Il significato nascosto nelle sequenze di nodi che tennero unito un impero

Fondamento del pensiero figurativo, il sistema logografico di una popolazione produce profonde ripercussioni nello schema dei valori, le priorità culturali e l’approccio ai problemi messo in opera dagli utilizzatori, offrendo sentieri non propriamente tangibili all’implementazione di un’identità collettiva. Così procedendo, un frammento alla volta, è possibile ricostruire l’origine di una determinata civilizzazione a partire dalle testimonianze invariabili, l’essenziale lascito delle generazioni trascorse. Ma tutto appare maggiormente difficile, nel suo complesso, qualora lo spirito della conoscenza sia stato espresso, piuttosto che tramite tavolette d’argilla o iscrizioni su pietra, mediante un mezzo per sua natura deperibile, purtroppo incapace di attraversare i secoli restando fondamentalmente integro nei suoi fattori costituenti. Rivolgete a questo punto l’occhio della mente ad un vasto territorio, della grandezza approssimativa dell’Impero Romano d’Occidente, attraverso cui strade di pietra permettevano ad agili messaggeri di sfruttare i muscoli delle gambe al posto di alcuna cavalcatura equina o d’altra immaginabile natura. Laddove costoro, che avevano il nome di chaski, si ritrovavano frequentemente a doversi arrampicare lungo irti passi gelidi, o discendere pietrosi scivoli dovuti alla continua erosione delle montagne. Cosa potrebbe effettivamente utilizzare costui, di meglio, che un leggero e maneggevole agglomerato di corde? Il cui nome era per l’appunto quipu o khipu: legare [assieme]. Siamo perciò in Ecuador, Perù, Cile, Argentina, Colombia… Una qualsiasi delle terre occupate, tra il dodicesimo e il sedicesimo secolo, dal cosiddetto Reame delle Tre Parti (Tawantinsuyu) eufemismo poetico destinato ad essere sostituito, nel proseguire della sua vicenda storica e successivamente all’arrivo degli Spagnoli, con il termine in lingua Quechua usato per riferirsi al concetto di “sovrano”: Inca.
È purtroppo nota e certamente pregiudizievole la maniera in cui, nell’analisi storiografica delle sue circostanze, questa società precolombiana venga spesso definita in base alle mancanze, piuttosto che i pur significativi traguardi che aveva saputo conseguire. “Guardate cosa sono riusciti a fare” afferma l’antropologo generoso: “Pur dovendo rinunciare a bestie da soma, l’invenzione della ruota, la lavorazione dei metalli, un sistema di scrittura realmente degno di questo nome…” Ed è probabilmente giusto l’ultima, tra tali affermazioni, a dover lasciare maggiormente dubbioso chiunque possieda del senso critico residuo nell’attuale circostanza globalizzata del post-moderno. Laddove in effetti un particolare sistema di notazione computazionale, ed assai probabilmente molto più di questo, faceva parte del repertorio strumentale dei chaski e dei khipu kamayuqkuna, una particolare casta o professione d’individui dotati di ottima memoria e capacità cognitiva, incaricati di decifrare all’arrivo il prezioso repertorio d’informazioni facente parte del maneggevole carico delle controparti. Un’impresa presumibilmente non semplice che ne faceva, così come avvenuto moltissimi anni prima per gli scribi dell’Antico Egitto, una risorsa straordinariamente preziosa per i propri sovrani…

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Colpi di frusta e motorini: una tradizionale tecnica per far correre le trottole cinesi

Nel secondo giorno del torneo, piazza Jinyuan a Taiyuan risuonava del rombo di mezza dozzina di tempeste. Da un lato all’altro del vasto spazio pubblico, fino agli alti muri dei più vicini hutong residenziali, giovani ed anziani colpivano ritmicamente con la loro arma oggetti turbinanti sull’asfalto pianeggiante e battuto dal sole del primo pomeriggio autunnale. “Avanti, avanti!” Gridava semplicemente qualcuno. “Fatti sotto, se hai coraggio” e qualche volta il più tradizionale: “Prendi questo, traditore!” Stagliati verso il cielo azzurro, gli scudisci apparivano in tutta la magnificenza della loro pluralità di stili: con il manico di legno o in metallo ricoperto di pregiate strisce di cuoio, oppure semplice plastica rinforzata. La parte usata per colpire fatta col cotone o il nervo, o ancora fini quanto resistenti catenelle di splendenti anellini d’ottone. Tutte pronte ad abbattersi egualmente, nel momento culmine della competizione, sull’oggetto al tempo stesso di un così grande anelito ed apparente ostilità collettiva… Da Tuoluo (打陀螺) l’oggetto tondeggiante da una parte ed appuntito dall’altra, facente parte come in molti altri luoghi dell’ancestrale cultura ereditata dagli antichi abitanti del territorio. Ma inserita nel tessuto della società ad una pluralità di livelli più trasversale, come largamente esemplificato dai gruppi di persone di ogni età che s’incontrano ogni settimana per “fare attività fisica” mettendo in pratica le tecniche affilate nei molti anni di pratica pregressa dell’antica tecnologia rotante. E fino a casi estremi come l’attuale torneo “in stile libero” dove ogni metodo era ammesso, purché si riuscisse a mantenere in movimento il proprio attrezzo nei cerchi designati più a lungo dell’avversario. Un’approccio tanto aperto da essere potenzialmente pericoloso, come era fermamente intenzionato a dimostrare l’outsider di turno, il misterioso campione di luoghi lontani Wen Chiong. “Avanti ragazzi, mettetelo giù.” Disse all’indirizzo della sua crew, quando completato lo sgombero dell’area designata dai precedenti partecipanti, fu possibile procedervi agilmente con il lo scooter giallo canarino, portato a braccio dai suoi due sicofanti di molteplici battaglie. Che adagiato con appropriata attenzione il veicolo su un fianco, si posizionarono strategicamente in prossimità della ruota posteriore. Affinché lui, appoggiando a terra lo zaino, potesse tirarne fuori l’eccezionale Excalibur di una siffatta tenzone: 4 Kg di legno di canfora, perfettamente cesellato al tornio del suo villaggio. Con un mezzo sorriso, diede quindi il segno che accendessero i motori. Comunque fosse andata, ci sarebbe stato da divertirsi…

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Ingegnoso praticante dimostra la realtà storica dell’arma di Scorpion il ninja

Bianco contro rosso dei due guerrieri della strada più famosi. Azzurro ghiaccio contro un giallo del deserto infuocato, in un mondo di ninja trasportati nel regno demoniaco per difendere (o distruggere) il Regno Terrestre. O ancora l’arcobaleno di colori della serie non cromaticamente codificata King of Fighters, derivante dall’incontro tra il cast di giochi prodotti in periodi molto differenti tra loro. Nella storia dei tornei d’arte marziali interattivi, e soprattutto quelli combattuti sugli schermi ludici a partire dalla prima metà degli anni ’90, la contrapposizione tra princìpi divergenti è la fondamentale risultanza di una simbologia visuale estremamente semplice da capire, pur essendo frutto di una serie di regole al base del concetto stesso di mitologia visuale. Il che risultava particolarmente vero nel successo multi-generazionale Mortal Kombat, di Ed Boon e John Tobias, tanto avveniristico per l’epoca da poter fare affidamento sulla digitalizzazione diretta su memoria ad accesso diretto di una serie di attori, animati proprio come fossero i personaggi di un film. Il che comportava necessariamente un dispendio in termini di spazio d’immagazzinamento molto superiore alla media del 1992, con conseguente limitazione del cast selezionabile dal giocatore. A meno che… E fu quello, di sicuro, un colpo di genio… Non si potesse far ricorso al cosiddetto palette swap, ovvero il mero cambio di colore tra due individui presumibilmente distinti, che poteva diventare più credibile grazie al potere dell’anonimato fornito dal tipico costume del guerriero furtivo. Naturalmente e in modo totalmente all’opposto rispetto al caso due colleghi karateka Ryu e Ken, per Sub Zero e Scorpion l’intento non era creare i presupposti per uno scontro ad armi pari, bensì diversificare il più possibile i due distinti combattenti, ragion per cui il primo fu dotato del potere alquanto originale di manifestare il ghiaccio dalla punta delle proprie mani, ghiacciando e annichilendo il suo avversario. Mentre per il rivale, come conseguenza di un lungo e probabile brain storming tra gli sviluppatori, si scelse di fare ricorso ad un qualcosa di decisamente più antico: l’arma tradizionale del kung-fu shéng biāo (繩鏢) ovvero letteralmente il dardo con la corda, usato per trafiggere ed in qualche modo misterioso, arpionare il malcapitato avversario di turno.
E non giungerà forse a gridare l’iconico e perentorio ordine “COME HERE!” citato anche nel titolo del video, il nuovo soggetto purtroppo senza nome dei documentaristi della Kuma Films, specializzata in artisti di strada e creativi atletici di vario tipo, ma per il resto sembrerebbe totalmente calato nella parte dell’originale vendicatore mascherato, nella maniera in cui riesce a manovrare con suprema maestria una delle armi più complesse dell’intero repertorio delle arti marziali cinesi. Tanto difficile da utilizzare, nella maggior parte delle circostanze immaginabili, da essere associata nel corso della storia della letteratura cinese ad un gran numero di personaggi e guerrieri semi-leggendari, piuttosto che alla vicenda di guerrieri effettivamente collocabili nel corso di vicende storiche acclarate. A partire dai feroci fuorilegge del famoso classico il Margine dell’Acqua (Shuǐhǔ Zhuàn – 水滸傳) molti dei quali popolarmente rappresentati nei dipinti e illustrazioni con stretta in pugno la lunga corda, e l’appuntito pendolo di questo insolito implemento d’offesa. Un contesto sostanzialmente informale dal significato logico assai evidente, quando si considera il principale vantaggio dell’attrezzo, che poteva essere facilmente riavvolto ed inserito in tasca o all’interno di una borsa, per spuntare fuori all’improvviso nel momento in cui fosse necessario difendersi da un aggressore. Ed è perciò innegabilmente illuminante, osservare la precisione e metodologia con cui questo vero e proprio artista manovra il suo puntale, avendo cura di mantenerlo in movimento per poi mandarlo rapidamente all’attacco, da angolazioni che potrebbero sembrare impossibili ai non iniziati, finalizzate a sorprendere ed in qualche modo tenere a bada eventuali spadaccini o altri armigeri tipo più convenzionale. Una seconda notazione all’origine di quest’arma si può rintracciare quindi nel duello tra il generale della Dinastia degli Han Occidentali (202-9 a.C.) Du Mu, contro il suo nemico giurato Cheng Peng che ne venne spietatamente disarcionato, o almeno così racconta il testo esplicativo sulle arti marziali di Li Keqin, “Armi flessibili: la frusta a nove sezioni ed il pugnale con la corda”. Un abbinamento che lascia molto chiaramente trapelare, con valido sentiero d’accesso all’approfondimento, quel ricco catalogo di attrezzi alternativi. Facenti parte di una serie di tecniche che molto presto si sarebbero trovate in bilico tra approcci all’annientamento, nonché veri e propri spettacoli di formidabile maestria attraverso il corso dei secoli a venire…

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Ore norvegesi nella lunga fabbrica delle gomene

Tecnologia che proviene da una lunga tradizione e la complessa storia di un’industria, forse oggi meno rilevante di una volta, ma non non meno necessaria per fare una cosa, sopra ogni altra: garantire la natura autentica di un possente veliero. Nave dei tempi che furono e notevole esistenza in mare, il cui sartiame, tanto spesso, siamo indotti ad ignorare. Come i fili di una marionetta, come la struttura interna di una collana di perle, semplice motore interno alla “struttura” che non ha un significato metaforico degno di venire messo in evidenza contro il resto della propria circostanza d’impiego. Ma quando ci pensi, se consideri cosa c’e dentro, appare chiaro che dev’esserci al suo interno un qualche tipo di segreto ovvero il nesso ultimo della sapienza, coltivata in luoghi le cui ultime caratteristiche provengono dalle ragioni del bisogno e della pratica di lunga data. Il cui nome, in lingua norvegese, è reperbane (corderia) ed è questa che vediamo in azione, nel caso specifico, presso la cittadina di Älvängen in Västra Götaland. In un luogo che viene chiamato oggi Repslagarmuseet ovvero per le regole agglutinanti di questa lingua, una lunga parola che significa “museo della corda” benché in tempi precedenti fosse stato null’altro che l’azienda rinomata di Carlmark AB, aperta nel remoto 1848 e venduta dopo più di un secolo nel 1983, per sopraggiunta variazione sostanziale del contesto marittimo vigente. Eppure molti furono, in tale occasione, a protestare contro la presunta demolizione dell’insolito edificio, e poi di nuovo nel 2003, quando logiche di quella stessa provenienza avevano presunto di riuscire a trasformare il suo terreno in parco cittadino scevro dell’ormai desueta rimanenza tecnologico-industriale. Ed è assai palese per questi occhi la ragione, di una simile tendenza alla conservazione, quando si prende atto della significativa valenza storica di questo luogo ricco di antichi macchinari, know-how tecnico e capacità manuali decisamente al di sopra della media. In un video prodotto, per l’appunto, dal museo marittimo di Hardanger (non molto vicino: 682 Km più in là e all’interno dell’omonimo fiordo a sud di Bergen) i cui rappresentanti si trovavano in visita, al fine di supervisionare il copioso ordine di cime per la nave a vela Götheborg, fedele replica di un mercantile rinascimentale completata nel 2005. Per la cui sovrastruttura, semplicemente, non sarebbe mai potuto sembrare soddisfacente l’impiego di una corda di provenienza e fattura moderna, per la funzionalità, lo spessore e l’aspetto eccessivamente anacronistici all’interno di un simile ambito d’impiego. Ecco dunque l’occasione di mostrarci, finalmente, il vero approccio alla trasformazione della materia prima in molti utili metri di pregevole corda; sostanza fibrosa la cui origine, come potreste ben sapere, è la variante della Cannabis sativa usata come canapa industriale (vicina parente della gānjā o marijuana che dir si voglia) attentamente instradata all’interno di una filiera produttiva che potremmo addirittura definire, col tipico gusto estetico del post-moderno, conforme agli stilemi del genere letterario e artistico dello steampunk

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