Perché mettere una rana dentro il latte costituiva prassi utile prima di avere i frigoriferi a disposizione

Maestro incontrastato del suo tempio candido, signore che galleggia sopra il pelo della vasca sacra, gli occhi lucidi e sporgenti, le zampe aperte come placidi ventagli utili a ottimizzare la sua posizione orizzontale. Senza ieri, oggi o domani, medita sull’Universo, avendo conosciuto il proverbiale mondo fuori dal suo pozzo dove nacque come un singolo e spaurito girino. Ma non si può rimettere un batrace in bottiglia, più di quanto sia possibile farlo con il demonio in persona. Si può soltanto scegliere di metterlo all’interno del tesoro effimero dei popoli stanziali. Ciò che fuoriesce ogni mattino dalla mucca, per gentile concessione della natura. Oh, latte. Oh, latte che già verso il sopraggiungere del vespro, in certi giorni caldi eri propenso a diventare un brodo dal gusto sgradevole. Ed il giorno dopo, potenzialmente letale. Soprattutto in quei villaggi mitteleuropei o dell’area Russa, dove la breve durata dei mesi estivi non aveva dato luogo allo sviluppo di metodi efficaci per riuscire a conservare ciò che era commestibile, al risveglio di api, fiori e cervidi che gridano il proprio auspicio riproduttivo. Fatta eccezione per uno soltanto, che potremmo definire la venerazione dell’anuro, l’incoronazione del granocchio, l’immersione della florida e splendente raganella. Colui e/o colei (i batraci, dopo tutto, sono dioici) preferibilmente appartenente alla comune specie Rana temporaria che colta in mezzo alla foschia dell’ancestrale palude, il contadino trasportava fino alla dispensa ombrosa nella casa simbolo del suo mestiere rurale. Ed ivi con silente ed entusiastico senso d’aspettativa, calava giù ad immergersi dentro l’amata giara, già riempita al compiersi dell’ora della necessaria mungitura bovina. Risultato: nessun risultato. Il che era del tutto desiderabile in quello specifico contesto almeno fino al tardo XIX secolo, ove la trasformazione stessa era il problema di quel fluido in grado di costituire la perfetta coltura batterica per diventare senza un frigorifero, un maleodorante veleno. E questo nonostante gli anticorpi certamente potenziati, rispetto ai nostri domestici organismi frutto di anni di ottimizzazioni e ormai asserviti alla potenza incomparabile degli odierni medicinali. Purché l’operatore non sbagliasse, scambiandola per il superficialmente Bufo Bufo alias Rospo Comune degli umidi dintorni europei.
Un detto recitava in terra di Germania Der Frosch hilft, die Kröte verdirbt ovvero “La Rana aiuta, [così come] il Rospo rovina.” E in Francia Grenouille au lait, crapaud au diable. ” La Rana nel latte, il Rospo al Diavolo. Ma chi può dire quale oncia di sapienza empirica, quanta percentuale di saggezza popolare, risiedesse alla radice di una tale pratica, soltanto IN APPARENZA frutto di un folklore senza basi degne di essere considerate dall’angolazione del metodo scientifico nato nei secoli ulteriori…

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L’astuta ranatra dei boschi messicani, che gracida dal becco di un coccodrillo baritonale

I nomi comuni degli animali, come le loro alternative in lingua latina e greca, presentano frequentemente gradi di similitudine in funzione dei tratti condivisi da specie distinte. Soltanto che in tal caso, piuttosto che fenotipi si parla spesso di concetti, tratti distintivi riassumibili da vocaboli come “strano”, “diverso” o “singolare”. Chiunque frequenti assiduamente le pagine per amanti della biologia su Internet, ad esempio, avrà probabilmente familiarità con la celebre rana palla, che occupa pazientemente buche nel sostrato sudafricano in attesa delle stagioni umide occorrenti. O la rana pollo, delle isole caraibiche di Dominica e Montserrat, così chiamata per il sapore che caratterizza le sue carni, almeno in apparenza simile a quello del più diffuso uccello da fattoria. Ultimo capitolo di tale odissea onomastica, dunque, può essere individuato nel batrace che molti conoscono come la rana pala, causa la forma triangolare del suo casco cranico, in tutto e per tutto simile al versatile attrezzo usato per scavare o come arma da trincea nel corso di entrambe le guerre mondiali. Per lo meno all’interno di un certo numero di contesti nazionali, laddove nel suo Messico d’origine, questa Triprion spatulatus resta prevalentemente nota per il suo pico de pato, il “becco d’anatra” posizionato per l’appunto strategicamente, ai vertici di un’ideale geometria posizionata tra gli occhi e la capiente sacca di risonanza del sottogola. Una creatura al tempo stesso per lo più conforme alla definizione di un anfibio in zone non particolarmente umide, essendo il suo bioma situato principalmente nella parte meridionale del paese e ai margini dell’America Centrale identificabile come la foresta xerica di latifoglie decidue, dove lunghe stagioni calde vedono ripetersi, anno dopo anno, persistenti periodi di siccità. Il che costituisce d’altro canto la fondamentale chiave di volta interpretativa dell’intera configurazione di questi animali, non più lunghi di 101 mm nel caso delle femmine, ed 87 per quanto concerne i maschi. La cui collaudata strategia di sopravvivenza include, nei periodi non riproduttivi, la capacità di arrampicarsi fino al cavo dei tronchi o tra i densi cespugli di bromeliacee, ritrovando spazi angusti ove trascorrere le ore calde, in attesa di attaccare nuovamente all’alba ed il tramonto l’eterogenea popolazione degli insetti locali. Uno stile di vita che tende a richiedere la capacità strategica di difendere, contro eventuali predatori, l’ingresso di tali pertugi, prima tra le spiegazioni possibili della forma della loro testa, comune in modo apprezzabile anche alle altre due specie del genere Triprion, la petastatus dello Yucatan e la spinosus, o hylia incoronata dell’areale sudamericano. Il che costituisce a dire il vero soltanto la prima spiegazione possibile, per un animale non molto studiato che custodisce ostinatamente il suo principale mistero…

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Tiepido lucore nel torrente, è il ritmico sussulto della ranocchietta

Quanto dello straordinario corso dell’evoluzione è l’indiretto risultato, più meno ineluttabile, del bisogno imprescindibile di far trovare a ciascun maschio, la compagna ideale! Poiché senza l’interscambio genetico, e la conseguente moltiplicazione di ogni essere, non può esserci la nascita di nuove generazioni, né il progressivo perfezionamento dei fenotipi che porta al perpetuarsi dell’intero sistema della natura. Così magnifici piumaggi, creste svettanti, zanne appuntite, corna dalle ottuplici diramazioni. Così canti conturbanti e trilli melodiosi, nonché all’interno di un diverso ambito, il rauco gracidìo della rana. Eppure esistono determinati ambienti topografici, nella foresta più profonda dove cascatelle o rapide producono un chiasso costante, dove un simile approccio auditivo non può più affermare di essere abbastanza. Soprattutto quando si sta prendendo in analisi un tipo di essere non più grande di due centimetri e mezzo, ovvero in grado di trovare posto in mezzo al palmo di una mano. Ovvero non più rumoroso, se vogliamo, di un giocattolo elettronico con le pile prossime all’esaurimento. Dal che deriva la necessità di fare uso di segnali multipli per dare luogo al produttivo incontro tra i sessi, compreso un certo distintivo, e indubbiamente memorabile comportamento da parte di lui. Stiamo perciò parlando, se non fosse ancora chiaro, del genere Micrixalus nella famiglia Micrixalidae, diffuso unicamente tra i boschi della regione dei Ghat Occidentali in India, e all’interno di pozze montane tra i circostanti massicci di Sahyadri. La cui inclinazione può essere riassunta nel nome comune, ampiamente utilizzato anche a livello internazionale, di “rana danzatrice”. Ma come riesce a ballare, esattamente, un anuro? Per prima cosa, egli si premura di trovare una roccia o altro tipo di palcoscenico stabile presso la riva del suo acquatico ambiente abitativo. Non sarebbe certo appropriato, a tal proposito, se l’esserino in corso d’esibizione finisse per capovolgersi assieme alla piattaforma della propria scenografica ninfea, finendo magari tra le fauci di un pesce carnivoro che passava da quelle parti. Quindi con totale ed assoluta nonchalance, solleva alternativamente le due zampe posteriori, le allunga indietro e ruota in modo paragonabile alla lancetta di un orologio. Mentre apre a ventaglio i grossi piedi palmati, mostrando lo spazio bianco tra le dita e ruotandolo ripetutamente in senso perpendicolare la suolo. Dando conseguentemente luogo, sul fondale che contribuisce normalmente al mimetismo, al palesarsi di una serie di lampeggiamenti, ancor più irresistibili dei forti bicipiti di un culturista tra gli attrezzi californiani di Muscle Beach, LA…

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La corsa della rana che scongela i suoi sospiri per innamorarsi tra laghi montani

Singolare il senso di disagio ed inquietudine latente che è possibile sperimentare camminando tra i bianchi recessi di particolari ambienti alpini, come il ghiacciaio perenne che sovrasta un placido lago alpino all’altezza di 3.000 metri sul massiccio di Beaufort, nella regione francese di Savoy. Come se ci si trovasse, per quegli attimi, soggetti all’attenzione di dozzine di esseri, recentemente risvegliati e pronti ad eseguire l’impresa per cui, in un certo senso, sono venuti al mondo. Già, perché sotto la luce intensa del sole mattutino, dietro una solida cortina di neve e ghiaccio, la sopita moltitudine si sta sgranchendo i polmoni (ed altri organi coerentemente situati) prima di balzare fuori l’immane impeto che è stato calibrato, attraverso i lunghi secoli e millenni dell’evoluzione, al fine di concedere al proprio codice genetico l’immenso ignoto delle generazioni a venire. Un’attività che qui tende a richiedere, ancor più che in altri e innumerevoli luoghi, agilità, sveltezza, fisico scattante ed attenzione, mentre ci si inoltra sobbalzando tra i recessi di un terreno che non offre alcun tipo di facilitazione. Ce lo fa notare questo breve spezzone della terza serie di documentari Planet Earth, con l’inconfondibile voce del naturalista Attenborough, dedicato ad una specifica popolazione del batrace scientificamente noto come Rana temporaria o “rana comune” della lunghezza tipica di 6-9 centimetri, diffusa nell’intera Europa fatta eccezione per la penisola Iberica e parti dell’Italia meridionale. Oltre ai Balcani, molte zone dell’Asia e persino il Giappone, dove è stata probabilmente introdotta dalla mano umana. Questo per la sua notevole capacità di adattamento attraverso lo sviluppo fluido in fase di ontogenesi, ovverosia durante lo sviluppo dell’embrione ed in presenza di fattori esterni, tra cui spicca in modo particolare il clima. Ecco perché la rana soprannominata anche verde o marrone a seconda delle sue esigenze di mimetismo, può comparire in una pluralità di ambienti ed altitudini dal livello del mare fino alla cima delle montagne, dove non compare neanche un filo d’erba sotto la spessa coltre nevosa invernale. Un ambiente presso cui il breve letargo che caratterizza questa specie, normalmente capace di estendersi tra ottobre e gennaio, tende a durare qualche mese in più fino al concretizzarsi di una luce sufficientemente intensa, assieme al calore che può conseguirne riscaldando le intirizzite membra e l’entusiasmo per l’odissea che dovrà condurre tali anuri a coronamento. Svariate dozzine di metri più in basso rispetto alle loro buche scavate spesso in corrispondenza di torrenti o pozze sotterranee, verso quella che alcuni commentatori meno eleganti del celebre naturalista britannico non esitano a definire un’orgia gracchiante, luogo di conflitti tra i maschi e l’implementazione dell’amplesso finale. Purché al momento di raggiungere il teatro dell’accoppiamento, tale approccio non avesse avuto luogo già da diversi mesi, permettendo ai partner di una coppia di raggiungere il sito già in posizione universalmente compromettente. In una posizione che potremmo definire oggetto di un lungo collaudo antecedente…

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