Il paese degli spaghetti duttili come l’argento

Se il cibo è un’espressione familiare d’incontro e comunione tra le genti allora è vero che in esso può trovarsi espressa l’anima recondita di un paese, il senso e l’identità di tutti coloro che si uniscono al convivio. La Cina, si sa, è un vasto territorio di culture, colori e per alcuni, sopratutto sapori, uniti nel vortice di un incommensurabile melange. Migliaia di verdure e quasi altrettanti tipi di carni, con metodi preparatori tanto vari quanto unici di ciascun luogo… E assieme a tutto questo, un’ondata senza fine di riso, il cereale che più di ogni altro riesce a rappresentare le diverse cucine dell’Estremo Oriente. Se soltanto scegliamo di sporgerci poco al di sopra del nostro orizzonte, tuttavia, riusciremo a scorgere un’altrettanto grande verità: che per ogni piatto di ravioli al vapore e maiale in agrodolce, per ogni zuppa di tofu, perca bollita e piatto di tofu fermentato, esiste un piatto che si basa sull’equivalente di un qualcosa che noi conosciamo molto bene: la pasta lunga e sottile, colloquialmente richiamata, ad esempio, con quell’espressione romanesca tipica del “[Se] famo[se] du spaghi?”
Non che il processo, e la genesi creativa di una tale cosa da mangiare, sia nei fatti simile tra il Centro, il Nord o il Sud Italia, con le terre all’altro capo del pianeta che furono terreno fertile per le idee di Laozi, Confucio, Buddha e Mao Zedong. Dove ogni montagna, ogni valle e ciascuna pianura alluvionale, fin dai tempi della dinastia degli Han (206 a.C. – 220 d.C.) mise in atto il suo particolare metodo per prodursi questo ingrediente semplice ma molto amato, specialmente dai bambini di ogni età. Jǐyā, estrusione: con la pressa dalla ghiera traforata, per produrre 30, 40 o 50 fili esattamente tutti uguali, possibilmente già all’interno della pentola per la cottura. Oppure róu, arrotolare. Da un cilindro dell’impasto, plasmato a mano fino al punto che diventi stretto e lungo, poi tagliato sulla base del bisogno e della quantità di commensali. Eppure forse, volendo affrontare la realtà delle cose, non c’è pasta più incredibile di quella che proviene dalla parte del Regno di Mezzo che si affaccia sul Mar Cinese Orientale, verso le isole del Kyushu e le Ryūkyū. Nella provincia di Zhejiang (o Cho-kiang che dir si voglia) regione di Rui’an, dove la gente ancora pratica un antico metodo che assume tinte leggendarie: la creazione degli spaghetti suomian del villaggio di Nanshan. Anche detti pasta con al forma di un filo, per la particolare abilità con cui i depositari dell’antica tecnica, tramandata di padre in figlio da almeno 300 anni, prendono l’ammasso di acqua, sale e farina e riescono a tirarlo, prima a mano quindi con speciali attrezzi, fino alla creazione di un intrico formidabile, che appare più simile a un qualcosa del mondo tessile piuttosto che alimentare. È una visione alquanto sorprendente, che negli ultimi tempi sta comparendo online in diversi video molto popolari su YouTube, tra cui questo di 更中国 (More China) viaggiatore e cameraman che si è personalmente recato sul posto, per intervistare direttamente un maestro di questa arte rara. Lin Fa Zhu, tale il suo nome, cinquantenne che da 30 fabbrica la pasta, con sapienza tecnica che ormai spazia sull’infinito. È così davvero incredibile vederlo mentre, una volta terminata la preparazione dei tre semplici ingredienti, inizia a stenderli ed arrotolarli, quindi li assottiglia e poi avvolge ad un qualcosa che assomiglia stranamente a un arcolaio. Prima di portarli fuori, quindi appenderli ad appositi bastoni, fissati su un sistema di sostegni che si estende per l’intera comunità. “È molto importante avere un’idea chiara delle condizioni meteo quando si preparano i suomian. Se piove, sarà la fine.” Annuncia all’indirizzo della telecamera. Nulla da eccepire su questa idea. Ma il significato di questa frase, nei fatti, va molto più a fondo di così…

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La rivincita dei sette samurai a Rio de Janeiro

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Guardate questo video: chi l’avrebbe mai detto che la pubblicità del ramen gusto pollo nel barattolo potesse essere così intrigante? Oltre il concetto stesso di arte della guerra, un degno rappresentante dell’aristocrazia militare del Giappone storico era un simbolo vivente di supremo individualismo. In una cultura in cui conformarsi era il segno principale della vita quotidiana. C’era sempre, più forte che mai, il dovere all’ubbidienza verso il proprio signore (il kanji 侍 mostra, dopo tutto, un uomo fermo ad aspettare innanzi a un tempio) ma oltre gli ordini espressamente ricevuti, colui che impugna la katana è come un refolo di vento, una goccia d’inchiostro nel grande fiume, il falco grigio dello Honshu, detto l’Ikaruga. Un maratoneta che può scegliere, in base al proprio senso personale delle cose, quando risparmiare il fiato e quando invece dare il proprio meglio nello sprint, per sorpassare gli uomini inferiori a lui. Cosa sarebbe successo, dunque, durante le scorse Olimpiadi, se questi uomini al di fuori del comune fossero ancora esistiti su questa Terra? Con uno spettacolare medagliere da 41 conseguimenti, di cui 12 d’oro, il Giappone ha potuto vantare il risultato numericamente più impressionante della sua storia, benché la classificazione finale, con un più che rispettabile sesto posto (l’Italia è stata nona) non abbia raggiunto le vette dei due precedenti terzi posti, ottenuti a Tokyo ’64 e Messico ’68. Inoltre nella cerimonia finale il premier Shinzo Abe, in preparazione della prossima edizione che dovrà tornare finalmente presso l’arcipelago del Sol Levante, è comparso in un trionfo nell’abito del nintendiano idraulico Super Mario, riconfermandolo come l’icona di un’intera generazione ludica moderna. Eppure la vera domanda da porsi è se tutto ciò sarebbe bastato, a uomini del calibro di Takeda Shingen, la Tigre Rossa del Kai, o del suo rivale sempiterno dalle vesti candide Uesugi Kenshin, con cui si scontrò famosamente per ben cinque volte a Kawanakajima tra il 1553 e il 1561, dando dimostrazione inusitata di coraggio, scaltrezza e abilità guerriera. Prima che il demone del meridione, l’oscuro signore della guerra Nobunaga, qui giungesse con i suoi fucili provenienti dal continente. Se mai si sarebbe lui seduto, sul suo celebre sgabello da campagna militare, al cospetto degli ufficiali col ventaglio rinforzato di metallo, per puntare tale arma verso l’orizzonte e dire: “Arigatou, mou takusan desu. Kaerimashou.” (Grazie, basta così. [Adesso] torniamo a casa.) Piuttosto che calarsi nuovamente l’elmo sulla testa e mettersi lui stesso in gioco, per fare la suprema differenza!
Voglio dire: nella cultura moderna nipponica non è un caso poi tanto particolare. La coscienza collettiva è piena di reincarnazioni dei grandi guerrieri del passato, che vanno a scuola, prendono la metropolitana, guidano robot giganti contro gli alieni (un mestiere, questo, molto rispettato da quelle parti) e vivono storie d’amore con ragazze timide dal fascino ingenuo e (?!) innocente. Qualche volta il nome viene cambiato dagli autori anche se la personalità resta la stessa, mentre in determinati casi il fattore esteriore e la riconoscibilità sono del tutto rispettati, al punto di mostrare l’eroe storico nella sua foggia più famosa, ovvero in armatura. Magari con l’aiuto della prototipica [Henshin!] – Trasformazione! Perché ciò semplifica di molto l’animazione del complicato processo di vestizione. Si dice comunemente che la spada sia l’anima della cavalleria, e ciò è senz’altro vero anche quaggiù, nel più Estremo degli Orienti, ma quale potrebbe mai essere, d’altra parte, il suo corpo? Se non questo. Se non l’unione di stoffa, cuoio e ferro, risalente in origine al remoto IV secolo e più volte ricreata sulla base delle armi maggiormente in auge, ma sempre rispondente ad un bisogno di mostrarsi nel contempo magnifici, e incutere il timor-panico nel cuore dei propri nemici. Mentre oggi…Certo, se un samurai dovesse dimostrare la sua abilità olimpionica al mondo, è difficile immaginare che egli giunga ad occuparsi d’altro che di attività simili a queste: i cosiddetti sport d’azione, che mettono in pericolo l’individuo mentre gli permettono di dare prova della loro abilità. Surf, skateboard, bici acrobatica la camminata ad alta quota sulla corda flessibile della slackline, il SALTAPICCHIO, il pallone da calcio (ehm…) Ma vediamo più in dettaglio, esattamente, cosa abbiamo visto nel sublime video di questa disanima disordinata…

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Le leggendarie patatine dei penitenziari americani

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Secondo la leggenda, avvenne un giorno che un dipendente di un piccolo stabilimento per la produzione di snacks della regione di New Orleans, che stava trasportando un carrello con i condimenti per il bancale del giorno, inciampò e cadde. Le polverine speziate si mescolarono quindi tra di loro e i dipendenti, preferendo salvarle dalla spazzatura, verso l’ora di pranzo presero la strana mescolanza a grandi pizzichi, la portarono in tavola e la misero sopra le proprie personali patatine. C’è il gusto della paprika, quello della salsa barbecue, il sapore dello zenzero e del jalapeño. Il tutto mescolato in un mistico melange, in grado di rapire i sensi e trasportarli dentro un mondo d’estasi cibaria post-industrialista. Nacquerò così, secondo la leggenda, le Voodoo Chips della Zapp, un prodotto particolarmente diffuso negli stati del Sud, ma che risulta letteralmente sconosciuto altrove, tranne che in alcuni fornitissimi autogrill o in alternativa, grazie alla copia che ne ha realizzato il Keefe Group, compagnia detentrice di un importante monopolio. Che potrebbe anche valere, a voler essere (molto) conservativi, svariati miliardi di dollari l’anno: fornire il cibo a tutti coloro che non possono, per cause di forza maggiore, scegliere dove comprarlo. Creando una sorta di piacevole dipendenza… Finché, una volta ritornati liberi, come capitato al protagonista di questa intervista della NBC, un ragazzo tatuato di nome Terry, non possono far altro che procurarselo su eBay. Ed usarlo, ancora una volta, per preparare il proprio piatto preferito…
Negli Stati Uniti c’è un modo in dire. In realtà, ce ne sono diversi, ma questo è particolarmente rilevante per l’argomento di oggi: “The WHOLE shebang” ovvero, traducendo assai liberamente: “Tutto quanto il mucchio/cucuzzaro/bastimento”. Come spesso capita in simili casi, l’etimologia specifica risulta essere tutt’altro che chiara, e non c’è praticamente più nessuno al giorno d’oggi che ancora si preoccupi di chiedersi cosa esattamente fosse, a conti fatti, uno shebang. Secondo Walt Whitman, poeta di Long Island dell’epoca della guerra civile, si trattava di una sorta di rustica abitazione costruita dai disertori della società in fiamme all’ombra dei cespugli, il più lontano possibile dagli spari di moschetto e i colpi di cannone. Nell’utilizzo del celebre scrittore Mark Twain invece, risalente al 1875 e collocato nel romanzo Roughing It, si sarebbe trattato di una carrozza con dello spazio extra per i passeggeri, un versione modificata dell’inglese sharra-bang, a sua volta una derivazione del francese char-à-bancs. Mentre ciò che conta tuttavia, nell’odierno impiego di una tale terminologia, è molto spesso il sentimento: accettare i fatti della vita l’uno dopo l’altro, senza mai fermarsi un attimo a pensare, senza separare il buono e il bello dal cattivo, il brutto e lo sgradevole, ma fagocitare tutto quanto e trarne quanto meno, un’occasione di apprendimento e crescita personale. C’è sempre una pepita d’oro, persino nelle più oscure e orribili miniere. Ciò che occorre, è illuminare i passi che si compiono con la torcia inestinguibile dell’ottimismo, sempre, addirittura quando si è contratto un debito col karma e con la società civile.
È un fatto noto che gli Stati Uniti abbiano, fra tutti i paesi del mondo, uno dei tassi d’incarcerazione più alti in assoluto. È stato calcolato come in media un maschio bianco abbia in quel paese una possibilità su 12 di finire dietro le sbarre nel corso della propria vita, che cresce fino ad 1 su 6 se è di etnia ispanica, e raggiunge addirittura l’1 su 4 nel caso, tristemente noto, del lungo braccio della legge Vs. gli afroamericani. Ciò succede per le ragioni più diverse: per frode, furto, aggressione, omicidio. Per ragioni reali o qualche volta, gli errori umani di giurie fallibili, nonostante le prerogative. Per il proprio egoismo! Oppure, a causa dell’altrui crudeltà. Resta il fatto che con una parte tanto considerevole di cittadini rinchiusi attraverso i differenti gradi della sicurezza imposta, esista una sorta di cultura parallela, come quella dei vampiri e dei licantropi, o degli agenti/hacker del film Matrix, che prospera e si rinnova in condizioni di difficoltà, generando gli strumenti per combattere (bonariamente) il sistema. Punizione? Meditazione? Rieducazione? Niente di tutto questo sarebbe possibile, se da un estremo all’altro dell’esperienza tutto quello che potesse esserci fosse un senso di raccoglimento e lo spegnimento totale delle sinapsi ritenute, a torto, secondarie. Così rinasce quotidianamente, persino in situazioni tanto avverse, il fascino universale della cucina.

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L’epico racconto del samurai che reinventò il ramen

The Originator of Ramen

Freddo, la fila della gente che si estende a molti metri di distanza dal piccolo chiosco, gestito dalla gente del mercato nero. Fame, che ti spinge, nonostante tutto, alla perseveranza. Il clima di Osaka non  particolarmente ostile, persino l’inverno, eppure a queste latitudini non è ignota la neve. Che tutto ricopre con il manto soffice sinonimo di stare sotto le coperte, mentre la società ferma i suoi traffici per aspettare ore più favorevoli agli spostamenti. Ma vi sono esigenze, persino in tali condizioni sconvenienti, che non possono trovare sfoghi di alcun tipo nel mondo fantastico dei sogni. Ed una di queste è l’esigenza di mangiare. Così ricordava, e spesso raccontava, il fondatore della Nissin Foods, Momofuku Ando, a proposito un’esperienza dell’epoca dell’immediato dopoguerra, quando lui aveva circa 35 anni. E nella sua città d’adozione giapponese, in cui si era trasferito all’epoca dell’università dalla natìa Taiwan, vigeva la dura legge del mercato nero. Tutti, poveri e benestanti, vecchi e bambini, per sopravvivere dovevano rivolgersi a coloro che operavano lontano dagli sguardi e dagli artigli del governo, per offrire i presupposti del sostentamento a chiunque avesse il tempo, il modo e la pazienza! Ore di fila, tra il vociare della gente, sperando che un qualcosa rimanesse anche per lui…E poi…Alla fine…La sospirata ciotola fumante, con gli spaghetti formati nello stile cinese e diventati popolari giusto in quegli anni, specie con il condimento di ingredienti nipponici tradizionali, quali aringhe essiccate, funghi shiitake e salsa di soia a profusione. Ma quanta sofferenza, che fatica della mente del corpo, semi-congelato per accogliere le necessarie calorie. Insoddisfatto dell’esperienza, il giovane imprenditore già a capo di un’industria tessile da lui creata, giurò a se stesso che avrebbe cambiato le cose. Già consapevole a pieno, come ufficialmente esemplificato dalla sua più rinomata citazione, che “Il mondo conoscerà finalmente la pace quando ci sarà abbastanza da mangiare per tutti.” Facile, a dirsi! Se mai c’è stata un’utopia…
Colui che inventò nel 1958, tra lo stupore pressoché di tutti, il concetto rivoluzionario del ramen istantaneo, ovvero infuso nella zuppa, poi disidratato e reso pronto da cuocere nell’acqua calda. Questo prodotto che negli ultimi anni, sfondando anche in Europa, è giunto finalmente anche nei nostri supermarket, collocato distrattamente tra la sezione dei cibi esteri, fra fajitas e tortillas di contesti molto differenti. “Qualcuno se lo comprerà!” Giusto? Ma noi stiamo qui parlando, sia ben chiaro, di un personaggio particolarmente amato dai connazionali. Se c’è una cosa che le società legate al culto della tradizione sanno fare molto bene (pensate anche all’Inghilterra) è donare una patina di splendore a coloro che riescono ad offrire un valido servizio alla comunità. Così quando costui giunse al termine della sua vita, alla veneranda età di 96 anni nel 2007, egli aveva ricevuto tra i molti riconoscimenti la medaglia dell’Ordine del Sol Levante di seconda classe, appuntatagli dall’Imperatore in persona pochi anni prima, in aggiunta a quella del Sacro Tesoro, che possedeva dal 1982. Era inoltre stato onorato con il titolo formale di direttore dell’Istituto della Scienza e della Tecnologia, e successivamente alla sua dipartita, ricevette la prestigiosa qualifica di membro della corte di Tokyo, con il quarto grado d’anzianità.
Non c’è quindi nulla da meravigliarsi se la compagnia che aveva fondato nel 1948, come risposta diretta all’esigenza di coronare il suo sogno, abbia recentemente deciso di renderlo ancora una volta emblema postumo dei propri prodotti, grazie alla realizzazione di una nuova, intrigante pubblicità. E ciò che senz’altro colpisce nel breve cartone animato del genere anime, creato in un particolare stile in bianco e nero dall’estetica quasi noir, è la scelta creativa di aver ambientato la sua vicenda in un contesto chiaramente pre-moderno, con Ando che vi compare abbigliato, e in qualche maniera instradato, per il ruolo di un antico samurai. Completo di spada, cappello di paglia e addirittura sashimono, l’insegna da spalla che portavano i guerrieri per onorare il loro imprescindibile clan. Un’operazione risulta evidentemente motivata dall’associazione concettuale che tutt’ora esiste, tra il mondo decaduto di quei rinomati maestri di spada ed eleganza, e un senso contemporaneo del cool, talmente diffuso da essersi trovato punto d’incontro per innumerevoli e confusi fan. La scelta in questione tuttavia, nel presente caso potrebbe aver tratto l’ispirazione semplicemente dall’artista reclutato per curare le illustrazioni della campagna: niente meno che Takashi Okazaki, già noto come l’autore del progetto multimediale di Afro Samurai.

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