Di elefanti ubriachi che rapinano riserve fermentate nei depositi dell’India centrale

Volendo creare un elenco delle creature naturali più pericolose al mondo, 9 volte su 10 tenderemmo a tralasciare quelli con cui riteniamo di aver guadagnato un certo grado di confidenza, sulla base di plurime interazioni di seconda mano ed acquisite tramite letteratura documentaristica o le fiabe dei bambini di tutto il mondo. “Dolci” creature come l’elefante, tanto buffo quanto adorabile, tranquillo, intelligente e non del tutto privo di un certo livello empatia piuttosto simile a quella degli umani. Ciò che occorre tuttavia considerare in merito ad un animale dal peso di svariate tonnellate, è che nel momento in cui esso decide di volere qualche cosa, non c’è un modo semplice per fargli cambiare idea. O fermarlo, se è per questo. Con rombo di tuono e scroscio di rami spezzati, mezza dozzina di pachidermi possono piombare sopra gli abitanti di un villaggio impreparati. E senza colpo ferire, distruggere il prezioso frutto agricolo del lavoro di un’intera stagione. Questione largamente nota in varie iterazioni, sia nell’Asia meridionale che dentro i confini del continente Africano, dove la convivenza tra le specie non è sempre semplice. Avendo lungamente resistito, alle pressioni del progresso e della modernità, quel rapporto conflittuale tra l’ambiente e l’uomo che ormai da tempo ha visto il primo arrendersi nel cosiddetto Mondo Occidentale. Il che presenta vari punti negativi, ma anche alcuni notevoli, importanti vantaggi. Vedi la capacità di trarre benefici da prodotti endemici e dirette produzioni di rari sincretismi, totalmente originali rispetto alle comuni aspettative della gente. Sapevate, ad esempio, che è possibile trarre una bevanda alcolica dalla fermentazione dei fiori? Sto parlando del vino mahua, originario di luoghi come le regioni relativamente aride dell’Uttar Pradesh, l’Odisha, il Chhattisgarh, il Jharkhand, il Bihar, il Gujarat e il Maharashtra. Dove viene tratto dall’albero localmente comune del Madhuca longifolia, una sapotacea strettamente imparentata con il karité (Vitellaria paradoxa) e l’albero del chicle (Manilkara chicle). E che come questi ultimi, trova numerosi impieghi nella preparazione di creme, detergenti e burro vegetale. Ma possedendo un sapore notoriamente molto dolce, al punto da essere chiamato localmente “albero del miele” ha costituito da tempo immemore una parte importante della dieta di questi popoli, come ingrediente principale gastronomico e fondamentale fonte di un prototipico nettare degli Dei. La principale problematica in fase di preparazione, come dicevamo, è la necessità di essere conservato ai confini della giungla all’interno di apposite giare per un periodo di almeno una settimana. Così come stavano facendo la settimana scorsa gli abitanti del villaggio di Salipada nel Naugaon Tehsil, presso la costa dell’Orissa (distretto di Jagatsinghapur) quando l’olfatto straordinariamente fine dei loro più grandi problematici vicini percepì qualcosa d’interessante. Dando origine a quel tipo d’incidente per il quale è meglio voltarsi temporaneamente dall’altra parte. Ostentando chiara indifferenza, nei confronti di chi potrebbe calpestare facilmente tutte le proprie aspirazioni passate, presenti e future…

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Il prezioso Buddha di smeraldo nel palazzo che consolida l’identità culturale thailandese

Non è raro nei paesi dell’Estremo Oriente che le questioni religiose e di stato si trovino in un certo grado sovrapposte l’una all’altra, in una visione sincretica del mondo che trovò forse una delle sue massime espressioni proprio nell’antico regno dei territori del Siam. Dove fin da tempo immemore, nel corso delle confederazioni tribali antecedenti al primo periodo degli Khmer, il potere dei re e governanti era sancito da un qualche tipo di diritto divino, successivamente sovrascritto dagli schemi spirituali ed organizzativi del clero. Una situazione destinata solamente a rafforzarsi per gli interi periodi di Sukhotai ed Ayutthaya, corrispondenti al nostro Medioevo e primo Rinascimento, senza mai entrare in conflitto con l’affermarsi graduale del razionalismo o un qualche tipo d’istituzione civile diametralmente contrapposta. Fino alla divisione e successiva ricomposizione del paese, ad opera del potente re Taksin nel 1767, che ancora una volta agì con il beneplacito, e successivamente s’impegnò per proteggere i discepoli del Buddhismo Theravada (Scuola degli Anziani). Ma l’effettivo culmine di tale dualismo si raggiunse forse soltanto successivamente alla deposizione cruenta di costui nel 1782, con la conseguente ascesa del generale Thongduang che avrebbe fondato una nuova dinastia, passando alla storia con il nome di Rama I. L’uomo che costruendo una nuova capitale sulla riva est del fiume Chao Praya, affinché fosse meglio difendibile dal popolo nemico della Birmania, decretò per ragioni di sicurezza che in esso fosse presente un tempio dedicato esclusivamente alla sua famiglia, cinto dalle mura e distinto da quello di qualsiasi ordine monastico preesistente. Di cui lui stesso sarebbe stato, nei lunghi anni a venire, il sommo sacerdote e ministro delle attività di celebrazione. Quindi, affinché fosse chiaro per tutti che esso doveva costituire il singolo luogo più sacro dell’intero paese, vi trasportò all’interno l’insostituibile palladium, o reliquia protettiva di tutta quella che sarebbe diventata un giorno la Thailandia, un oggetto che lui stesso aveva conquistato per la patria nel 1779, a seguito delle proprie campagne alla testa dell’esercito in Laos: la statua del Buddha di Smeraldo, importantissima testimonianza del significato dato alle immagini in quella che potremmo definire come una delle principali religioni al mondo.
Essenzialmente, nient’altro che una raffigurazione scolpita nella pietra semi-preziosa (dovrebbe trattarsi di un diaspro con impurità d’oro) dell’Illuminato seduto in posa meditativa, dell’altezza di 66 cm e non particolarmente dissimile da tante altre presenti nel contesto geografico dell’Estremo Oriente. Il cui significato più profondo deriva, in massima parte, dalla lunga e articolata storia che ebbe modo di connotarla. La statua nascerebbe infatti, secondo una serie di testi storiografici tra cui il Ratanabimbavamsa, il Jinakalamali e l’Amarakatabuddharupanidana, nel 43 a.C. presso la città di Pataliputra in India, per mano del saggio Nagasena con l’aiuto divino degli Dei induisti Vishnu ed Indra, al fine di celebrare il quinto secolo dall’ascesa di Buddha al Nirvana. Prima di cambiare mano più volte attraverso gli alterni casi della Storia, aumentando progressivamente il valore percepito della sua singolare, ed insostituibile persistenza…

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In questo luogo nasce il timbro univoco di mille cetre d’Oriente

L’abile artigiano coreano taglia e leviga la lastra di paulonia un lato alla volta, dandogli una forma allungata che solleva nella mente immagini di skateboard pronti a scendere lungo il vertiginoso mezzo tubo di Tony Hawk. Ma al momento in cui starebbe per aggiungere le ruote, mani esperte incollano piuttosto delle sponde a quella forma lievemente concava o convessa (dipende, come si dice, dai punti di vista) e quindi forano, inchiavardano, sistemano il coperchio sull’estremità finale. La vera parte surreale giunge tuttavia nell’ultimo capitolo, quando presa una dozzina di corde, accuratamente le annoda e tende fino all’altra estremità, non prima di disporvi al di sotto un’intrigante serie di piccoli attrezzi realizzati con lo stesso legno. Quindi, annodando elegantemente il complesso groviglio risultante, inizia soavemente a pizzicare…
Alla corte ancestrale della dinastia Zhou, durata approssimativamente 700 anni tra il XII e III secolo a.C, i rituali che sancivano il potere passavano frequentemente per il ritmico vibrato dell’arte della musica creata da professionisti di due strumenti. Da una parte, il trillo rimbombante del bianzhong (编钟) complesso marchingegno con campane sovrapposte di bronzo, percosse alternativamente tramite l’impiego di multiple bacchette utilizzate allo stesso tempo. E dall’altra, la melodia riconoscibile del se (瑟) un’imponente cassa di risonanza in legno sollevata da terra come un’asse da stiro, sopra cui venivano laboriosamente tese una quantità variabile tra 25 e 50 corde di seta intrecciata, tenute sollevate mediante l’utilizzo di un pari numero di ponticelli grazie all’insegnamento del Dio della creazione Fuxi, artefice della Terra assieme a sua sorella Nuwa. Tralasciando momentaneamente il primo di questi strumenti, di cui abbiamo già parlato precedentemente in questi lidi, possiamo dunque affermare senza ombra di dubbio come nei letterali millenni a venire sia stato più che altro il secondo a generare un lascito duraturo nel tempo anche al di fuori di contesti specialistici e religiosi, grazie alla naturale predisposizione ad un processo che permette ad ogni cosa di adattarsi al mutevole contesto delle Ere: l’Evoluzione. Così scrutando il novero degli strumenti a corda dell’Asia Orientale, possiamo scorgere appoggiati al muro della conoscenza una pluralità di adattamenti ai contesti culturali più diversi, giunti fino a quei paesi grazie all’interscambio culturale e dei commerci. Attrezzi come lo yatga mongolo, il đàn tranh vietnamita, il kacapi giavanese… Non senza passare come tramite, s’intende, per i cambiamenti indotti nei contesti culturali più prossimi alla regalìa fondamentale della più antica e duratura dinastia del Regno di Mezzo, tra cui per l’appunto la versione coreana del gayageum (가야금). Giacché si narra del modo in cui presso la più vasta ed influente delle nazioni limitrofe, almeno verso la fine del periodo degli Stati Combattenti (453-221 a.C.) al termine del quale una Cina ormai divisa sarebbe stata nuovamente forgiata sotto l’egida del “primo” imperatore Qin Shi Huang, l’unico cordofono dal nome di una sola sillaba avesse già dato i natali a due derivazioni chiaramente distinte. La più importante delle quali collegata strettamente alla figura di Confucio, che poche generazioni prima aveva già lasciato il proprio segno indelebile nel sistema culturale e dei valori dei suoi numerosissimi connazionali mentre accompagnava le proprie lezioni strimpellando da seduto un oggetto vagamente misterioso. L’apparato musicale dall’alto livello di prestigio e complessità d’impiego, destinato a passare alla storia con il nome di guqin (古琴) ma poco udibile a causa dell’assenza di ponticelli. Più complessa l’origine semi-mitica, e teoricamente molto più antica, del guzheng (古筝) a 21-25 corde, la quale non risulta essere meno curiosa ed improbabile di quella di un dono divino, almeno dal punto di vista di un comune osservatore occidentale…

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Willimantic, la città temprata nel crogiolo sanguigno dei batraci taurini

Il reverendo Samuel Peters si svegliò nel cuore della notte all’improvviso, percependo nell’aria l’ineffabile sensazione del cambiamento. Le finestre socchiuse, nelle profondità tenebrose di quel periodo estivo e rovente del Connecticut centrale, lasciavano entrare una brezza lieve accompagnata a un suono distante. Come… Un sibilo, un sussurro! La voce senza timbro delle fate, pensò lui nel dormiveglia, avvertendo la necessità di assegnargli un qualche tipo d’appellativo pregno di un latente senso di poesia. Mentre già la sua coscienza scivolava nuovamente nella quiete del sonno dei giusti, le voci al piano terra lo riportarono forzatamente nel regno della veglia: “Credi che…” “Possibile che siano…” “Oh, no! Dobbiamo fare qualcosa!” Erano Jack, il suo servo personale assieme a Sinda, la moglie, che immediatamente aggiunse per buona coscienza: “Sssh, sveglierai il padrone!” Troppo tardi, penso lui. Ma ogni proposito di far presente la sacralità delle ore successive al tramonto, dopo il sopraggiungere dell’alba distante, venne meno alla realizzazione di… Quanto stava per accadere. Il suono di fondo, quello strano strumento musicale d’accompagnamento, stava lentamente e inesorabilmente salendo d’intensità. Mentre la melodia si arricchiva di grida e strepiti, terribili lamenti. Il suono dei tamburi e voci indistinte. Lo sguardo del reverendo si rivolse tutto attorno nella stanza da letto per fissarsi, infine, sulla statuetta di George Washington che gli era stata regalata, il Natale scorso, dal suo amico ed avvocato, il colonnello Eliphalet Dyer. Qualche settimana prima che quest’ultimo, spinto dalle sue inclinazioni patriottiche di vecchia data, arringasse il pubblico nella sala comune del municipio, riuscendo a formare un piccolo reggimento di milizia con cui recarsi a combattere in primavera i cosiddetti “indiani”. Termine ad ombrello che in quel 1754 tendeva a riferirsi, senza distinzioni degne di nota, a tutte quelle tribù dei nativi in territorio nordamericano (Canada incluso) che avevano deciso di allearsi coi francesi all’inizio della guerra coloniale dei sette anni. Ritrovando le antiche inclinazioni, o almeno così si diceva, al massacro indiscriminato dei civili, la raccolta dei loro scalpi e la riconquista degli antichi territori perduti. “Dio mio, dammi la forza…” Pronunciò tra se e se il predicatore, mentre senza ulteriori indugi si alzava rapido dal letto, impugnando il pregevole moschetto che tutti gli abitanti di Willimantic avevano ricevuto dal governatore al completamento di un breve servizio di leva “…Di difendere il mio gregge dalla violenza.” Ora stava scendendo le scale e mentre attraversava il salone principale, vide Jack con un bastone di legno lungo almeno quattro spanne, mentre la consorte si copriva la bocca con le mani già evidentemente preparata al peggio. Ora Samuel aprì la porta principale, comprendendo all’improvviso la gravità della situazione. Oltre alle voci unite all’unisono in un terribile peana, si udiva infatti il suono dei tamburi, come durante l’esibizione collettiva dei selvaggi nota convenzionalmente con il termine di pow-wow. Inoltre si udivano dei nomi, chiamati dalle voci querule nel vento: “Wight, Hilderken, Dier, Tete. Dier, dier, dier!” Ma quel che era peggio, è che qualcuno aveva già iniziato a sparare, probabilmente alla cieca, all’indirizzo del dolce declivio antistante alla chiesa…

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