Durante il corso della seconda guerra mondiale, la Danimarca si trovò ad affrontare, come molti altri paesi europei, una grave crisi delle risorse da sfruttare al fine di rimettere in moto la produzione di beni ed energia per i suoi abitanti. Il che portò all’implementazione di processi nuovi, ed il recupero di altri molto, molto antichi. Lo sfruttamento delle torbiere: paludi costituite da una massa di terra e vegetazione morta, intrecciata, compatta, particolarmente adatta ad essere bruciata per creare fiamme vive o veicolare il vapore all’interno delle turbine. Ma inoltrarsi oltre il margine di una superficie come questa, anaerobica e per questo in grado di serbare determinati materiali al pari di una magica dispensa millenaria, può anche significare aprire uno Stargate privilegiato con i tempi andati. Quello che successe, in modo particolarmente significativo, nel 1942 ad uno scavatore rimasto senza nome intento a infiggere la propria vanga a circa 0,7 metri di profondità nella località di Brøns Mose, isola di (vecchia) Zelanda, che udì il suono caratteristico del metallo che cozza contro altro metallo. E si trovò a tirare fuori… Strani rottami, detriti dall’aspetto bronzeo, anzi letterali pezzi di bronzo, la cui funzione e aspetto suscitarono ben più di qualche immediata domanda. Accantonati fino al termine della giornata di lavoro, i “pezzi” sarebbero stati dunque sottoposti quasi per caso all’occhio di un esperto, che li avrebbe immediatamente riconosciti per ciò che erano stati: esattamente due (2) copricapi dall’impostazione marziale, con vistose corna a forma di S ed un pattern decorativo a goffratura convessa ripetuta, del tutto riconducibile a determinati oggetti risalenti all’Età del Bronzo nordica e centro-europea, particolarmente della cultura dei Campi di Urne, sebbene altri aspetti nel complesso facciano pensare ad oggetti provenienti da terre lontane. Ben presto sottoposti ad un accurato studio tecnico e restauro sotto la supervisione del Prof. Kristian Kristiansen, che ribattezzandoli con il nome della vicina località di Veksø dovette da principio esimersi da una datazione precisa, gli elmi gemelli probabilmente risalenti al “primo secondo millennio a.C.” si rivelarono ben presto come oggetti dall’impatto visuale straordinario, degni di rientrare tra alcuni dei beni archeologici più significativi dell’intero patrimonio archeologico dei paesi del Nord. Troppo sottili e fragili per essere impiegati in battaglia, oggi si ritiene fossero degli oggetti per uso principalmente votivo, forse indossati dai membri di una casta sacerdotale o seppelliti in qualche cerimonia in quella che sarebbe diventata in seguito la palude di Brøns Mose. Il che solleva, piuttosto che ridurre, il numero senz’altro significativo d’interrogativi in materia…
età del bronzo
L’irrisolta questione archeologica del cubo verde nel Grande Tempio ittita
In una delle prime vicende storiche di cui si abbia una chiara ed integra testimonianza scritta, nel 1259 a.C. fu fissato finalmente l’importante incontro tra emissari del faraone d’Egitto Ramses II e l’imperatore Hattusili III, supremo signore delle terre d’Anatolia situate tra il Mar Nero e il Mediterraneo. Il loro obiettivo, stipulare la pace ritenuta infine necessaria, ben 15 anni dopo la devastante battaglia di Kadesh, costata ingenti perdite ad entrambe le vaste società della tarda Era del Bronzo, rispettivamente minacciate a questo punto dai Popoli del Mare e dagli Assiri, nemici molto più difficili da contenere. Il testo firmato da entrambi i sovrani dunque, immediatamente ritenuto sacro, sarebbe stato riportato sulle pareti dei templi di Tebe e di Karnak. Mentre gli antenati degli odierni abitanti della Turchia avrebbero fatto utilizzo di una più maneggevole tavoletta di argilla con iscrizione cuneiforme, destinata a trovare una collocazione nel maggiore luogo di culto della loro capitale Hattusa, situata 150 Km ad est dell’odierna Ankara. Un luogo in cui gli Dei trovavano accoglienza, nella forma terrena di statue in cui si riteneva risiedesse il loro spirito solenne, all’interno di maestosi templi. Nel più grande ed importante dei quali, secondo alcuni archeologi, risiede ancora adesso quello che potrebbe essere un addizionale pegno di quel significativo intento di pace: un cubo smussato di pietra tendente al verde, probabilmente costituito da nefrite o serpentina, del peso di una tonnellata circa e 69 cm di lato. Qualcosa che potrebbe o meno collegarsi al presunto potere mistico di ambo le tipologie di pietre, nei tempi antichi considerate da talune culture come in grado di arrecare guarigioni da svariate malattie, o la credenza folkloristica secondo cui tale implemento potrebbe contribuire alla realizzazione di qualsiasi tipo di desiderio. Ancorché appaia altrettanto plausibile l’ipotesi secondo cui l’oggetto potrebbe essere stato inviato come pegno da parte del signore del Nilo in persona, che a sua volta potrebbe aver ricevuto un dono simile dai suoi vicini che venivano in tal modo legittimati. D’altra parte nessuno studioso dal curriculum accademico degno di nota, a partire dall’inizio degli studi ittiti verso il concludersi del XIX secolo, sembrerebbe essersi espresso sull’argomento, essendo il materiale della pietra non così difficile da reperire nel contesto minerario della Turchia, né sufficientemente ponderoso da rappresentare un mistero dal punto di vista logistico e dei trasporti. Rappresentando in tal senso, nient’altro che l’ennesima testimonianza nel contesto di un sito chiave come quello di Hattusa, concettualmente indistinguibile dai numerosi possibili plinti monumentali o perché no, seggi temporanei per i praticanti di diverse possibili ritualità religiose. Ancorché resti necessaria sottolineare la distinzione estetica della pietra da ogni altra situata attorno, tale da aver suscitato nel corso dei secoli numerose teorie collaterali, senza contare i folkloristici pellegrinaggi condotti da coloro che speravano di ottenere un qualche tipo di concessione dall’antico, ponderoso simbolo smussato dal loro tocco attraverso innumerevoli generazioni pregresse. Il che, se non altro, ha salvato da un destino simile le altre imponenti e maggiormente documentate testimonianze di un’epoca ed un luogo, che potremmo individuare come uno dei primi esempi di ambiente metropolitano nella storia dell’uomo…
Fortezza e centro del potere nell’Età del Bronzo: Arkaim, dove la Russia cerca il mito della sua storia
Alle origini del concetto stesso di civiltà può essere individuata la doppia realizzazione da parte dell’uomo di essere contemporaneamente il più potente alleato, ma anche il peggior nemico di se stesso. Per cui qualsiasi traguardo possa essere raggiunto da una collettività indivisa, con altrettanta facilità potrà venirgli sottratto, in un secondo momento, da una quantità pari o persino inferiore di persone, fermamente intenzionate a percorrere la strada più bassa delle interazioni tra i diversi gruppi sociali. Quegli stessi appartenenti ai luoghi d’incontro che, nell’epoca del Paleolitico, avevano costituito funzionali roccaforti contro gli animali e gli altri pericoli della natura, e che grazie alla lavorazione successiva dei metalli avevano imparato a trattarsi vicendevolmente nello stesso modo. La punta della lancia, la freccia incoccata nell’arco, il filo tagliente della spada e a un certo punto, come corollario delle tecniche di predominio e accerchiamento, l’invenzione prototipica del carro da guerra. Forse la prima macchina nella storia dei popoli, nonché un gradino verso la creazione del concetto di città e stato. Poiché in quale modo sarebbe stato possibile sfuggire all’odio del tuo vicino, supportato dal potere dall’energia equina, se non costruendo mura alte e solide, possibilmente difendibili da una posizione sopraelevata? D’insediamenti come quelli ritrovati in grande numero nella zona Trans-Uralica, tra le città di Magnitorgorsk e Chelyabinsk, il più grande dei quali avrebbe dato il nome alla cultura dei Sintashta, gli antenati delle genti Indo-Iraniche che durante il secolo scorso iniziarono ad essere associati col concetto vagamente trasversale di “Ariani”. In buona parte scoperti e studiati dall’importante archeologo di epoca sovietica Gennady Zdanovich, il quale nel 1987 si sarebbe trovato innanzi ad una delle sue scoperte più importanti: la doppia fortezza concentrica con quattro porte, densamente popolata, che potrebbe anche costituire l’osservatorio più sofisticato costruito prima dell’Età Classica: quel sito di Arkaim chiamato non a caso, in particolari ambienti, la Stonehenge della Russia europea. Oggi poco più che un cerchio di pietre parzialmente ricostruito, dall’estensione di 20.000 metri quadri, ma che all’epoca ospitava oltre 60 abitazioni con focolai, cantine, pozzi e fornaci metallurgiche. Circondate da mura in mattoni d’adobo essenzialmente impenetrabili, nonché inerentemente difficili da incendiare. Il che rende ancor più misteriosa la maniera in cui attorno al XVI secolo a.C, dopo almeno 200 anni di utilizzo, la città venne probabilmente devastata dalle fiamme ed i suoi 1.500/2.500 abitanti decisero di trasferirsi altrove, in quella che doveva costituire all’epoca una delle regioni più densamente popolate dell’intero continente eurasiatico…
L’armatura che portò a rivalutare il livello tecnologico dell’Età del bronzo
Quanto è possibile mancare il bersaglio, quando si sta tentando di effettuare la valutazione retrospettiva di un popolo e le sue risorse, i traguardi e le aspirazioni di quell’epoca trascorsa? Soprattutto quando si sta parlando, com’era il caso specifico, di un contesto filologicamente ed archeologicamente noto, quale potremmo definire la società micenea del tardo periodo Elladico attorno al XV secolo a.C. Tremilacinquecento anni a questa parte in uno degli ambiti geografici più a lungo studiati ed approfonditi, causa il ruolo primario nella formazione di quel cursus culturale che avrebbe condotto, per il lungo corso di un’evoluzione costante, fino alla nascita del concetto di filosofia politica e collettività governata in senso moderno, tramandato dall’antica collettività degli Achei. Ciò che i due archeologi svedesi Paul Åström e Nicolaos Verdelis avrebbero trovato nella tomba 12 del complesso sito a Dendra in Argolide, presso la città greca di Midea, si sarebbe dimostrato di molto antecedente alla formazione delle suddette poleis ed ancor più antico degli stessi eroi omerici, che volendo contestualizzare in senso storico, potremmo mettere in relazione con quell’epoca dorata nella stesso modo in cui il Medioevo fece seguito alla conclusione cronologica del Mondo Antico. Una serie di guerre e catastrofi naturali, seguìte da invasioni barbariche di provenienza incerta, che avrebbe riportato indietro l’orologio del progresso tecnologico d’innumerevoli generazioni. Ciò detto sarebbe stato certamente ingenuo ritenere, come alcuni avrebbero preferito fare, che la civiltà creatrice della scrittura Lineare B da cui tanti frammenti e valide testimonianze furono inviate intonse per i lunghi secoli a venire, fosse stata pacifica e del tutto priva di nemici, laddove una parte significativa della loro cultura, religione e tradizioni sono state dimostrate provenire dai minoici dell’isola di Creta, la cui base conquistarono e spietatamente sottoposero ad ordini e sistemi di governo di loro esclusiva concezione. Prima di dirigere le loro mire di conquista verso l’Asia Minore, con la celebre campagna militare che Omero ci trasmise attraverso le gesta degli eroi narrati nel racconto dell’Iliade e dell’Odissea. Quale fosse la realtà di un mito, destinato a raggiungere la parola scritta del poeta cieco non prima di un intero millennio rispetto ai fatti ivi narrati, non è particolarmente facile determinarlo, benché oggetti come la panoplia di Dendra contribuiscano in maniera significativa, se non altro, a definire l’aspetto esteriore della faccenda.
Immaginate, a tal proposito, la prima versione possibile di un carro armato. Un guerriero sostanzialmente indistruttibile, che avanza sul campo di battaglia a bordo di un carro, ricoperto di metallo da capo a piedi, mentre brandisce contro gli avversari la sua lancia o lunga spada triangolare. Il suo elmo bianco come l’osso, ornato di un gran paio di corna o zanne di cinghiale, disposte su ordini alternati sopra un’intelaiatura di bronzo. Questo avrebbe potuto essere il guerriero possessore di un simile apparato o per quanto ne sappiamo, lo stesso Achille sotto le mura dell’orgoglioso Priamo, benché un così elevato livello di protezione ben poco si addica alla leggenda del tipico eroe immortale. Eppure la realtà dei fatti, per quanto era stato già possibile chiarirla in precedenza, parla di fasce e bande bronzee ritrovate nell’intero areale minoico fino alla caduta di quel mondo databile attorno al XII secolo a.C, nonché lo stesso ideogramma utilizzato nei riferimenti testuali al concetto stesso di armatura, configurato come una panoplia completa di spallacci e una gorgera particolarmente alta, probabilmente accompagnata da schinieri, parabraccia e un qualche tipo di abito imbottito, al fine di assorbire adeguatamente i colpi vibrati da un ipotetico nemico. Ma niente, fino a quel momento, che fosse stato possibile paragonare a pieno titolo ad un’armatura a piastre di epoche tanto successive…