Del tutto immobile ed inconsapevole questa Terra non è, bensì fluida e mobile, senziente. Una pesante sfera di cosmica essenza, entro la quale, non soltanto in superficie, sussistono presenze. Vita vera e vita pura senza compromessi, piatta, oblunga e serpeggiante. Esseri come la cosa-verme che si aggira silenziosamente, nei meandri sotto i più profondi dei pertugi scavati dall’uomo. È a tal proposito da lungo tempo un fatto acclarato, che la massa collettiva degli animali microscopici situati nel profondo ipogeo possa in via teorica eguagliare quella di ogni agglomerato di cellule che popola le lande illuminate dal Sole e dalla Luna, fin dai tempi della genesi di questo globo rotante. Soltanto fino all’anno 2011, sembrava totalmente logico pensare che a profondità talmente estreme, in assenza di ossigeno e con temperature superiori ad ogni soglia ragionevole, gli organismi in questione dovessero presentarsi come membri della collettività unicellulare, semplici per definizione ed infinitamente predisposti alla resilienza. Se non per la scoperta inusitata, realizzata durante la conduzione di alcuni sondaggi sulla composizione dell’acqua di faglia ad 1,3 Km di profondità presso la miniera d’oro di Beatrix nel Free State sudafricano, avrebbero portato il gemmologo dell’Università di Princeton, Tullis Onstott ad una netta esclamazione di sorpresa mentre allontanava l’occhio dal microscopio. Per aver visto, la dove nessuno avrebbe avuto modo di aspettarselo, del movimento. Con ben mezzo millimetro di lunghezza, l’equivalenza di “aver trovato Moby Dick nel lago Ontario”, pur senza preparazione specifica in materia, egli capì che doveva trattarsi di qualcosa di diverso da un semplice batterio o protista. Una presenza infinitamente più complessa, nello schema generale delle cose, tanto da suscitare presto l’attenzione del collega ricercatore belga Gaetan Borgonie, con pubblicazioni nel campo della zoologia, biologia ed anatomia. Che non ci mise molto a determinare la natura dei resti preservati dei vermi in questione, ormai da tempo transitati a miglior vita dopo esser stati rimossi dal proprio ambiente di provenienza: si trattava di nematodi, ovverosia vermi cilindrici, non così diversi dai loro cugini parassiti nostri coabitanti, capaci d’infestare piante, animali ed occasionalmente anche l’uomo. La caccia per un esemplare vivo, a questo punto, era ufficialmente aperta ed i due iniziarono a visitare diversi siti minerari sudafricani, ove avrebbero raccolto letterali migliaia di litri d’acqua da sei pozzi diversi fino a 3,6 Km dalla luce diurna, mentre ne filtravano ulteriori 150.000 filtranti dalla superficie, per scongiurare la contaminazione dei campioni raccolti. Il che avrebbe portato infine, alla scoperta di un singolo esemplare vivente, a cui sembrò del tutto naturale assegnare un nome particolarmente altisonante: Mefistofele, colui che odia la luce ed ogni presupposto di pietà…
nematodi
Il verme di un millimetro che vola grazie all’elettricità del calabrone
È imprecisa l’idea che il verme nematode, parte del suo phylum ragionevolmente distinto da quello degli anellidi o qualsiasi altra creatura strisciante del pianeta Terra, debba necessariamente costituire un parassita o pericolo per la salute degli umani. Laddove se finissimo per bere uno di questi Caenorhabditis elegans, caduto accidentalmente in un bicchiere, nulla di avverso potrebbe accadere al nostro organismo. E forse finiremmo per assumere, persino, qualche proteina da una delle pochissime creature in grado di sopravvivere al vuoto spaziale. Già, non è malvagio. Anzi potremmo definirlo, addirittura, utile alla presa di coscienza delle implicite caratteristiche del proprio gruppo tassonomico, composto da esseri che di lor conto tendono, in effetti, a causare un sufficiente novero di problematiche pendenti. Ed era proprio nell’intento di condurre l’ennesima serie di rilevamenti su questo importante tema, che nel corso dell’ultimo anno in laboratorio Takuya Chiba dell’Università dello Hokkaido, Etsuko Okumura e colleghi hanno iniziato notare qualcosa di assolutamente poco prevedibile. Ovvero la maniera in cui le larve immature a lungo termine di questa specie, dette dauer, tendevano a non rimanere sul fondo delle colture in agar realizzate per l’osservazione al microscopio elettronico. Ma piuttosto balzavano o venivano attirate, in maniera largamente misteriosa, verso il coperchio di quei piccoli recipienti, cui si attaccavano come un palloncino strofinato alla parrucca di un clown del circo. Eventualità capace di suscitare più di qualche interrogativo e che una volta portata (tanto tardivamente) all’attenzione di un gruppo di fervide menti, portò ad esaminare una dopo l’altro i possibili fattori scatenanti. Fu dunque presto scoperta la maniera in cui i vermetti NON strisciavano fino ad una simile collocazione, comparendo piuttosto in modo pressoché istantaneo a ridosso del soffitto trasparente. Lasciando come spiegazione possibile, in base al principio della “spiegazione improbabile” di Sherlock Holmes, che un qualche tipo di forza invisibile, intangibile ed inarrestabile stesso portando le creature a sollevarsi, qualche volta da sole, altre tutte assieme, costituendo una sottodimensionata analogia al famoso paradosso di una fila d’elefanti dal nostro pianeta fino al principale astro notturno. Lunare, inteso come un’ambiziosa metafora o ausilio all’elucubrazione, tutto ciò d’altronde non sembrò in alcun modo esserlo. Permettendo d’acquisire l’evidente ispirazione che costituisse parte dello stile di vita del nematode al centro dell’inquadratura, e in quanto tale un frutto periferico, così ostinatamente trascurato dalla scienza, della lunga marcia dell’evoluzione…
La strana luce della “Provvidenza” che salvò i feriti alla battaglia di Shiloh
L’annullamento della percezione sensoriale che precede l’immobilità apparente, morte, morte. Una forma immobile nella palude, dal torace nero, con sei zampe nere, occhi grandi e tondi dell’insetto che era stato un tempo, e che adesso non è niente tranne il guscio vuoto di un qualcosa che ha finito di… Soffrire. Affinché schiere di minuscole creature, invisibili persino a chi è abbastanza piccolo da esserne il sostentamento, progressivamente si propagano e ricoprono quella carcassa. Brulicando e contorcendosi, questi vermi iniziano a rigurgitare. E il loro vomito rispende nell’oscurità notturna, mentre come un fuoco sacro, purifica ogni minima traccia d’impurità. Certo: chi potrebbe mai azzardarsi a fagocitare, altrimenti, l’insapore carne di una cavalletta, grillotalpa o formica? O di un essere pensante con dei sentimenti, un’ideologia politica e speranze di gloria?
Si tratta, per noi e loro, di una mera e imprescindibile nozione naturale. Che ad ogni convergenza di fattori, una cosa viva possa transitare verso l’altro lato della barricata! E da tale inconoscibile recesso, fungere da nutrimento alle prossime terribili generazioni… Qualche volta, d’altra parte, strane cose accadono nel mondo. Giungendo ad aumentare la portata degli eventi: e non uno, ma neanche mille, sono gli esseri avviati verso quel destino. Bensì addirittura dieci volte tanto. Il che modifica, in maniera molto significativa, gli esiti segnati sulle pagine del Fato. 6 aprile 1862: la collina situata presso il lato meridionale del fiume Tennessee nella contea di Landing, nota come Pittsburg Landing, diviene il teatro di un terribile fraintendimento. E non sto parlando della maniera in cui le truppe confederate della guerra civile, sotto il comando dei generali Johnston e Beauregard (40.000 uomini) riuscirono a sorprendere l’armata unionista al seguito del grande Ulysses S. Grant (60.000 effettivi). Né della maniera in cui un distaccamento eroico di uomini al suo seguito riuscirono a resistere per sette ore nel tratto di foresta diventato celebre come “il nido di vespe” permettendo ai reggimenti di riorganizzarsi e montare una controffensiva efficace. E neppure dell’imprevisto caso del destino che avrebbe portato Johnston a morire dissanguato per una pallottola vagante, lasciando il bastone del potere nelle mani dell’incompetente collega, che avrebbe finito per ordinare una manovra di aggiramento nel momento e direzione errati, lasciandosi sfuggire la vittoria tra mani tremanti e impreparate. Bensì delle circa 20.000 persone appartenenti ad entrambi gli schieramenti, rese inferme da un’enorme varietà di ferite verso il sopraggiungere del vespro, che si contorcevano aspettando di morire in mezzo al fango del sottobosco paludoso, oppure (soltanto nei casi più fortunati) tratte in salvo per portarle da un medico, che avrebbe tentato per quanto possibile di migliorare le cose. Se non che i soldati incaricati di portare soccorso, di lì a poco, avrebbero notato qualcosa d’inaspettato: la maniera in cui una certa quantità dei loro colleghi moribondi, inspiegabilmente, avessero iniziato a sviluppare un qualche tipo di fosforescenza. Concentrata giusto presso i fori d’entrata delle pallottole, gli squarci delle baionette, i tagli inflitti da varie tipologie di spade o pugnali. Il che non avrebbe cambiato molto nell’immediato, riuscendo tuttavia nel farlo attraverso i giorni e settimane a venire. Poiché tra lo stupore di ogni personalità coinvolta, sarebbero stati proprio coloro che erano stati infusi da tale evidente intercessione dello Spirito Santo, a non vedere le proprie piaghe infettarsi, senza che le sanguisughe o i rudimentali disinfettanti dell’epoca potessero riuscire a fare alcunché. Sotto qualsiasi punto di vista rilevante, diventò perciò del tutto che chiaro. Che “qualcosa” in quella terribile contingenza, era entrato all’interno del loro corpo. Sebbene quel qualcosa avrebbe desiderato essere, indiscutibilmente, da tutt’altra parte…
Scoperti vermi dalla tripla identità sessuale nell’arsenico del Mono Lake
Arido, immoto, privo di vita: non è certo questa una serie d’aggettivi che possano essere attribuiti al più bacino idrico endoreico (privo di emissari) della parte settentrionale della California, non troppo distante dal Nevada, dove torri ultramondane di contorto tufo si specchiano nelle acque lievemente increspate dal vento secco proveniente dall’entroterra degli Stati Uniti, mentre enormi stormi d’uccelli migratori calano a più riprese, per cercare un pasto particolarmente nutriente. Nonostante neanche un solo pesce, da un periodo di almeno 10.000 anni, abbia nuotato sotto la sua superficie, in forza di una quantità di sale così elevata da portare il valore del pH tra 9 e 12, fino ad una condizione basica talmente estrema da impedire lo sviluppo di organismi di tipo convenzionale. Il che, d’altra parte, non ha fatto altro che rimuovere dall’equazione ecologica qualsivoglia possibile rivale di quelle creature che, invece, hanno trovato il modo di sfruttare tale situazione a proprio vantaggio. Primo tra tutti il gamberetto Artemia monica, qui presente in quantità superiore al trilione di esemplari, così come la mosca Ephydra hians, le cui gustose larve si nutrono di un ricco letto d’alghe verdi, prima di spiccare il volo, non smettendo ad ogni modo di tornare a immergersi sfruttando la propria capacità di trascinarsi dietro una bollicina d’aria. Gustose perché mangiate, sin dall’alba dei tempi, dai volatili locali oltre alla popolazione indigena dei Kucadikadi, il cui nome in lingua algonchina significa per l’appunto “Mangiatori della Pupa di Mosca del Lago Salato” Ma è nel regno delle cose ancor più minute, come spesso capita in simili ambienti, che la situazione inizia a farsi decisamente interessante: con colonie del batterio endemico Spirochaeta americana, dotato di un flagello estremamente atipico, che gli permette di nuotare con un movimento a spirale. O il suo simile GFAJ-1 (fam. Halomonadaceae) scoperto nel 2010 dalla scienziata della NASA Felisa Wolfe-Simon e ritenuto capace, per qualche tempo e prima che arrivasse la smentita in laboratorio, di generare le copiose quantità di arsenico rilevate in determinate zone del lago, come parte inscindibile del proprio DNA.
Ciò che non era mai stato trovato, tuttavia, in un così interessante luogo era l’essere che più di ogni altro, caratterizza e connota il concetto stesso di vita sulla Terra: che non è l’essere umano, e neanche la formica, bensì l’intera genìa di piccoli vermi cilindrici appartenenti al Phylum Nematoda, la cui onnipresenza sia come parassiti che esseri indipendenti è stata confermata ricoprire ogni singolo ambiente, naturale o artificiale, pianta, animale o essere umano del nostro pianeta. E sarebbe stato ragionevole affermare: perché non si era ancora fatto in modo di cercarlo nella maniera/luogo giusto, come oggi riconfermato dall’ultima ricerca dei due recenti PhD della Caltech assunti dal laboratorio Sternberg Pei-Yin Shih e James Siho Lee, pubblicata verso la fine del mese di settembre, capace d’incrementare ulteriormente la stima che abbiamo nei confronti della capacità di adattamento e plasticità ecologica di queste quasi-onnipresenti creature. Oltre a presentarne una quantità di 9 specie tra cui alcune, inserite solo temporaneamente nel recente genere Auanema (sotto-classe Rhabditia) dotate della caratteristica riproduttiva piuttosto rara in natura di presentare un sistema trioico, ovvero dotato di tre possibili sessi: maschile, femminile ed ermafrodita. Un vantaggio dalle significative implicazioni evolutive…