Leggiadro Sørvágsvatn, lago che si libra sulle onde dell’Atlantico settentrionale

È un’illusione rinomata quella della Fata Morgana, estrusione ottica di forme verticali simili a castelli o fortezze, che si elevano al di sopra della linea dell’orizzonte. Una forma di miraggio, causato dalla modifica dell’indice di rifrazione per via dell’inversione termica, esso è noto per la sua capacità, talvolta pericolosa, di sviare i naviganti. Una visione di tipo letteralmente opposto, tuttavia, può effettivamente presentarsi a quelli di loro che transitando in prossimità delle poche terre emerse presso il grande Nord che anticipa il Circolo Polare, dovessero avvicinarsi da ovest al verdeggiante arcipelago delle isole Faroe. Volgendo l’anelito che guida quelle navi verso la presenza paesaggistica che, da un qualsiasi punto di vista immaginabile, parrebbe provenire dall’altro lato della barriera che separa il mondo onirico e la tangibile, umida realtà: nient’altro che un lago. Apparentemente sospeso, sopra l’arco di un possente faraglione, a una quantità spropositata di metri sopra l’infrangersi delle onde, continuando ad un livello superiore l’affascinante ed altrettanto iconica tendenza a rispecchiare il cielo. Uno spazio per la vita ed uno spazio per i sogni, che s’incontrano nella fondamentale intercapedine di due strati sottilmente incoerenti. Sulla base del nozionismo acquisito e a dire il vero, anche la disposizione materiale del paesaggio, oltre l’anamorfica e altrettanto transitoria percezione delle circostanze. Perché questo è Sørvágsvatn, alias Leitisvatn, alias vatnið (“il lago”) principale specchio d’acqua dell’isola di Vágar e l’intero sciame delle sue consorelle, per cui il prato ininterrotto circondato da scogliere alte e inaccessibili è un semplice stato imprescindibile delle cose. Pur essendo, ciò detto, non così tremendamente impervie quanto si potrebbe tendere a pensare. Questo perché il lago serpeggiante in questione, con un’area totale di 3,4 Km quadrati, è alla base di un celebre fraintendimento delle percezioni visuali, particolarmente diffuso nell’epoca di Internet, che porta a sopravvalutare in modo significativo i presupposti dell’unicità del suo paesaggio d’appartenenza. Ecco dunque, senza nulla voler togliere a simili meriti ereditati, l’effettiva (strabiliante) verità delle cose…

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L’esperienza della coppia che ha saputo veleggiare oltre la barriera tra i due oceani del mondo

“Oh, andrebbe tutto bene, se soltanto il vento soffiasse nelle nostre vele! E noi continueremo a stargli dietro. E spingeremo il vecchio carro lungo il cammino. Una goccia del sangue del vecchio Nelson non ci farebbe alcun male.” Così recitava una delle canzoni recitate in onore di coloro che, attraverso le proprie vicissitudini marinaresche, si erano riusciti a guadagnare l’ideale simbolo di merito, e le conseguenti ricompense, di essere sopravvissuti alla prova finale di quel mondo. Un’impresa giudicata impossibile finché nel 1578 una delle navi impegnate nella celebre circumnavigazione del globo guidata dall’esploratore Sir Francis Drake, la Golden Hind, non venne spinta verso meridione da una tempesta mentre si trovava alla ricerca dello stretto di Magellano. Per trovarsi all’improvviso, con suprema sorpresa di ogni singola persona situata a bordo, in un vasto e ininterrotto tratto di mare: l’intercapedine situata, nelle precise mappe della nostra epoca, tra la punta meridionale del Cile e l’estrusione perpendicolare del più meridionale dei continenti. Ma poiché di necessità virtù sarebbero serviti “solamente” altri 38 anni perché gli olandesi Willem Schouten e Jacob Le Maire si avvicinassero a quello svincolo remoto, avendo cura di restare nella misura possibile vicino alla terraferma. Per poi chiamarlo, una volta attraversato il punto critico, come la città natale del secondo di loro: Kaap Hoorn. Un tratto di mare battuto da venti feroci e situato all’ombra di una costa frastagliata e scoscesa che non avrebbe lasciato scampo in caso di naufragi, di cui ancora lo stesso Charles Darwin avrebbe parlato con timore e reverenza durante il viaggio della HMS Beagle quasi due secoli dopo. Ma che oggi può essere affrontato con maggiore sicurezza, grazie alla solidità delle navi, gli strumenti di navigazione satellitare e la precisione della meteorologia moderna. Soltanto, in pochi ci saremmo immaginati di poter vedere agevolmente una scena simile: due persone a bordo di una barca a vela di quattordici metri, con l’unico aiuto addizionale del cagnolino di famiglia, che scherzando e ridendo si avventurano in quei luoghi come fosse la più ragionevole delle scampagnate. Mentre un cielo ragionevolmente plumbeo, ed una superficie che non è certo una tavola minacciano possibili e inquietanti conseguenze per la loro fragile incolumità personale. Un’impressione molto significativa per coloro che osservano Kate e Curtis della Sweet Ruca, influencer velici con 26.000 iscritti al proprio canale, senza particolari informazioni pregresse ma che tende ad essere alquanto ridimensionata nel momento in cui si apprende l’elenco delle loro numerose esperienze pregresse. Prendendo atto della determinazione, ed innegabile perizia, dimostrata negli oltre 100 video registrati nel corso degli ultimi tre anni, spesi al fine di approntare ed eseguire un effettivo giro della Terra partendo dal porto di Newport, in Rhode Island (pur essendo entrambi originari della regione dei Grandi Laghi). Un qualcosa che avrebbe necessariamente implicato, in base all’acclarata convenzione, il diritto a un vecchio marinaio di portare DUE orecchini e mettere ENTRAMBI i piedi sopra il tavolo. Per aver saputo dare prova di se stesso innanzi allo sguardo severo del Dio Nettuno…

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L’atletica maniera per domare il mostro di cemento che protegge il Giappone

In un video alquanto memorabile l’esperto di parkour australiano Michael Khedoori procede con agilità spettacolare in quello che potremmo definire un vero e proprio percorso di guerra. Da una stretta superfice all’altra, sopra un mare letterale di estrusioni geometriche, salta innanzi e sotto ed oltre una foresta pietrificata di ottime intenzioni, effettivamente più simili allo scheletro di un grande animale. Lasciato lì ad assorbire l’energia solare un mese alla volta, un anno dopo l’altro, finché il giorno non verrà in cui egli dovrà ritornare finalmente utile, innalzandosi a formare il baluardo del terzo pianeta di un kaijū benefico dell’era Seijin. Godzilla scorporato e replicato a profusione, dalla stessa energia atomica che gli aveva dato i natali. E sebbene sia altamente probabile che la scena in questione si svolga nell’Australia natìa del suo protagonista, c’è soltanto un luogo, tra tutti, in cui un simile principio creativo potrebbe essere condotto fino alle sue più estreme conseguenze, considerato il modo in cui l’oggetto tende a ricoprire circa il 50% dello spazio utile sui sui 35.000 Km di costa.
In un’antica leggenda folkloristica dell’arcipelago nipponico, un colossale pesce gatto giace incatenato ad una pietra tra le tre isole maggiori del Kyushu, Honshu e lo Shikoku. Intrappolato in questo luogo dal dio del fulmine Takemikazuchi, esso trascorre i secoli dormiente, restando immobile ad immaginare tempi migliori. Di tanto in tanto, tuttavia, agitandosi per qualche minuto, scuote la Terra dalle sue stesse fondamenta, causando alcuni dei disastri più terribili che l’uomo abbia mai conosciuto. Inclusi terremoti e maremoti, la condanna senza data di scadenza del popolo più a Oriente di tutta l’Asia. E questo, spiega, almeno in parte, l’amore smodato di costoro nei confronti del cemento armato. Calcestruzzo, cassaforme, bentonite, pozzolana: ogni aspetto possibile ed immaginabile del materiale di edilizia solido per eccellenza, ma soprattutto relativamente pronto ad assorbire forze energetiche di provenienza obliqua o trasversale. Senza spezzarsi, con semplicità procedurale, dando inizio al tragico esito della vicenda. Ma prevenire i crolli non è altro che un singolo aspetto dell’intera questione, quando si considera il tipo e gravità di danni che possono essere creati in modo diretto alla popolazione civile, dall’occorrenza di quel tipo di disastro che viene identificato nella lingua nazionale con il termine di “onda del porto” ovvero in modo più sintetico, tsunami. E chi non vorrebbe poter disporre, in quei brevi e drammatici momenti, della protezione di una costa stessa che sia coperta interamente di quel sacro materiale, capace come l’armatura dei fieri antenati samurai di resistere ad un tipo di danneggiamento e d’invasione, inclusa quella condotta dalle particelle equanime e indivise di un singolo elemento intento a reclamare ciò che un tempo era stato suo, e suo soltanto? Ciò che abbiamo sin qui descritto dunque, per chi non lo sapesse, viene definito in gergo tecnico un tetrapode o “creatura dotata di quattro zampe”. Così come avviene per un’ampia categoria di animali di questa terra, ma anche la caratteristica creatura inventata all’inizio degli anni ’50 dai francesi Pierre Danel e Paul Anglès d’Auriac all’interno dell’avanzato Laboratoire Dauphinois d’Hydraulique di Grenoble, Francia. Quando si giunse finalmente a capire come la protezione delle coste dall’energia corrosiva delle onde fosse conducibile ancor meglio condotta fino alle sue estreme conseguenze dall’impiego di forme geometriche create ad-hoc, ovvero create mediante la manifestazione pratica dell’occhio Platonico e pineale che dir si voglia, capace di comprendere le leggi più fondamentali dell’Universo…

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19XX: la semantica di un UFO di cemento in bilico sulle scoscese coste del Mar Nero

Per cui osservando la questione a posteriori, non sarebbe del tutto impossibile affermare che l’Era spaziale abbia una collocazione cronologica spostata in avanti all’interno dei paesi dell’Europa Orientale, dove l’enorme potere ed influenza dell’Unione Sovietica portò ad una certa uniformità di gusto estetico, canoni espressivi e metodologie costruttive. Non tanto durante gli anni ’70 conseguenti allo sbarco sulla Luna, bensì piuttosto una decade dopo, quando l’epoca tarda dell’architettura sovietica avrebbe manifestato un gusto particolarmente evidente per una versione altamente personalizzata di una sorta di modernismo costruttivista, in cui ogni possibile richiamo al cosmo e i suoi ipotetici abitanti sarebbe stato non soltanto preso in analisi, ma portato alle sue più estreme e ben visibili conseguenze. Prendete per esempio il Sanatorio Druzhba (dell’Amicizia) costruito sulla punta meridionale della penisola della Crimea non troppo distante da Yalta, così chiamato con un occhio particolare agli “ottimi rapporti” dei due paesi che collaborarono alla sua edificazione, l’URSS e la Cecoslovacchia. Quest’ultima particolarmente ben disposta politicamente nei confronti della superpotenza orientale, dopo il rimescolamento ai vertici avvenuto a seguito dell’invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia avvenuta nel 1968, per porre fine ai movimenti riformisti della cosiddetta primavera di Praga. Scenario cupo e desolato, a dir poco, che non avrebbe tuttavia impedito ai migliori ingegneri e tecnici presenti nel paese di rispondere esattamente 10 anni dopo alla chiamata dell’architetto russo Igor Vasilevsky, per quella che avrebbe dovuto concretizzarsi come la più importante collaborazione tra il Sindacato dei Commerci cecoslovacco e l’Unione dei Lavoratori sovietica. Un esempio molto rappresentativo di quel tipo di ritiri per vacanze-premio o soggiorni terapeutici, riservati ai servitori dello stato ogni qual volta la loro agenda lo permetteva, e comunque non meno di una volta l’anno. Situato lungo una delle coste maggiormente amate dell’intero contesto geografico dell’Europa Orientale, a poca distanza da un altro simile intitolato a niente meno che Palmiro Togliatti, guida storica del Partito Comunista Italiano. E avendo come vicino, sull’altro lato, il magnifico castello sulla scogliera del Nido di Rondine il che avrebbe presentato un significativo problema dal punto di vista logistico, dovuto al poco spazio residuo a disposizione. Enters Vasilevsky, con il suo catalogo pregresso di creazioni abitative tra cui il casino di caccia Voenproekte di Zavidovo, collocato in posizione sopraelevata su pilastri di cemento al fine di ridurre il suo disturbo per la natura. Un principio di certo encomiabile in se stesso, ma anche propedeutico alla realizzazione di determinati obiettivi…

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