L’ineffabile presenza del Divino è spesso resa manifesta da fattori di contesto accidentali, circostanze atipiche o di tipo transitorio. Dal punto di vista soggettivo di Teseo nel Labirinto, l’essere supremo da cui guardarsi e se possibile ricevere il via libera verso un piano d’esistenza superiore (lo stesso da cui, incidentalmente, proveniva) era senz’altro l’uomo con la testa del possente bovino. E non c’è niente che possa scrutare con maggiore tenerezza la malcapitata mosca nella ragnatela, che il proprietario zampettante di quel sospeso ed intricato recesso abitativo. Perché mai, allora, l’uomo del mondo contemporaneo non dovrebbe scendere a patti con l’essenza di ciò che, più di ogni altra cosa, condiziona e detta il ritmo della sua esistenza quotidiana? Quel prodotto inerentemente collaterale, eppur non meno necessario, cui abbiamo attribuito la definizione di “rifiuto”. Eppur mai, per quanto si possa continuare ad auspicarlo, sparirà dal segno e il passo dell’ininterrotto prosieguo della nostra esistenza. Il che presta l’incipiente prospettiva ad una ricca serie di eventualità ulteriori. Come l’emersione di un Demiurgo, quanto meno, per il prolungarsi del precipuo patto finzionale temporaneamente stabilito tra l’artista ed il suo fruitore. Colui, il primo, che domina la testa del draconico contesto. E colui che, invece, tenta di afferrarne per quanto possibile la coda e le ali. Un tema di fondo il quale, se vogliamo, prende vita e si anima rapidamente nelle opere dell’artista indiano Asim Waqif, praticante di una sua particolare versione della creatività di recupero, mirata alla messa in opera di colossali installazioni localmente specifiche in prestigiose gallerie, luoghi pubblici e musei di tutto il mondo. Realizzate, di volta in volta, mediante l’utilizzo preponderante del materiale che meglio sembra esprimere il concetto di fondo. Sebbene nel corso dell’ultima decade, ritrovando l’originale passione dell’inizio della sua carriera, tale plastica sostanza sembri esser diventata primariamente il legno di bambù, cui sembrerebbe in grado di donare una vita, ed al tempo stesso una mente, quasi del tutto indipendenti dal consueto approccio umano alle questioni della vita di tutti i giorni. Verso la creazione di un qualcosa come Loy (লয়, 2020) ovvero vedi sopra, il padiglione creato a Calcutta come tradizionalmente viene fatto in occasione della festa del Durga Puja, la cui propensione al Caos fondamentale degli spazi architettonici, posizionati a circondare ed in un certo senso proteggere la statua della Dea, sembra alludere in maniera trasversale alla questione tematica di fondo: “Schegge lanciate in modo incontrollabile noi siamo. Non questa materia iscritta alle nozioni del razionalismo del senso comune.” Se anche può sussistere una simile dicotomia, una volta che il creatore riesce a fondersi con la sua creazione. In questo caso tanto efficacemente individuabile nel saliente e continuativo rumore di fondo udito dalla civiltà vigente, ogni qual volta un singolo oggetto o materiale da cantiere sopravvive, nonostante i presupposti, all’unico scopo per cui era stato originariamente sottratto al mondo…
Sarebbe d’altra parte riduttivo, per non dire formalmente inesatto, voler definire questo artista moderno di Nuova Delhi mediante un singolo aspetto della sua visione o a dire il vero, anche una sola ancorché eclettica disciplina. Laddove Asim Waqif, nato nel 1978 ed originariamente formatosi presso la Scuola di Architettura della sua città pur non avendo un particolare interesse nell’esercizio pratico di tale professione, avrebbe iniziato già negli anni dal 2005 a fare il proprio ingresso nel mondo dell’arte formalmente definita con sculture e creazioni di concetto, frequentemente accompagnate da saggi scritti per coadiuvarne e renderne più solido il messaggio centrale. Con un primo studio creato nello stesso anno a Kohj mediante stecche di bambù legate con delle corde, che potremmo individuare come un prototipo di molte delle sue creazioni successive. Prima di riuscire a immaginare un modo migliore per avvicinare l’arte alla gente comune, mediante la creazione di pezzi concepiti per trovare posto in luoghi accidentali o dotati della propria storia, vedi “Agrasen ki bavdi yahan hai!” (2008) un pallone aerostatico capace di emettere suoni, di colore bianco e posto a fluttuare all’interno degli spazi definiti da un tradizionale bavdi (बावड़ी) il pozzo indiano a gradoni oggi meno utile rispetto a un tempo, per la contaminazione delle falde acquifere e delle piogge terrestri. Di nuovo ricomparso nell’opera HELP, consistente nella scritta eponima creata dal galleggiamento di bottiglie di plastica all’interno dell’acqua ormai tossica del fiume un tempo sacro dello Jamuna, affluente del Gange. Avendo in questo modo introdotto due tematiche, del messaggio ecologista di fondo e l’interattività a beneficio dei visitatori, che avrebbero costituito in seguito dei punti ricorrenti della sua visione d’artista. Così efficacemente agevolati a concretizzarsi in quello che potremmo definire come il primo indiscutibile successo internazionale, la creazione nel 2012 presso il Palais de Tokyo di Parigi dell’opera Bordel Monstre, una visione del tutto fuori controllo di assi di legno, pallet dimenticati, vortici di materiali da costruzione rimediati e cumuli di carta straccia, circondati da grafemi senza logica apparente tracciati su pareti e pavimento mediante l’uso delle bombolette di vernice spray. Un ambiente pensato per essere sperimentato direttamente, toccato e percepito con tutti i sensi, mentre ci si perde nell’imprecisione geometrica di tutto quello che può derivare dalla dolorosa percezione dello status quo vigente. Discussione che ritorna nuovamente al centro nelle ultime creazioni dell’artista, ove paiono convergere le multiple vie d’accesso verso il nesso irrinunciabile della questione di fondo. Fino all’appena presentata Chaal, di nuovo un “luogo della mente” da visitare in modo totalmente fisico, presso il Centro Culturale Nita Mukesh Ambani di Mumbai, al centro di un maelstrom di bambù interconnesso nella creazione d’archi e volute, con l’aggiunta di tamburi meccanizzati, sonagli ed altri strumenti, concepiti per suonare autonomamente quando qualcuno gli passa accanto. Con veri e propri spazi d’ascolto, simili ad amache, ove apprezzare ed in qualche modo tentare di dare un senso alla cacofonia eminente. Una trasversale via d’accesso, se vogliamo, ad un possibile stato di consapevolezza tanto collaterale quanto tasformativa del nostro rapporto con tutto ciò che siamo inclini a definire “di scarto”.
A completare questa breve rassegna di una mera piccola parte delle creazioni di Waqif (il cui catalogo completo è disponibile sul suo sito ufficiale ed include opere dal tono pacifista, create con residuati o scarti bellici di provenienza principalmente mediorientale) appare utile menzionare almeno un paio di citazioni che permettono di comprendere il suo rapporto con il mondo formale dell’arte ed il tipo di messaggio che, fondamentalmente, egli intende veicolare ormai da decadi di febbrile intento. La prima, una sorta di augurio metareferenziale e per certi versi sedizioso: “Vorrei indurre i ricchi a mettere nei propri lussuosi salotti dei letterali cumuli di rifiuti.” E la seconda in risposta ad un giornalista che aveva chiesto, durante una sua mostra internazionale, quale fine avrebbe fatto la materia prima utilizzata dopo il concludersi della kermesse. Al che, l’artista sorridente: “Finirà in discarica, naturalmente. Almeno che qualcuno sia abbastanza folle da pagare soldi veri per possederla.” Il che, anche accantonando la modestia più o meno fittizia che può sostenere una simile visione delle cose, appare innegabilmente conduttivo alla missione implicita dei suoi gesti pregressi. Abbassare alternativamente la cima della torre, oppure alzare il ciglio superiore del grande flusso antistante. Finché tuffarsi non sia più effettivamente necessario. Allorché galleggeremo nel superfluo che dilaga, tutti quanti, alla stessa identica maniera.