L’oceano era invitante, il pescato abbondante. Scorgemmo all’orizzonte uno squalo rotante

Ogni tanto Mora si permetteva il lusso di porsi un paio di domande esistenziali. In quale maniera, esattamente, si era trovata in questa situazione assurda? Perché non aveva puntato la sua ventosa verso una pacifica balenottera, o tranquillo squalo elefante? Aveva sentito il racconto dei suoi simili che avevano finito per abbinare la propria esistenza a un capodoglio. E della scocciatura che rappresentava, ogni giorno, il modo in cui tali cetacei si tuffavano in profondità in cerca di prede, per poi tornare in superficie con tutta la rapidità e la grazia di un sottomarino nucleare. Eppure, anche considerando il modo in cui gli echeneidi raramente potessero scegliere l’ospite del proprio rapporto simbiotico, Mora non poteva fare a meno di sentirsi particolarmente sfortunata. Soprattutto dopo un atterraggio particolarmente violento, a seguito del balzo reiterato che costituiva ormai da tempo il suo (amaro) pane. “Dannato squalo, vuoi darti una calmata?” Imprecò tra se, mentre mangiava l’ennesimo parassita che aveva il potenziale di arrecare danni alla pelle ruvida dell’imponente creatura. “Dopo tutto quello che ho fatto per…” Ora il pesciolino dalla testa adesiva, poco più che una macchia sulla sagoma da 90 Kg del carcariforme, scorse sulla distanza il segno che stava per succedere ancora. Uno scintillante branco di aringhe, intente a muoversi placidamente lungo la colonna oceanica lungo la linea dell’orizzonte. Grosso errore. L’amico Spinny, che costituiva il suo veicolo e vivente dimora, diede lo strattone a lato che segnalava l’inizio della “caccia”. Se così fosse effettivamente possibile chiamarla! Affrettandosi alla velocità che un umano avrebbe definito di quasi 70 Km orari, lo squalo si avvicinò adesso dal basso al branco di prede inconsapevoli. Mentre il suo passeggero si preparava a quello che sapeva, malauguratamente, stava per accadere. Mora sentì la forza centrifuga che aumentava esponenzialmente, mentre Spinny si orientava verticalmente con il muso verso la luce di superficie. E girando, girando su se stesso penetrava a gran velocità nel nugolo d’impreparate creature. Mentre “Chomp, chomp!” facevano le sue mandibole, i denti lisci chiusi come implacabili tagliole. Finché la sua trivella, inevitabilmente, bucò il cielo. Mentre la piccola remora attaccata sopra il dorso, parzialmente e momentaneamente accecata dal formidabile flusso d’aria, tentava di tenersi attaccata…
Lo squalo rotante, nome scientifico Carcharhinus brevipinna, è la formale o pratica dimostrazione di quello che sarebbe possibile ottenere dall’evoluzione chiedendo d’imparare a fare una singola cosa molto bene, continuando a perfezionarla ulteriormente nel corso della propria esistenza. Un balzo alla volta, un pasto dopo l’altro, nell’effettiva definizione di una nicchia ecologica che nessuno, in alcun caso, avrebbe mai potuto tentare di sottrargli. Questo perché una creatura affusolata degli oceani, avendo la necessità di muoversi all’interno di un fluido, possiede inerentemente la dote di essere altrettanto aerodinamica all’interno della massa rarefatta che costituisce la nostra atmosfera. E nessuna barriera invalicabile, una volta che irrompe oltre il margine del primo e si ritrova nella seconda, può frapporsi ad interrompere il suo cammino…

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Eppure, credevamo di conoscere fino all’ultimo dei gechi volanti!

Ptychozoon è il genere di piccole lucertole, principalmente arboricole, all’interno della famiglia dei gechi dell’Asia Meridionale, famosa per il proprio aspetto distintivo ed alcuni tratti insoliti del proprio comportamento difensivo. Pur possedendo la stessa fondamentale caratteristica dei piedi lamellari, capaci di aderire a qualsiasi superficie verticale e camminare invertiti sui soffitti, la loro strategia principale nel momento in cui subiscono una minaccia prevede l’immediato distacco dalla relativa sicurezza di un punto d’appoggio sopraelevato. Per fluttuare, librandosi, giù dalla canopia e verso rami, tronchi o il suolo distante. Ciò sfruttando principalmente il proprio peso ridotto e l’agilità che ne consegue, ma anche la sovrabbondanza di pelle che circonda i loro fianchi, zampe, coda e i lati della testa, tale da giustificare un altro noto soprannome nel linguaggio comune: geco dal paracadute, sempre pronto da sfruttare nel momento del bisogno assieme all’ottimismo di un punto d’atterraggio migliore. Così descritto e classificato dal punto di vista tassonomico già nel secondo decennio del XIX secolo, grazie all’opera in parallelo dei naturalisti Kuhl e van Hasselt, questo gruppo di astuti corridori tra i recessi cortecciosi dell’esistenza, notturni e principalmente insettivori, hanno affascinato gli studiosi nell’intero corso dello scorso secolo fino all’individuazione di 12 specie distinte, differenziate per livrea, stazza e rapporto delle dimensioni tra gli arti e la coda, nonché nel corso dell’ultimo decennio particolari aspetti del loro codice genetico, emersi grazie agli utili strumenti dell’analisi molecolare. Nessuno delle quali soggette a significativi rischi di conservazione grazie all’areale ampio e la buona capacità di adattamento di queste creature, con una distribuzione alquanto prevedibile tra i territori di India, Cina e l’intero Sud-Est Asiatico inclusa l’Indonesia. Incluse le remote, difficilmente raggiungibili montagne di Arakam al confine con il Tibet, dove si riteneva prosperasse soprattutto la specie del G. lionotum o geco volante burmese dalla schiena liscia, almeno finché lo scorso aprile non è stato pubblicato lo studio incoraggiato da Zeeshan A. Mirza dell’Istituto Max Planck di Biologia, assieme ad alcuni colleghi del dipartimento zoologico della locale Università di Mizoram, capace di mettere in discussione l’assunto accademico latente. E dare il benvenuto, nel novero di questi distintivi abitanti della foresta, ad un nuovo imprescindibile protagonista…

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Il verme di un millimetro che vola grazie all’elettricità del calabrone

È imprecisa l’idea che il verme nematode, parte del suo phylum ragionevolmente distinto da quello degli anellidi o qualsiasi altra creatura strisciante del pianeta Terra, debba necessariamente costituire un parassita o pericolo per la salute degli umani. Laddove se finissimo per bere uno di questi Caenorhabditis elegans, caduto accidentalmente in un bicchiere, nulla di avverso potrebbe accadere al nostro organismo. E forse finiremmo per assumere, persino, qualche proteina da una delle pochissime creature in grado di sopravvivere al vuoto spaziale. Già, non è malvagio. Anzi potremmo definirlo, addirittura, utile alla presa di coscienza delle implicite caratteristiche del proprio gruppo tassonomico, composto da esseri che di lor conto tendono, in effetti, a causare un sufficiente novero di problematiche pendenti. Ed era proprio nell’intento di condurre l’ennesima serie di rilevamenti su questo importante tema, che nel corso dell’ultimo anno in laboratorio Takuya Chiba dell’Università dello Hokkaido, Etsuko Okumura e colleghi hanno iniziato notare qualcosa di assolutamente poco prevedibile. Ovvero la maniera in cui le larve immature a lungo termine di questa specie, dette dauer, tendevano a non rimanere sul fondo delle colture in agar realizzate per l’osservazione al microscopio elettronico. Ma piuttosto balzavano o venivano attirate, in maniera largamente misteriosa, verso il coperchio di quei piccoli recipienti, cui si attaccavano come un palloncino strofinato alla parrucca di un clown del circo. Eventualità capace di suscitare più di qualche interrogativo e che una volta portata (tanto tardivamente) all’attenzione di un gruppo di fervide menti, portò ad esaminare una dopo l’altro i possibili fattori scatenanti. Fu dunque presto scoperta la maniera in cui i vermetti NON strisciavano fino ad una simile collocazione, comparendo piuttosto in modo pressoché istantaneo a ridosso del soffitto trasparente. Lasciando come spiegazione possibile, in base al principio della “spiegazione improbabile” di Sherlock Holmes, che un qualche tipo di forza invisibile, intangibile ed inarrestabile stesso portando le creature a sollevarsi, qualche volta da sole, altre tutte assieme, costituendo una sottodimensionata analogia al famoso paradosso di una fila d’elefanti dal nostro pianeta fino al principale astro notturno. Lunare, inteso come un’ambiziosa metafora o ausilio all’elucubrazione, tutto ciò d’altronde non sembrò in alcun modo esserlo. Permettendo d’acquisire l’evidente ispirazione che costituisse parte dello stile di vita del nematode al centro dell’inquadratura, e in quanto tale un frutto periferico, così ostinatamente trascurato dalla scienza, della lunga marcia dell’evoluzione…

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