La città bianca del Turkmenistan, marmorea capitale dal fascino ultraterreno

La disastrosa esperienza di un grave terremoto può costituire a posteriori molte cose. L’annientamento delle aspettative, la devastazione dei sistemi, la rovina delle famiglie. La fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Particolarmente quando, nel quadro d’analisi, si decidesse d’integrare il punto di vista di un’intera nazione. Come quella che nel 1985 il segretario del Partito Comunista del Turkmenistan, Saparmurat Niyazov, si sarebbe ritrovato a guidare dopo il progressivo ritiro degli interessi sovietici, fino alla caduta del muro di Berlino e conseguente rinascita di questa terra d’Asia come un luogo dall’economia rilevante, soprattutto in forza delle notevoli risorse minerarie ed energetiche nascoste nel suo sottosuolo. Lo stesso luogo d’origine di un disastro di 7,1 di magnitudine dalle radici tutt’altro che recenti centrato sulla capitale Ashgabat, risalente a 37 anni prima ed a causa del quale lo stesso Niyazov perse entrambi i genitori, finendo per crescere all’interno di un orfanotrofio. Eppure sufficiente a dare inizio ad un profondo cambiamento nello schema urbanistico del principale centro urbano (in effetti l’unico) del vasto ma poco popoloso territorio nazionale, quella stessa città che fin da tempi remoti aveva costituito un punto di scambio lungo l’estendersi della Via della Seta, famosa per i suoi vigneti. Così cresciuta nei secoli, a partire dall’originale consorzio di yurte semi-nomadi, fino all’agglomerato di bassi palazzi in mattoni di adobo menzionato per la prima volta nel XIX secolo negli scritti dell’autore russo Vasily Yan, il quale parlò estensivamente della disposizione regolare e prevedibile delle sue strade. Almeno fino alla devastazione scatenata in quel fatidico giorno, quando la stragrande maggioranza degli edifici alti più di un piano crollarono definitivamente e senza possibilità di appello, aprendo il sentiero a una totale riconsiderazione del piano regolatore, completamente privo di limitazioni imposte dall’alto. Ma sarebbe stato solamente dopo l’ottenimento dell’indipendenza nel 1991, e conseguenza salita al potere assoluto del suo primo presidente, che gli aspetti meno prevedibili di questo strano luogo avrebbero trovato l’effettiva opportunità di manifestarsi, portando ad una dura repressione sotto diversi aspetti, compreso per l’appunto quello dell’imprenditoria edilizia. Veicolato attraverso i crismi di un potente culto della personalità, spesso paragonato e non del tutto dissimile da quello della Corea del Nord, assieme al bisogno fortemente sentito di trovare nella stessa Ashgabat un prestigioso biglietto da visita di fronte agli occhi del mondo, nonché una possibile destinazione turistica tra le più attraenti della sua intera regione. Iniziò, in questo modo, il drastico progetto d’ampliamento e de-saturazione cromatica di un’intera comunità di circa un milione di persone. Alle quali, che ci crediate o meno, fu persino imposto di far verniciare di bianco le proprie automobili ed altri mezzi di lavoro…

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L’orso bianco nel canile che chiamavano Pastore dell’Asia centrale

Sperduto tra i colli aridi della Preistoria, circondato dai suoi molti nemici che ululavano e ringhiavano con un pesante intento di minaccia, il popolo del Turkmenistan fece la stessa cosa di molti altri venuti prima e dopo di loro: si circondò di mura, ed all’interno di esse posse venerande raffigurazioni dei propri spiriti ed antichi Dei. Creazioni antropomorfe in terracotta ma anche immagini d’altre creature, ritrovate oltre cinque millenni dopo nel 1965 presso il sito archeologico di Altyndepe, vicino Aşgabat in Turkmenistan, tra cui viene spesso citato, per la preminenza e l’importanza filologica, l’immagine ampiamente riconoscibile di un cane. Forse il primo esempio, del tutto inconfutabile, dell’avvenuta addomesticazione del nostro unico alleato di quei tempi nella lotta contro l’innata ferocia della natura, la testa squadrata con le orecchie triangolari e l’accenno appena visibile di una coda. Questo perché allora come ancora adesso ed in taluni ambienti particolarmente tradizionalisti, vigeva l’usanza di accorciare simili parti anatomiche, per massimizzare le possibilità del cane in combattimento. Crudele? Senz’altro. Ma tetramente utile, nel mondo di una volta in cui soltanto il più forte poteva sopravvivere all’incontro frequente con l’antesignano rivale di genìa lupesca. E forse proprio in quel confronto riesce a figurare la questione più significativa dell’intera faccenda; poiché sarebbe stato ragionevole, e in parecchi modi prevedibile, immaginarsi un’inerente somiglianza tra le due creature. Mentre da quella statuetta molossoide, così tozza e muscolosa, emergono i particolari tratti tipici di un cane che tutt’ora esiste. Essendo in chiari termini, e al di là di qualsivoglia tentativo ragionevole di negazione, giunto fino ai nostri giorni con l’aspetto e un gruppo di caratteristiche per lo più invariate. Ora poiché in questo mondo, naturale o meno, ogni elemento è sottoposto a una continua e imprescindibile tendenza a mutare, soprattutto in considerazione del genoma notoriamente “flessibile” dell’animale a quattro zampe per eccellenza, il fatto stesso che ciò possa essersi verificato può costituire un chiaro punto a favore della razza sredneaziatskaya ovcharka (Pastore dell’Asia centrale) più comunemente detta Altai. Ritenuta di gran lunga troppo utile, nell’assoluzione di una pluralità di mansioni, per poterla sostituire efficacemente con qualsiasi alternativa disponibile fino ad ora. Perché in essa, come nell’originale branco di lupi, figurano le predisposizioni complementari dei diversi membri capaci di attribuirsi reciprocamente i doveri: chi fa la guardia al territorio, chi procura il cibo, chi protegge il gregge affidatogli dai pastori umani. Propensione, questa, sorprendentemente imprescindibile nella specie C. lupus familiaris. Così come le forme ponderose messe in evidenza dall’idealizzata statuetta di Altyndepe…

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La piccola belva spinosa nel deserto del Karakum

Gli amanti della natura in televisione guardano ai cartoni animati “carini” con un senso d’insoddisfazione latente: quale dovrebbe essere il significato educativo di un animale che parla ed agisce con evidente compassione? Dove potremmo effettivamente collocare, una simile creatura, all’interno del sistema ecologico di azioni e reazioni che costituisce la catena alimentare? Perché la forma di ragionamento e il sistema di valori che permettono di definire il comportamento di un buffo personaggio, ogni singola volta, conduce a un fondamentale fraintendimento dello schema circostanziale di fondo. Più qualcosa, o un qualcuno, sembra piccolo e aggraziato, maggiormente possiamo aspettarci da lui un approccio alle cose spontaneo e per così dire, scevro di considerazioni ed orpelli morali affini al comportamento umano. Ecco un concetto scomodo dinnanzi a un certo tipo di pensiero comune, per il quale risulta piuttosto semplice trovare delle dimostrazioni pratiche. Vedi le scene come quella montata ad arte in questo breve documentario, offerto a scopo dimostrativo sul sito inglese del canale statunitense Discovery, oggi famoso soprattutto per il grande numero di reality e programmi istruttivi su come sopravvivere in varie tipologie di scenari “estremi”. Protagonista: il porcospino dalle orecchie lunghe del Karakum (Hemiechinus auritus megalotis) sottospecie di una delle varianti più diffuse nel vicino Oriente, lievemente più piccolo della variante europea, con i suoi 23-28 cm e 700-900 grammi di peso. Eppure perfetto per continuare la tradizione americana, esistente da almeno un paio di decadi, di mostrare la natura per quello che è, perseguendo una verità spietata e dunque proprio per questo, a suo modo, spettacolare.
È anche la risposta ad una domanda che non sapevamo di avere: quale connessione dovrebbe mai esserci tra l’azzurro e dinamico Sonic, protagonista dell’omonima serie di videogiochi, e il placido mammifero che al risveglio del letargo non è abbastanza veloce neppure per schivare le automobili durante gli attraversamenti stradali? Una creatura pacifica e bonaria sotto il suo manto di spine acuminate, che tuttavia nasconde un’anima necessariamente combattiva. Non stiamo parlando di erbivori, dopo tutto, e nemmeno di roditori-raccoglitori, bensì veri piccoli mammiferi predatori come i toporagni o Soricidi, capaci di fagocitare l’equivalente del loro peso entro il termine della giornata, in insetti, vermi, lumache, uova d’uccello, rettili e carne di vertebrati, uccisi grazie alla sveltezza e relativa potenza del loro morso. Una visione concettuale che d’altra parte, va ulteriormente potenziata quando si parla di questo cugino adattato a sopravvivere nel deserto, il singolo ambiente più difficile tra quelli che possiamo trovare lungo la circonferenza del pianeta terrestre. Lo spezzone si apre con lo zampettante protagonista che si ferma in agguato, poco prima di fare la propria mossa ai danni di un’impreparata cavalletta, i cui riflessi non possono nulla contro il balzo ferino del riccio affamato, più che mai pronto a procedere alla masticazione. Senza soluzione di continuità a quel punto, l’animale viene mostrato alle prese con un centopiedi dall’aspetto piuttosto agguerrito, che finisce istantaneamente decapitato ed aspirato dal musetto ricoperto dalle vibrisse, gli occhietti vispi e del tutto indifferenti al gesto di convertire un’altra insignificante vita in pura e fondamentale energia.
Ma è nel proseguire del documentario, girato nel vasto deserto che costituisce il 70% del Turkmenistan, che le cose iniziano a farsi particolarmente interessanti. Perché appare evidente per la legge del karma che un così famelico divoratore, fatte le dovute proporzioni, debba vivere a stretto contatto con degli agenti altrettanto abili nell’arte difficile di trovare il cibo tra le sabbie eterne. E non tutte, purtroppo, più piccole di lui…

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L’antico splendore metallico del cavallo d’oro

Dal punto di vista dello sviluppo tecnologico di un paese, vi sono vantaggi inerenti nel tipo di risorse disponibili all’interno dei confini del suo territorio: minerarie, per la costituzione di un particolare approccio all’ingegneria; idriche, nel campo dell’agricoltura e successivamente, la generazione d’energia. Ma ci fu più di un popolo, nel mondo antico, il cui destino fu sempre indissolubilmente legato a quello di una specifica razza di cavalli. Una faccenda che entrò a pieno titolo nella storia, secondo quanto ricordato dal grande narratore Erodoto, attorno alla fine del quinto secolo a.C, quando re Dario il Grande, durante la sua prima invasione della Grecia, si presentò alla testa di un esercito di 100.000 lancieri e “10 cavalli sacri, che accompagnavano il suo carro togliendo il fiato a coloro che avevano l’occasione di vederli”. Essi erano, per quanto fu chiaramente riportato, equini provenienti dalla città di Nicea, la città tra i monti Zagros oggi nota come İznik, la cui leggenda diventò un filo conduttore dei molti secoli a venire. Si diceva che lo stesso grande re di Persia fosse salito al potere quando l’imperatore achemenide Cambise II era caduto da uno di questi cavalli, proprio mentre il suo nitriva nella direzione dell’alba. Quando successivamente, nel 481, l’odiato Serse prese possesso della Tessaglia, lo fece in sella ad uno di queste magnifiche creature, che notoriamente fece gareggiare con le rinomate cavalle di quella regione, vincendo. Nel 479 a.C, poco prima della gloriosa vittoria di Platea, gli ateniesi elaborarono un piano specifico per uccidere il cavallo del generale nemico Mardonio, a tal punto era temuta la sua capacità di condurre una carica in battaglia. Mentre oltre un secolo dopo, all’inversione dell’intera tendenza del flusso delle civiltà, quando Alessandro Magno avrebbe infine invaso le terre dello sconosciuto Oriente, l’avrebbe fatto in sella ad uno di questi stessi animali, quel Bucefalo tradizionalmente rappresentato nel colore marrone chiaro che oggi sappiamo provenire da una combinazione dei due tratti genetici definiti Isabella e Palomino, rispettivamente ocra chiaro ed ocra dorato.
Ma non prima che detta linea ereditaria, per un tramite che il mondo ha sostanzialmente dimenticato, giungesse fino in Turchia, nella regione circostante le oasi a nord della catena montuosa Kopet Dag, nota come Akhal. Dove vivevano, da tempo immemore, le genti che sarebbero diventate note col nome di Teké, andando a costituire la principale tra le cinque tribù turcomanne. Ora, se è possibile affermare che la gente si adatta a ciò che il fato gli ha concesso per farsi strada in mezzo alla folla dei popoli confinanti, questo è del resto vero anche per i loro animali. Ed è così che quella razza, custodita e tenuta in massima considerazione da tutti coloro che ebbero la fortuna di possederla, venne qui allevata per lungo tempo, cambiando progressivamente attraverso i secoli a venire. Il cavallo di Nicea si trova, da un punto di vista della discendenza, alla base dell’intera genìa dei cosiddetti equini a sangue caldo, inclusivi del cavallo Arabo, quello Berbero, il Lusitano, ed anche il Turcomanno, cambiò significativamente in base a chi l’aveva adottato. Affinché potesse dare il suo massimo anche nelle terre dell’odierna Turchia, esso si guadagnò progressivamente degli zoccoli più sottili, perfetti per avanzare sul terreno roccioso, ed una schiena lunga per i lunghi viaggi, poiché a differenza dei Beduini, queste genti non possedevano la capacità di ammaestrare il cammello, ed utilizzavano quindi la stessa cavalcatura in guerra ed attraverso le loro peregrinazioni nella vastità del deserto. L’Akhal-Teké, come divenne noto all’incirca verso la fine del Medioevo, era per questo uno dei cavalli più resistenti che il mondo avesse mai conosciuto, naturalmente agile, snello e leggiadro nei movimenti, soprattutto in forza della selezione che ne era stata fatta al servizio di molte generazioni dei predoni locali, che sfruttavano principalmente l’arco, al contrario dei Persiani specializzati nelle cariche di cavalleria con la lancia. La cultura che nacque dietro all’allevamento di simili bestie, quindi, assunse gradualmente un che di mistico, conducendo alla soluzione, certamente innovativa per l’epoca, di tramandare di padre in figlio informazioni sulla linea di sangue dell’uno o dell’altro stallone e delle loro compagne. Era nato, attraverso soluzioni per lo più orali, il primo vero allevamento selettivo nella storia dell’uomo.

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