La pregna mole della statua riportata in superficie arando un campo kirghiso

L’evento si è verificato lo scorso 15 ottobre presso il villaggio di Ak-Bulun, nelle vicinanze delle sponde dell’antico lago di Issyk Kul. All’ombra della catena montuosa delle Tian Shan settentrionali, quando l’agricoltore Erkin Turbaev urtò improvvisamente un corpo estremamente solido con la lama del suo attrezzo più importante, un ponderoso aratro a traino veicolare. “Un fastidio non da poco” a questo punto della sua preparazione stagionale, pensò lui, finché non scese dal sedile del trattore per andare a guardare. Ritrovando immersa tra la terra quella che poteva essere soltanto un’imponente faccia di pietra, con occhi, orecchie ed un copricapo chiaramente definiti. Ma soprattutto un collo, collegato a quello che poteva essere soltanto un monumento originariamente verticale mirato a riprodurre un’intera figura umana. Chiamati quindi i suoi vicini, assieme a vari uomini di fatica provenienti dal vicino insediamento urbano, la compagnia si avvicendò a scavare e liberare nel corso di un intero pomeriggio il misterioso monumento. Per scoprire un’imponente statua adagiata sulla schiena dell’altezza/lunghezza di 3 metri d’altezza, le braccia scolpite a rilievo nel granito in quello che potrebbe sembrare un gesto di meditazione o di pace. Almeno finché non si nota, nella mano sinistra, la forma riconoscibile di un tipico akinak delle steppe d’Asia, coltello di origine sciita. Abbastanza da identificare, anche senza una preparazione specifica, l’oggetto come appartenente alla categoria di reperti pan-asiatica nota con il nome di balbal o “antenati” nella lingua dei Turchi, il popolo diffuso fin dai tempi antichi dall’Europa fino alla parte più estrema dell’Asia Centrale. Con un profondo significato storico e culturale, come pochi altri oggetti possono vantarsi di possedere nella storia di queste genti spesso nomadiche, del tutto disinteressate ad un lascito materiale capace di attraversare integro le distanti epoche a venire.
L’effettiva storia dei balbal dunque, per quanto è stato determinato attraverso gli studi compiuti nei tempi moderni, ha inizio attorno al VII secolo tra la tribù dei cosiddetti Turchi Celesti o Göktürk, cavalieri delle steppe che ereditarono il vasto territorio un tempo appartenuto all’impero degli Xiongnu a partire dal 546, successivamente alla salita al potere del Kaghan Bumin, Che non spingendo i propri interessi di conquista sempre più ad Oriente si ritrovò a guerreggiare con la Cina della dinastia degli Wei, che tuttavia seppe resistere alle sue armate incombenti. E nel 584 circa vide la minaccia dissolversi spontaneamente a causa di un’accesa disputa dinastica per la successione al trono ambito di quinto Kaghan. Nel territorio ormai diviso di queste genti avvenne quindi un cambiamento culturale verso il principio del VII secolo, che avrebbe portato all’adozione di un nuovo metodo per onorare i morti, non più basato sulla cremazione bensì la sepoltura sotterranea, lasciando per la prima volta un qualche tipo di struttura permanente sul tragitto delle loro incessanti migrazioni. Poiché non è possibile concepire l’effettivo concetto di una tomba, senza un qualche tipo di lapide appropriata…

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Strane piccole bare: chi ha tumulato 17 bambole sotto l’antica rupe arturiana?

Quella mattina sul finire di luglio del 1836, la morte era nell’aria e i tre ragazzi non più grandi di 14 anni erano determinati a trarne un qualche tipo di giovamento. Così John, George ed Oliver (nomi di fantasia) si lasciarono alle spalle le propaggini esterne della loro città natìa, Edimburgo, per addentrarsi nella regione verde nota con il nome di Holyrood Park, uno dei tanti spazi ad uso pubblico nominalmente appartenenti alla famiglia reale. Ciascuno di loro aveva una mazza ricavata da un ramo di pino, laboriosamente levigato e appesantito con un sasso legato sulla sommità. Ed Oliver portava anche, inserito nella cinta, un lungo coltellaccio da macellaio prelevato dalla cucina dei suoi genitori. “Gliela faremo vedere, a quei dannati… Conigli.” Affermò costui. O lepri, che dir si voglia: poiché non era insolito a quei tempi, ed invero risultava addirittura un’usanza mediamente diffusa, che la dieta del popolo venisse integrata con la risultanza di battute di caccia informali, concettualmente non dissimili da quelle condotte secoli, o millenni a questa parte. Dopo qualche altro minuto trascorso nella spensierata, fu quindi il momento per John di dare il proprio contributo alla conversazione: “Ecco ragazzi, ci siamo quasi. Il figlio del calzolaio mi ha spiegato dove ha visto l’ingresso di una tana piuttosto interessante, sull’altro lato della rupe leonina. Come vi dicevo, dovremo arrampicarci.” Quella presenza estremamente familiare nel paesaggio antistante la città, la roccia vulcanica di Arthur’s Seat (il Seggio di Artù) che veniva citata nel poema elegiaco del sesto secolo Y Godolin come la fortezza principale del popolo dei Gododdin. Ed in tempi non così distanti, la presunta località ove sorse l’alto castello di Camelot, appartenuta al grande condottiero bretone che fu capace di unificare i popoli dell’Alto Medioevo e scacciare via il male del nostro mondo. Non che tutto questo interessasse particolarmente ai nostri tre giovani eroi, che raggiunte le irte pendici del rilievo, si legarono le armi primitive dietro la schiena. Ed un piede ed una mano alla volta, cominciarono a dirigersi verso la vetta della collina. Ora le cronache del tempo, o per esser più precisi i quotidiani pubblicati contestualmente al racconto, spiegarono che uno degli improvvisati cacciatori fu più lesto degli altri, ritrovandosi a tastare per pur caso quella che sembrava tanto essere una roccia preminente nella scoscesa parete del paesaggio. Potremmo dire che sia trattato di George. Sporgenza la quale, per sua sfortuna, cedette causando la sua rovinosa caduta a terra. Non da una posizione sufficientemente in alto da arrecargli un significativo infortunio, tanto che rapidamente tentò subito un secondo approccio. Soltanto per trovarsi di fronte, una volta ritornato fino al punto dell’incidente, a qualcosa di assolutamente inusitato: “John, Oliver, venite a vedere! Qui c’è un buco e qualcosa all’interno. Credo siano… Scatole di legno.” La sua prima impressione, tuttavia, si sarebbe molto presto dimostrata errata. Dentro il cupo pertugio ricavato dalla mano dell’uomo (o della donna) risiedevano 17 bare poste ordinatamente in due file da 8, con il resto di uno. La loro misura non superava gli 8-10 cm sul lato più lungo, ed erano state decorate con pregevoli fregi di stagno, simili a stemmi ed emblemi.
Lo svolgersi degli eventi, a questo punto, avrebbe preso una piega sconveniente: colpiti in modo abbastanza superficiale dal ritrovamento, i tre giovani raccolsero comunque gli strani oggetti attentamente sigillati, ed al termine di una battuta di caccia non particolarmente fortunata ai danni dei lagomorfi di Scozia, s’incolparono a vicenda, finendo per lanciarsi vicendevolmente con crudele accanimento alcuni dei fragili reperti in legno. Soltanto quando uno di questi si spaccò, aprendosi, avrebbero scoperto l’insospettabile verità: la presenza al suo interno di una minuscola figura antropomorfa del defunto, vestita di tutto punto con blusa quadrettata e pantaloni. Dopo un tale sinistro evento le fonti divergono, benché la sostanza consista di una serie di passaggi largamente acclarati. Meditando in merito all’opportunità che avessero per le mani qualcosa di prezioso, John, Oliver e George decisero di provare a vendere gli occulti reperti. E mettendo in mostra il proprio contegno più distinto e civilizzato, si recarono presso il negozio di Robert Frazier, gioielliere di Edwards Street. Che acquistò le bare a poco prezzo, mettendole in mostra nel suo piccolo museo privato…

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L’improbabile campana da immersione che anticipò di quattro secoli lo studio delle Navi Romane

Nel 1926 una commissione costituita dal governo italiano, al comando dell’ingegner Corrado Ricci, affronta finalmente col criterio necessario la complessa faccenda. Al cospetto della quale per molti secoli, attraverso una serie di diversi approcci più o meno scientifici, generazioni successive di tecnici e archeologi avevano fallito miseramente: come riportare in superficie, finalmente, le due chiatte di epoca romana attribuite all’imperatore Caligola, da lungo tempo inabissate nelle acque del lago vulcanico di Nemi? Così vicine all’affollata capitale, che nei secoli tanto discusse e celebrate, che a più riprese erano state saccheggiate, danneggiate e parzialmente distrutte da maldestri tentativi di recupero, tra cui il sollevamento tramite galleggianti, gru portuali, semplice energia muscolare di persone ed animali. Finché non venne piuttosto deciso, in maniera molto semplice e diretta, di far defluire l’acqua dagli antichi canali d’irrigazione, lasciando che fosse la possanza gravitazionale del pianeta stesso ad occuparsi del resto. Ma se ci spostiamo con la mente lungo un tragitto ideale conduttivo fino a quel fatidico momento, attraverso i tanti cercatori che tentarono le auspicabili vette di gloria, sarà facile individuare come un punto di svolta quello in cui divenne finalmente chiara l’effettiva dimensione dei suddetti vascelli, misuranti esattamente 71×20 e 75×29 metri. Grazie all’impresa certamente coraggiosa, nonché stranamente avveniristica, di un celebre alpinista, militare e avventuriero italiano.
Francesco De Marchi, nato a Bologna nel 1504, aveva partecipato in prima persona alla battaglia di Pavia del 1525 e l’assedio di Firenze del 1529-30. Erudito autore di trattati, elaborò estensive di tecniche di fortificazione oltre che di filosofia e scienze naturali, approfondendo il concetto d’eruzione vulcanica e visitando direttamente svariate grotte e molte vette montuose d’Italia. Molto prima di raggiungere per primo la cima del Gran Sasso per la cosiddetta Via Normale nel 1573, il suo interesse sembrò dirigersi per breve tempo nei confronti del grande mistero laziale, portandolo ad avventurarsi negli abissi tramite l’applicazione di un’innovativa, quanto rischiosa tecnologia. L’impresa costituisce uno di quei corollari a un fatto storico di rilievo, normalmente menzionati in poche righe senza significativi spunti d’approfondimento negli articoli e le trattazioni di rito. Eppure se vogliamo prendere alla lettera il suo resoconto, descritto estensivamente nell’opera “Dieci libri sull’architettura civile”, l’effettiva metodologia impiegata sarebbe risultata in significativo anticipo sul progresso largamente noto di quel genere di tecnologia, che vede la prima campana d’immersione in senso moderno come un prodotto dell’astronomo Edmund Halley (quello della cometa) nel 1714. Questione da trattare rigorosamente col condizionale, s’intende, poiché il De Marchi racconta espressamente di aver giurato all’inventore del dispositivo in questione, un certo Guglielmo di Lorena che partecipò anch’egli all’impresa, l’assoluta segretezza nei confronti dei contemporanei e posteri futuri. Benché dal contesto e dalla situazione in essere, oltre ad un curioso aneddoto collaterale, sia possibile intuire almeno in parte l’effettiva natura della verità…

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La sorprendente ricomparsa scolastica del più antico oggetto dotato di funzionalità Bluetooth

“Mostra e racconta” è l’occasionale tipo di lezione scolastica, particolarmente rappresentativa di un certo stile d’insegnamento anglosassone e nord-europeo, in cui ciascun alunno viene invitato a portare un oggetto particolare, antico o in qualche modo interessante, su cui prodursi in una presentazione esplicativa nei confronti dell’insegnante e dei propri compagni. Gesto particolarmente funzionale a uno stile di studio tangibile ed apparente, per cui la storia dev’essere considerata in funzione di quanto è ancora possibile osservare coi propri stessi occhi e discutere attorno ad un metaforico cerchio attorno al falò del mondo contemporaneo. Ma potenzialmente poco conduttivo, nei confronti dell’astrazione accademica dei fatti trascorsi, modalità più versatile per approcciarsi agli eventi vissuti dai nostri predecessori. Eppure c’è stato almeno un caso, nel 2014 in Svezia, in cui l’effettivo svolgersi di un tale incontro ha saputo generare un effetto a cascata inversa, tale da cambiare sensibilmente la percezione a noi accessibile di un particolare personaggio storico, le sue gesta e il potenziale luogo esatto della sua morte. Individuo del calibro di Harald Bluetooth, re di Danimarca e Norvegia, deceduto poco più di mille anni prima dell’invenzione nel 1999 dello standard di comunicazione wireless che porta il suo nome, per via di un vezzo dell’ingegnere informatico suo creatore, Frans G. Bengtsson. Così come scritto e profetizzato dalla cosiddetta moneta (o disco) di Curmsun, ritrovata da una bambina svedese all’interno di una scatola di bottoni ed altra chincaglieria appartenuta a suo nonno, di cui nessuno sembrava conoscere l’effettiva provenienza finché non la vide, quasi per caso, il suo professore di storia.
Una laconica scritta in alfabeto runico, recante la dicitura latina: “ARALD CVRMSVN + REX AD TANER+ SCON + JVMN + CIV ALDIN” e sull’altra faccia una croce circondata da un ottagono e quattro puntini, potenzialmente corrispondenti ai quattro apostoli del vangelo. Il tutto inciso su una piccola medaglia di 4,5 cm di diametro, ricavata da un materiale ormai opacizzato che a causa del tempo trascorso, tutto poteva sembrare tranne che vero oro. Se non per il suo peso di 25 grammi, subito notato dal docente in questione, e l’assoluta coerenza logica dei fatti implicati dal reperto. A partire dalla parola Curmsun stessa, in realtà la riconoscibile quanto imprecisa traslitterazione runica della dicitura Gormson – figlio di Gorm (il Vecchio) riferito ad uno dei più importanti re della Danimarca. Quell’uomo con dente artificiale, o forse i molari scuriti dalla sua passione per un qualche tipo di bacca o potenzialmente il betel (Piper betle) antesignano lievemente psicotropico e proveniente dall’assai dell’assai successivo tabacco, così da essere soprannominato Dente Blu, che scelse di sottoporsi all’autorità spirituale del papato, convertendo nominalmente se stesso e il regno alla venerazione di Cristo mediante i metodi della tradizione medievale. Il che aveva incluso un battesimo, senz’altro, ma anche l’erezione di un’alta stele nota come pietra runica di Jelling (assieme ad un’altra che viene comunemente attribuita al padre) con un’incisione mirata a commemorare proprio tale importantissima conversione di stato, così come per inferenza la strana moneta ricomparsa quasi per caso dai magazzini polverosi della storia. Il cui strumento d’interpretazione più importante è proprio il luogo esatto della sua provenienza, ricostruito a partire dall’articolata storia del manufatto, che fu originariamente portato in quel paese dai due fratelli Sielski, combattenti della resistenza polacca che avevano trafugato alcuni artefatti antichi dalle sale di una chiesa in Pomerania Occidentale, per finanziare e tentare un qualche tipo di fuga dalla Wermacht tedesca. Iniziativa non del tutto riuscita, se è vero che uno di loro avrebbe finito per trascorrere il resto della guerra all’interno del campo di Auschwitz (da cui sarebbe tuttavia uscito vivo, riuscendo poi a ricongiungersi alla famiglia) ma che avrebbe permesso all’oggetto di raggiungere, assieme ad altri apparentemente di poco valore, la soffitta dove senza nessun tipo di attenzione pregressa sarebbe improvvisamente ricomparso sulla cattedra di una scuola. Portando al coinvolgimento di studiosi esperti, e di lì a poco, alla pubblicazione di un certo numero di articoli su testate di fama internazionale…

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