Obbligo di catene anti-fuoco su ruote giganti

Il calore raggiunge un livello quasi insopportabile, mentre la pala caricatrice con ruote di gomma, grande come un edificio di un piano e mezzo, fa il suo ingresso nel capannone della titanica acciaieria. Fumi mefitici la avvolgono e la nascondono, mentre una luce infernale la illumina dal basso, traendo l’origine da un punto niente affatto apparente. Finché agli occhi dell’ultimo assunto, non si palesa l’impossibile, tremenda verità: che il pavimento è lava, e brucia, brucia al calor rosso incandescente e ad una temperatura tale da poter cuocere un uovo in una manciata di secondi. Questo perché è letteralmente ricoperto di slag, le scorie simili a vetro fuso, che risultano in gran quantità dalla purificazione industriale su larga scala di acciaio, il metallo sinonimo della modernità. Nessuno potrebbe inoltrarsi, a piedi, in un tale ambiente infernale. Eppure, la sostanza di cui sono fatte le ruote del mostro che DEVE farlo non sembra squagliarsi, né riportare alcun tipo di danno sull’immediato. Com’è possibile tutto ciò?
Nell’antichità europea, i cavalieri andavano in battaglia facendo affidamento su due strati metallici di protezione. Il primo strato era  la rigida armatura a piastre, costituita da uno strato di metallo ribattuto dal fabbro nella forma del corpo umano. Esso era completamente impervio ai colpi vibrati di taglio: nessuna lama inventata dall’uomo, in parole povere, poteva penetrarlo. Nel caso in cui il nemico fosse armato di un’arma concepita appositamente per penetrare, tuttavia come una lancia o un pesante stocco da guerra, esso non aveva ancora la vittoria in pugno: poiché sotto quel duro guscio, nello spazio interstiziale prima delle pesanti vesti di lino (o più raramente, cotone) imbottito, i guerrieri portavano la maglia di ferro. Nient’altro che centinaia, migliaia di anelli, intrecciati l’uno con l’altro in un complicato pattern dall’assoluta regolarità, che offriva un ottimo grado di protezione ulteriore, vestendo comunque meglio di un qualsiasi corpetto di cuoio bollito. Presentando, inoltre, il significativo vantaggio della riparabilità. Immaginate voi, l’effetto di un cuneo che penetra il metallo, giungendo fin quasi al prezioso contenuto umano. La scocca bucata, con i bordi frastagliati come quelli di un coperchio di latta, e poi l’intreccio spezzato in corrispondenza di un singolo, fondamentale anello. Per la parte esterna, c’è ben poco che possa essere fatto “sul campo”. Eppure, tutto ciò che occorrerà fare per quanto concerne lo strato inferiore, sarà forgiare un singolo cerchio di metallo, sostituendo quello danneggiato, affinché il tessuto risulti essere completamente ripristinato. È sopratutto per questo, dunque, che l’armatura a piastre è sparita dal mondo della tecnologia, mentre la maglia resiste ancora, nei guanti da lavoro, per proteggere chi lavora in condizioni estreme, o da portare persino sopra la muta, nel caso in cui s’intenda immergersi in presenza di squali (ebbene, c’è a chi piace!) Per proteggere, in primo luogo, se stessi. Ma anche ciò a cui si tiene particolarmente. E sapete qual’è una delle variabili di costi maggiormente fuori dal controllo umano, nell’industria metallurgica, mineraria ed in qualsiasi altra in cui sia richiesto l’uso di mezzi pesanti NON cingolati? L’usura degli pneumatici OTR (Off the Road) ruote che possono arrivare a costare fino a 40.000 dollari a pezzo e non durano, generalmente, più di sei mesi.
Sarà facile comprendere, a questo punto, la strettezza dei margini di guadagno affinché una di queste aziende possa dire di essere effettivamente redditizia. E le gravissime conseguenze che possono derivare, nel momento del consumo totale e conseguente distruzione di una di queste ruote, da un’eccessivo ritardo nella risoluzione del problema. Gli approcci risolutivi, a tal proposito, sono molteplici a partire da un complesso processo di riparazione (vedi precedente articolo) passando per la rigenerazione del battistrada, ovvero scavare dei nuovi solchi su pneumatici che talvolta non hanno neppure una camera d’aria, ma sono blocchi compatti di gomma sagomata nella forma di una ruota, per giungere fino alla soluzione forse più risolutiva: prevenire il danno, rinviandolo per quanto possibile più in là nel tempo. E su questo fronte, l’unico metodo che porti vantaggi misurabili e significativi e l’impiego di una versione sovradimensionata della tipologia dell’armatura citata, ricorrendo all’equivalente veicolare dei ferri per proteggere gli zoccoli dei cavalli: catene, molti metri di catene intrecciate, unite tra loro mediante una serie di metodi diversamente funzionali. L’ovvia analogia, per l’automobilista medio, sarà quella con l’implemento da usare nei mesi invernali, per incrementare la capacità di trazione del mezzo in presenza di ghiaccio e neve, ed in effetti una funzionalità simile è comunque presente in questa classe di prodotti per l’uso professionale. Benché non costituisca, salvo specifiche eccezioni, l’obiettivo principale dello strumento. La cui ampia diffusione deriva invece da considerazioni più prettamente dirette al prolungare la vita dei costosi, enormi pneumatici in presenza schegge, pietre appuntite, frammenti di minerale, sbarre metalliche contenute nel cemento armato di qualche cantiere di demolizione e così via… Renderle, se vogliamo, del tutto impervie all’influsso del Male.

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L’esercito invisibile della città di Graz

“Per ordine del vescovo di Roma, il Capo della Chiesa e vicario di Cristo in Terra, sono qui a portare in questo esercito la voce della ragione. Cessate, Sire, i questo assalto ingiustificato contro il vostro Imperatore.” Le parole latine usate da Bartolomeo Maraschi, vescovo di città di castello e legato papale, riecheggiarono per il campo dell’assedio di Graz. Il dito alzato in un ammonimento, il pastorale come un parafulmine contro gli sguardi ed il potere transitorio dei viventi. Era l’anno del Signore 1482, quando Matthias Corvinus, re dell’Ungheria, fece la sua mossa per riscuotere il debito contratto da Federico III d’Asburgo, l’austriaco che attualmente rivestiva il manto di protettore in terra dell’intera Cristianità. Il lunghi capelli che scendevano fino alle spalle ricadendo sul mantello rosso, la corazza in un solo pezzo di splendente acciaio lavorato e i guanti d’arme, l’uno dei quali ricadeva, quasi per caso, in prossimità del pomolo della sua spada lunga due spanne. L’altro poggiato sul destriero di Brabant, coperto dalla rigida bardatura a piastre. L’elmo incrostato di gemme e con l’immagine della sacra croce dorata dinnanzi alla visiera, ancora da una parte, tenuto in mano con reverenza dal fedele scudiero. Ci fu un attimo di assoluto silenzio, tra i fidati luogotenenti riuniti in consiglio informale prima di condurre l’ultimo assalto. L’arrivo del rappresentante del Vaticano era atteso, ma nonostante questo, sopraggiunse come un fulmine sopra le tombe dei soldati morti durante la sanguinosa campagna. Tirando un lungo sospiro, il re parlò: “L’Austria brucia, Eminenza. Questo è un fatto. Dieci anni fa, ricacciai i turchi dalla Moravia e dalla Wallachia, quindi marciai con il mio esercito fino in Polonia. Fu l’Imperatore stesso, allora, a stipulare con me la pace in cambio di un’indennità di guerra che non mi è stata mai concessa.” Soltanto allora re Corvinus passò le redini al suo servitore, quindi si inchinò profondamene alla figura religiosa: “In verità vi dico, se un governante non è in grado di mantenere la sua parola, che si faccia da parte. Egli non è degno di difendere la cristianità.”
La Styria: terra di confine. Un luogo in cui, attraverso i secoli, nazioni ed armate mercenarie, austriaci ed ottomani, cristiani e musulmani si combatterono strenuamente, finché di ogni città di questo Land non restò altro che un cumulo fumante di macerie. Tutte, tranne una: nella valle del fiume Mur, all’ombra dello Schlossberg, il “monte castello” fortificato originariamente dagli sloveni, Graz si era dimostrata imprendibile persino ai colpi dei più moderni e terribili cannoni. Nessuno, non importa quanto preparato, si era dimostrato in grado di oltrepassare quelle spesse mura. Fino a quel momento! Rialzatosi voltando le spalle al vescovo, il sovrano passò in rassegna i più fidati tra le sue truppe: la temuta Armata Nera d’Ungheria, composta dagli eredi stessi dei guerrieri delle antiche steppe, in una schiera di armature brunite cupe come la notte stessa, punteggiate con l’occasionale vessillo rosso e bianco dalla doppia croce, un simbolo mutuato dai commerci pregressi con il decaduto regno di Bisanzio. Ciascuno armato di una spada, una mazza e una picca, ed uno ogni quattro di ciò che li aveva resi imbattuti in una buona metà dell’Europa d’Oriente: il temutissimo archibugio. In un’epoca in cui ancora tutti si chiedevano cosa ci fosse di tanto utile, in un’arma che imitava malamente l’arco o la balestra senza averne la stessa affidabilità, Corvinus aveva compreso soprattutto il suo potere psicologico, del rombo che diventava come un grido di guerra, gettando lo sconforto dentro il cuore dei suoi nemici. Ormai a cavallo da cinque minuti, la mano destra alzata in un gesto imperioso, il re gridò il segnale prestabilito, che venne fatto riecheggiare per le schiere come l’eco di una riscossa sulle ragioni del Fato. Avanti, miei prodi, andate avanti. Il capo di un popolo cavalca innanzi ai suoi guerrieri, ma non certo durante gli assedi. E a molti altri, tra i nobili, era concesso di pensarla nello stesso modo. Fu una lunga cavalcata… Quando finalmente lo stemma degli Asburgo comparve chiaro sopra la porta della città, saldamente serrata con la doppia anta in legno di quercia, esso lo fece accompagnato da una seconda visione, ben più preoccupante. Centinaia, anzi migliaia di persone tra le merlature, ciascuna delle quali intenta nello scrutare l’orizzonte. Nessuno di loro poteva vantare l’aspetto di un soldato. Erano artigiani, mercanti, contadini. Soltanto alcun indossavano l’armatura. Ma nel momento in cui la schiera degli ungheresi fu finalmente a tiro, accanto al volto di ognuno prese a sollevarsi l’arma con cui si addestravano da lunghe settimane: un fucile della più pregiata forgiatura, oppure una pistola con la lunga miccia scintillante. Sembrava invero che l’intera popolazione della capitale regionale fosse pronta a fare fuoco contro gli assalitori in arme provenienti da Est. Fu proprio allora, se vogliamo continuare in questa fantasia, che Matthias Corvinus ebbe una visione. L’arcangelo Michele in persona, probabilmente richiamato dalle parole del legato papale, comparve in una sfera fiammeggiante sopra la polvere dell’antica strada di fattura romana: “Saggio governante, ricevi la mia profezia: oggi Graz non cadrà. Oggi, non cadrà.” Gli occhi strabuzzati, richiamato lo scudiero al suo fianco, il re chiese di suonare la ritirata. Torante indietro, indietro fino in Ungheria…

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La rivincita dei sette samurai a Rio de Janeiro

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Guardate questo video: chi l’avrebbe mai detto che la pubblicità del ramen gusto pollo nel barattolo potesse essere così intrigante? Oltre il concetto stesso di arte della guerra, un degno rappresentante dell’aristocrazia militare del Giappone storico era un simbolo vivente di supremo individualismo. In una cultura in cui conformarsi era il segno principale della vita quotidiana. C’era sempre, più forte che mai, il dovere all’ubbidienza verso il proprio signore (il kanji 侍 mostra, dopo tutto, un uomo fermo ad aspettare innanzi a un tempio) ma oltre gli ordini espressamente ricevuti, colui che impugna la katana è come un refolo di vento, una goccia d’inchiostro nel grande fiume, il falco grigio dello Honshu, detto l’Ikaruga. Un maratoneta che può scegliere, in base al proprio senso personale delle cose, quando risparmiare il fiato e quando invece dare il proprio meglio nello sprint, per sorpassare gli uomini inferiori a lui. Cosa sarebbe successo, dunque, durante le scorse Olimpiadi, se questi uomini al di fuori del comune fossero ancora esistiti su questa Terra? Con uno spettacolare medagliere da 41 conseguimenti, di cui 12 d’oro, il Giappone ha potuto vantare il risultato numericamente più impressionante della sua storia, benché la classificazione finale, con un più che rispettabile sesto posto (l’Italia è stata nona) non abbia raggiunto le vette dei due precedenti terzi posti, ottenuti a Tokyo ’64 e Messico ’68. Inoltre nella cerimonia finale il premier Shinzo Abe, in preparazione della prossima edizione che dovrà tornare finalmente presso l’arcipelago del Sol Levante, è comparso in un trionfo nell’abito del nintendiano idraulico Super Mario, riconfermandolo come l’icona di un’intera generazione ludica moderna. Eppure la vera domanda da porsi è se tutto ciò sarebbe bastato, a uomini del calibro di Takeda Shingen, la Tigre Rossa del Kai, o del suo rivale sempiterno dalle vesti candide Uesugi Kenshin, con cui si scontrò famosamente per ben cinque volte a Kawanakajima tra il 1553 e il 1561, dando dimostrazione inusitata di coraggio, scaltrezza e abilità guerriera. Prima che il demone del meridione, l’oscuro signore della guerra Nobunaga, qui giungesse con i suoi fucili provenienti dal continente. Se mai si sarebbe lui seduto, sul suo celebre sgabello da campagna militare, al cospetto degli ufficiali col ventaglio rinforzato di metallo, per puntare tale arma verso l’orizzonte e dire: “Arigatou, mou takusan desu. Kaerimashou.” (Grazie, basta così. [Adesso] torniamo a casa.) Piuttosto che calarsi nuovamente l’elmo sulla testa e mettersi lui stesso in gioco, per fare la suprema differenza!
Voglio dire: nella cultura moderna nipponica non è un caso poi tanto particolare. La coscienza collettiva è piena di reincarnazioni dei grandi guerrieri del passato, che vanno a scuola, prendono la metropolitana, guidano robot giganti contro gli alieni (un mestiere, questo, molto rispettato da quelle parti) e vivono storie d’amore con ragazze timide dal fascino ingenuo e (?!) innocente. Qualche volta il nome viene cambiato dagli autori anche se la personalità resta la stessa, mentre in determinati casi il fattore esteriore e la riconoscibilità sono del tutto rispettati, al punto di mostrare l’eroe storico nella sua foggia più famosa, ovvero in armatura. Magari con l’aiuto della prototipica [Henshin!] – Trasformazione! Perché ciò semplifica di molto l’animazione del complicato processo di vestizione. Si dice comunemente che la spada sia l’anima della cavalleria, e ciò è senz’altro vero anche quaggiù, nel più Estremo degli Orienti, ma quale potrebbe mai essere, d’altra parte, il suo corpo? Se non questo. Se non l’unione di stoffa, cuoio e ferro, risalente in origine al remoto IV secolo e più volte ricreata sulla base delle armi maggiormente in auge, ma sempre rispondente ad un bisogno di mostrarsi nel contempo magnifici, e incutere il timor-panico nel cuore dei propri nemici. Mentre oggi…Certo, se un samurai dovesse dimostrare la sua abilità olimpionica al mondo, è difficile immaginare che egli giunga ad occuparsi d’altro che di attività simili a queste: i cosiddetti sport d’azione, che mettono in pericolo l’individuo mentre gli permettono di dare prova della loro abilità. Surf, skateboard, bici acrobatica la camminata ad alta quota sulla corda flessibile della slackline, il SALTAPICCHIO, il pallone da calcio (ehm…) Ma vediamo più in dettaglio, esattamente, cosa abbiamo visto nel sublime video di questa disanima disordinata…

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E così, francese, dici che puoi correre con l’armatura?

Armored Boucicaut

I vestimenti metallici dei cavalieri risplendevano persino sotto il sole tenue di fine ottobre, mentre il meglio della Francia si schierava in cima a un colle ad Agincourt. Ma nessuno, in quel frangente, aveva un’espressione più decisa, un cipiglio maggiormente fiero, ed una presa ancor più salda sulle redini che Jean Le Meingre detto Boucicaut, esimio maresciallo del Regno, salvatore del patriarca di Costantinopoli, flagello dell’antipapa Benedetto XIII ad Avignone, nonché probabilmente il più famoso guerriero della sua era. Estremamente consapevole, come del resto il conestabile Carlo d’Albret alla sua destra, per non parlare delle due vecchie conoscenze d’arme e d’avventure i duchi Charles d’Orléan e Giovanni I di Borbone che si agitavano in sella sulla sua sinistra, che se eri Enrico V il re d’Inghilterra nel 1415, e volevi rimanere tale, non imbarcavi circa 10.000 truppe in prossimità dello Stretto di Dover, non le traghettavi con lo scarso numero di imbarcazioni fino al passo di Calais, e soprattutto non ti lanciavi all’assalto di una mezza dozzina di fortezze prive di significato in giro per la Piccardia, quasi dimezzando i tuoi soldati in modo inutile, per poi tentare di tornare in patria con quel poco che ti rimaneva. Si, le notizie sull’incipiente pazzia del re di Francia Carlo VI, vecchio amico d’infanzia del possente maresciallo, potevano anche essere vere. Ma dall’altro lato della Manica, a quanto pare, la cupidigia del guadagnarsi nuove terre stava per mietere ancor più vittime della guerra civile tra Armanacchi e Borgognotti, scaturita dalla necessità d’istituire una reggenza a Parigi.
Un falco ammaestrato, senz’ombra di dubbio la proprietà di un nobile locale, lanciò il grido che segnava lo scoccar dell’ora storica del cambiamento. Era proprio questa del resto, la fine di una lunga cavalcata a perdifiato, che aveva finalmente permesso ai francesi, dopo numerosi fallimentari tentativi d’imboscata, di sorpassare gli invasori e sbarrargli la strada, tra due alture fittamente alberate che non gli avrebbero permesso di fuggire tanto facilmente. Il perfido dragone, dunque, sarebbe finalmente perito in questa valle, liberando la France dal più terribile dei rischi che correva: ritrovarsi presto comandata da un re inglese. Il cavalier di Boucicaut, giunto l’epico momento, sollevata in alto la sua lancia col vessillo, diede allo schieramento il suo segnale di avanzata. Come un sol uomo, 36.000 tra cavalieri, fanteria, balestrieri genovesi ed arcieri fecero il primo passo verso la vittoria, discendendo verso il fulmine ed il lampo della gloria. Naturalmente, l’impatto tra gli schieramenti non avvenne subito. Mentre i francesi tentavano d’indurre una probabile carica suicida sfidando il nemico, Enrico V dispose i circa 4.000 tiratori che gli rimanevano sulle ali destra e sinistra, dietro delle fortificazioni improvvisate con pali di legno appuntiti, mentre 1.000 uomini d’arme e cavalieri appiedati, con picche, alabarde e semplici spade, si ponevano al centro dello schieramento, per assorbire l’impatto del nemico. Uno schieramento, tutto considerato, relativamente ben concepito. Ma la differenza numerica, di armi ed equipaggiamento era di certo troppo significativa, o almeno questo riteneva Boucicaut. Così alla fine, fu proprio lui a lanciarsi all’assalto, assieme ai circa 8.000 coraggiosi cavalieri che includevano, nei fatti, una buona metà della corte di Francia.
Trovarsi all’altro lato di una carica di cavalieri di quell’epoca del Basso Medioevo costituiva, nei fatti, un’esperienza terrificante. Innumerevoli storie e leggende narravano di piccoli manipoli appartenenti a questo o quell’Ordine rinomato, che galoppando tra gli schieramenti dei non-cristiani, potevano distruggere la coesione di forze numericamente molto superiori. Un guerriero pienamente corazzato, con palafreno adeguatamente abile nel suo ruolo, era una forza inarrestabile comparabile a quella di un moderno carro armato. Soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare Enrico V, in quel frangente. Ed il miracolo (della tecnologia) arrivò. O per meglio dire, esso era già lì, cautamente avvolto in un panno impermeabile nei bagagli di ciascun margravio, ogni vassallo, dei pochi popolani e seguaci che si erano trovati a supportare l’offensiva del re. Il suo nome: longbow. L’arco lungo, il più letale strumento bellico che fosse stato mai schierato in un campo di battaglia. Soltanto che allora, non lo sapeva ancora nessuno. L’arte del tiro a lunga gittata era infatti praticata in Inghilterra come una sorta di sport, trasmesso di padre in figlio nelle città, nelle tenute, nei villaggi, come un utile modo per andare a caccia e procurarsi della carne. Le frequenti competizioni regionali, nonché il plauso concesso ai migliori cecchini, costituivano tutto il premio di cui avessero bisogno costoro. Poi nel momento della verità militare, naturalmente, quell’attrezzo si scopriva estremamente utile allo scopo di difendere se stessi ed il paese: perché una freccia che può giungere fino a 200 metri, altrettanto facilmente, se chiamata a farlo, avrebbe perforato qualche valido centimetro d’acciaio. Uccidendo chicchessia. Così Boucicaut, alla testa dei suoi prodi, si lanciò alla carica contro l’istrice inferocito, contando assieme agli altri comandanti sulla forza imperitura del suo diritto di nascita, l’onore e la fierezza dei cavalieri. Per primo cadde Carlo d’Albret, colpito fatalmente alla gola. Quindi i Duchi di Borbone e d’Orléan, i cui cavalli, follemente, non portavano una bardatura laterale. E infine egli stesso, il più grande cavaliere della Storia. Mandato a rotolare giù nel fango, mentre gli zoccoli infuriavano tutto attorno alle sue membra indolenzite. Ma l’intera vicenda, a conti fatti, non poteva certo finire a quel modo…

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