L’inconfondibile fragore che deriva dall’impatto della palla sul guantone mixteco

Ogni gioco di squadra degno di questo nome costituisce, essenzialmente, un esercizio di mantenimento dell’energia. La spinta inerziale dell’intento partecipativo, la volontà collettiva dell’insieme che diventa un unicum, lo stesso movimento andata e ritorno dell’oggetto al centro di tali attenzioni, sferoide dalla dimensione o peso grandemente ineguali. In determinate circostanze tuttavia, qualora ogni elemento di contesto possa dirsi di trovarsi in allineamento, quella vigorosa collezione di gesti e operazioni, condizionata da un preciso sistema di regole, può trasformarsi nel linguaggio comune di una produttiva dinamica sociale, verso il ritorno ad uno stile di vita proprio di radici ormai da tempo lasciate addietro nell’accumularsi dei trascorsi ulteriori. Decadi, secoli, persino millenni, sono così passati dal momento in cui seguendo un rituale dal significato ancestrale, le genti dell’America centrale si assiepavano tra i digradanti spalti di un campo di gioco stretto e lungo, entro cui passarsi il pegno del potere usando solamente le anche o gli avambracci, mentre tentavano di farlo transitare all’interno di elevati anelli posti a 2 o 3 metri da terra. Un’impresa… Difficile, al centro di quello sport che avrebbe in tempio odierni (ri)trovato il nome di Ulama, in assenza di fonti storiografiche sicure a cui fare riferimento. Possibile antenato produttivo di ulteriori passatempi, tra cui il più recente (benché abbia un minimo di quattrocento anni) stile operativo della cosiddetta Pelota Mixteca, così chiamata perché tipica di tale etnia degli “uomini del cielo” originaria degli stati messicani di Oaxaca e Guerrero. Una semplificazione, per certi versi, dell’antica metodologia di gioco permettendo al tempo stesso l’inclusione d’influenze provenienti dagli esploratori spagnoli, finendo per rassomigliare a un’interpretazione da telefono senza fili dei prototipi del tennis e della pallavolo. Uno spettacolo indubbiamente significativo, capace di coinvolgere due squadre di cinque persone l’una, in cui ciascun singolo elemento impugna lo strumento distintivo di un guanto di pelle, spesso e pesante al punto da ricordare per certi versi un’arma d’offesa. Stiamo effettivamente parlando, per essere più chiari, di un attrezzo borchiato che può giungere fino alla ponderosità di 3-5 Kg, per maneggiare il quale occorre un certo livello di preparazione e il giusto grado di cautela, al fine di non arrecare danni accidentali nei confronti di se stessi o gli altri. Soprattutto quando si considera l’impatto necessario e reiterato con la palla in questione, tradizionalmente costruita in gomma e del peso massimo 1,5 Kg, lasciando facilmente immaginare il tipo di contraccolpi derivanti dal tipico avanti e indietro di un’azione abbastanza concitata. Eppur così importante, al punto da venire spesso incorporata nelle feste o ricorrenze speciali, costruendo un filo ininterrotto e vivido verso le tradizioni di coloro che lo praticavano da prima. Persino, e in modo particolare, dagli espatriati che si sono stabiliti oltre il confine degli Stati Uniti, dove persistono da tempo numerose scuole specializzate nell’insegnamento della pelota, concentrate soprattutto nelle zone urbane di Los Angeles e Fresno (CA). Dove le diverse varianti di questo gioco, potenzialmente diversificato quanto i luoghi d’adozione dei suoi praticanti, trovano espressioni spesso parallele e mai considerate come in concorrenza tra di loro…

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Colpi di frusta e motorini: una tradizionale tecnica per far correre le trottole cinesi

Nel secondo giorno del torneo, piazza Jinyuan a Taiyuan risuonava del rombo di mezza dozzina di tempeste. Da un lato all’altro del vasto spazio pubblico, fino agli alti muri dei più vicini hutong residenziali, giovani ed anziani colpivano ritmicamente con la loro arma oggetti turbinanti sull’asfalto pianeggiante e battuto dal sole del primo pomeriggio autunnale. “Avanti, avanti!” Gridava semplicemente qualcuno. “Fatti sotto, se hai coraggio” e qualche volta il più tradizionale: “Prendi questo, traditore!” Stagliati verso il cielo azzurro, gli scudisci apparivano in tutta la magnificenza della loro pluralità di stili: con il manico di legno o in metallo ricoperto di pregiate strisce di cuoio, oppure semplice plastica rinforzata. La parte usata per colpire fatta col cotone o il nervo, o ancora fini quanto resistenti catenelle di splendenti anellini d’ottone. Tutte pronte ad abbattersi egualmente, nel momento culmine della competizione, sull’oggetto al tempo stesso di un così grande anelito ed apparente ostilità collettiva… Da Tuoluo (打陀螺) l’oggetto tondeggiante da una parte ed appuntito dall’altra, facente parte come in molti altri luoghi dell’ancestrale cultura ereditata dagli antichi abitanti del territorio. Ma inserita nel tessuto della società ad una pluralità di livelli più trasversale, come largamente esemplificato dai gruppi di persone di ogni età che s’incontrano ogni settimana per “fare attività fisica” mettendo in pratica le tecniche affilate nei molti anni di pratica pregressa dell’antica tecnologia rotante. E fino a casi estremi come l’attuale torneo “in stile libero” dove ogni metodo era ammesso, purché si riuscisse a mantenere in movimento il proprio attrezzo nei cerchi designati più a lungo dell’avversario. Un’approccio tanto aperto da essere potenzialmente pericoloso, come era fermamente intenzionato a dimostrare l’outsider di turno, il misterioso campione di luoghi lontani Wen Chiong. “Avanti ragazzi, mettetelo giù.” Disse all’indirizzo della sua crew, quando completato lo sgombero dell’area designata dai precedenti partecipanti, fu possibile procedervi agilmente con il lo scooter giallo canarino, portato a braccio dai suoi due sicofanti di molteplici battaglie. Che adagiato con appropriata attenzione il veicolo su un fianco, si posizionarono strategicamente in prossimità della ruota posteriore. Affinché lui, appoggiando a terra lo zaino, potesse tirarne fuori l’eccezionale Excalibur di una siffatta tenzone: 4 Kg di legno di canfora, perfettamente cesellato al tornio del suo villaggio. Con un mezzo sorriso, diede quindi il segno che accendessero i motori. Comunque fosse andata, ci sarebbe stato da divertirsi…

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L’antica utilità nascosta dell’oggetto che ha la forma di un dodecaedro romano

Ritrovati tra un migliaio di anni, la maggior parte degli oggetti del mondo di oggi si dimostrerebbero immediatamente facili da capire. Non ci sono particolari dubbi sulla funzione possibile di una tastiera, un mouse, un telefono cellulare. Lievemente più complesso, di suo conto, risulterebbe l’immediata comprensione dell’originale funzione di un Tamagotchi, un fidget spinner o un pupazzo Furby, nell’ideale assenza di fonti esplicative o pubblicitarie a cui fare riferimento. Non che vada molto meglio a noi che l’abbiamo! D’altra parte ciò è applicabile in modo analogo all’interpretazione delle antiche civiltà, ove può essere successo più volte che l’oggetto di turno sia rimasto privo di spunti d’analisi in ogni testo filologico da noi posseduto. Generando un fiume d’ipotesi spesso logiche, certe altre, diametralmente all’opposto. Esiste almeno un caso eminente, tuttavia, in cui nulla sembrerebbe essersi dimostrato utile a smorzare la selvaggia iterazione dei teorici, semplicemente in forza della propria unicità di forma, apparenza e l’interconnessione pressoché impossibile con ogni disciplina o tratto culturale a noi noto. Il che risulta più che mai apparente già dal semplice nome impiegato, meramente descrittivo nella sua natura di quanto gli occhi possono apprezzare d’istinto: un dodecaedro romano, ovvero la forma totalmente geometrica, assolutamente riconoscibile, di una monade sostanzialmente funzionale ad un’idea. Peccato che ogni singola persona di questa Terra, ormai da tempo immemore, ne abbia perso ogni ricordo sostenuto dall’evidenza. E di oggetti come questi, è assolutamente fondamentale sottolinearlo, ne sono stati trovati di gran lunga troppi a partire dal 1739 per poterli relegare al ruolo di semplici ornamenti, decorazioni prive di significato o la creazione autonoma di un artigiano locale. Ben 117 con dimensione variabile tra i 4 ed 11 centimetri lungo l’intero estendersi del principale impero dell’antica Europa, con particolare frequenza in Galles, Ungheria, Germania, Francia, Spagna e qualche volta in Italia. Spesso collocati nelle tombe di figure presumibilmente importanti, assieme ad altri tesori metallici o monete preziose. Già perché i dodecaedri stessi, alquanto inaspettatamente a giudicare dal contesto storico in cui li abbiamo collocati, sono tutti realizzati in bronzo, una lega tutt’altro che accessibile all’epoca del passaggio al sistema imperiale, per l’assenza di significativi giacimenti di stagno situati a meridione delle isole inglesi. Una considerazione, questa, che parrebbe limitarne in modo significativo le possibili qualifiche, facendone un oggetto di assoluto valore materiale e perciò difficilmente relegabile al semplice ruolo di ninnolo, umile attrezzo o passatempo. Almeno finché non si considera la dura legge della sopravvivenza: di dodecaedri in legno avrebbero potuto esisterne letteralmente centinaia di migliaia, se non milioni. Tutti andati persi, idealmente, come polvere nel vento dei millenni, all’usura inevitabile di un tale materiale. Con la palla nuovamente al centro, dunque, diamo inizio alla declinazione delle stravaganti elucubrazioni…

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Il vantaggio meccanico della moto giapponese all’interno dell’ovale di stato

Numero 5, l’uomo dalla tuta gialla con il casco bianco si presenta sulla pista accompagnato da un latente senso di perplessità da parte di chi ancora non era preparato ad aspettarlo. Per la forma strana del suo corpo, chiaramente deputata dalla spessa armatura simile a quella del football americano, che ne alza le spalle assieme alla protezione per il collo da motociclista, che lo ingobbisce. In mezzo a quelle moto carenate di tipo competitivo, e almeno un paio di supermotard di concezione francese, il suo veicolo a due ruote non è d’altra parte da meno: gli pneumatici sottili, l’assenza di sospensioni sul retro, il manubrio vistosamente storto, con un’estremità più alta dell’altra. Di sicuro, nessuno l’avrebbe dato come favorito. Ed in effetti al suono del via, in una corsa della durata di 4100 metri, non ci mette molto a rimanere ultimo, se non che le circostanze appaiono ben presto connotate da uno strano tipo di circuito. In cui ciascun concorrente resta pressoché costantemente inclinato ad un minimo di 45 gradi, curvando, curvando e curvando ancora. Così che, una curva antioraria alla volta, il samurai Quasimodo comincia irrimediabilmente a rimontare…
Non giudicheresti un pesce dalla sua capacità di scalare una montagna, a meno che si tratti del leggendario pesce alato che soggiorna tra le nubi che circondano il vulcano di Sumeru, asse cosmico dell’universo buddhista. Ed allo stesso modo, non daresti un voto a un’aquila di mare in base al tempo registrato in 10 giri su una pista ovale di 500 metri, della larghezza di 30 e circondata dallo sguardo attento delle telecamere, affinché nulla d’intrigante possa essere portato in tavola dai concorrenti di un’imprescindibile tenzone animale. Quella in grado di decidere, al concludersi del giorno, non soltanto chi sia il più abile ma anche i riceventi di una somma non indifferente di denaro, tra coloro che hanno scelto di scommettere seguendo una stimata tradizione locale. Poiché molte cose possono essere negate in merito al secondo arcipelago più vasto d’Asia, ma non che i suoi abitanti amino cimentarsi nella previsione del numero di palline di metallo uscite da una macchina (nel gioco nazionale del pachinko) piuttosto che i vincitori di un evento sportivo, particolarmente quando è in gioco il tradizionale montepremi con sistema parimutuel, dante ai migliori l’intero ammontare del corposo banco, meno i contributi e le commissioni. Al punto che a partire dal secondo dopoguerra, stanco di veder trarre un considerevole guadagno in quel mondo unicamente le organizzazioni non-legali della yakuza, al governo di Tokyo venne in mente di creare e regolamentare un calendario assai preciso e controllato di tali contingenze, creando il concetto quello che avrebbe presto preso il nome di kōei kyōgi (公営競技 – Concorso pubblico) attraverso l’applicazione di accorgimenti, modalità e controlli estremamente stringenti. Fino al punto, al giorno d’oggi, di poterne elencare ben quattro tipologie: cavalli, biciclette, motoscafi ed auto racing (オートレース) dove alquanto stranamente, l’auto in questione non è intesa possedere quattro ruote, bensì due di meno. Un tipico caso di storpiatura anglofona da parte di chi vive oltre i confini dell’Eurasia. Ma anche il primo verso di un haiku procedurale, conciso ed elegante come si confà ad un tale genere di composizione poetica. Il canto ritmico della marmitta delle circostanze avite…

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