsi di fronte, una volta ritornato fino al punto dell’incidente, a qualcosa di assolutamente inusitato: “John, Oliver, venite a vedere! Qui c’è un buco e qualcosa all’interno. Credo siano… Scatole di legno.” La sua prima impressione, tuttavia, si sarebbe molto presto dimostrata errata. Dentro il cupo pertugio ricavato dalla mano dell’uomo (o della donna) risiedevano 17 bare poste ordinatamente in due file da 8, con il resto di uno. La loro misura non superava gli 8-10 cm sul lato più lungo, ed erano state decorate con pregevoli fregi di stagno, simili a stemmi ed emblemi.
Lo svolgersi degli eventi, a questo punto, avrebbe preso una piega sconveniente: colpiti in modo abbastanza superficiale dal ritrovamento, i tre giovani raccolsero comunque gli strani oggetti attentamente sigillati, ed al termine di una battuta di caccia non particolarmente fortunata ai danni dei lagomorfi di Scozia, s’incolparono a vicenda, finendo per lanciarsi vicendevolmente con crudele accanimento alcuni dei fragili reperti in legno. Soltanto quando uno di questi si spaccò, aprendosi, avrebbero scoperto l’insospettabile verità: la presenza al suo interno di una minuscola figura antropomorfa del defunto, vestita di tutto punto con blusa quadrettata e pantaloni. Dopo un tale sinistro evento le fonti divergono, benché la sostanza consista di una serie di passaggi largamente acclarati. Meditando in merito all’opportunità che avessero per le mani qualcosa di prezioso, John, Oliver e George decisero di provare a vendere gli occulti reperti. E mettendo in mostra il proprio contegno più distinto e civilizzato, si recarono presso il negozio di Robert Frazier, gioielliere di Edwards Street. Che acquistò le bare a poco prezzo, mettendole in mostra nel suo piccolo museo privato…

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