E così, francese, dici che puoi correre con l’armatura?

Armored Boucicaut

I vestimenti metallici dei cavalieri risplendevano persino sotto il sole tenue di fine ottobre, mentre il meglio della Francia si schierava in cima a un colle ad Agincourt. Ma nessuno, in quel frangente, aveva un’espressione più decisa, un cipiglio maggiormente fiero, ed una presa ancor più salda sulle redini che Jean Le Meingre detto Boucicaut, esimio maresciallo del Regno, salvatore del patriarca di Costantinopoli, flagello dell’antipapa Benedetto XIII ad Avignone, nonché probabilmente il più famoso guerriero della sua era. Estremamente consapevole, come del resto il conestabile Carlo d’Albret alla sua destra, per non parlare delle due vecchie conoscenze d’arme e d’avventure i duchi Charles d’Orléan e Giovanni I di Borbone che si agitavano in sella sulla sua sinistra, che se eri Enrico V il re d’Inghilterra nel 1415, e volevi rimanere tale, non imbarcavi circa 10.000 truppe in prossimità dello Stretto di Dover, non le traghettavi con lo scarso numero di imbarcazioni fino al passo di Calais, e soprattutto non ti lanciavi all’assalto di una mezza dozzina di fortezze prive di significato in giro per la Piccardia, quasi dimezzando i tuoi soldati in modo inutile, per poi tentare di tornare in patria con quel poco che ti rimaneva. Si, le notizie sull’incipiente pazzia del re di Francia Carlo VI, vecchio amico d’infanzia del possente maresciallo, potevano anche essere vere. Ma dall’altro lato della Manica, a quanto pare, la cupidigia del guadagnarsi nuove terre stava per mietere ancor più vittime della guerra civile tra Armanacchi e Borgognotti, scaturita dalla necessità d’istituire una reggenza a Parigi.
Un falco ammaestrato, senz’ombra di dubbio la proprietà di un nobile locale, lanciò il grido che segnava lo scoccar dell’ora storica del cambiamento. Era proprio questa del resto, la fine di una lunga cavalcata a perdifiato, che aveva finalmente permesso ai francesi, dopo numerosi fallimentari tentativi d’imboscata, di sorpassare gli invasori e sbarrargli la strada, tra due alture fittamente alberate che non gli avrebbero permesso di fuggire tanto facilmente. Il perfido dragone, dunque, sarebbe finalmente perito in questa valle, liberando la France dal più terribile dei rischi che correva: ritrovarsi presto comandata da un re inglese. Il cavalier di Boucicaut, giunto l’epico momento, sollevata in alto la sua lancia col vessillo, diede allo schieramento il suo segnale di avanzata. Come un sol uomo, 36.000 tra cavalieri, fanteria, balestrieri genovesi ed arcieri fecero il primo passo verso la vittoria, discendendo verso il fulmine ed il lampo della gloria. Naturalmente, l’impatto tra gli schieramenti non avvenne subito. Mentre i francesi tentavano d’indurre una probabile carica suicida sfidando il nemico, Enrico V dispose i circa 4.000 tiratori che gli rimanevano sulle ali destra e sinistra, dietro delle fortificazioni improvvisate con pali di legno appuntiti, mentre 1.000 uomini d’arme e cavalieri appiedati, con picche, alabarde e semplici spade, si ponevano al centro dello schieramento, per assorbire l’impatto del nemico. Uno schieramento, tutto considerato, relativamente ben concepito. Ma la differenza numerica, di armi ed equipaggiamento era di certo troppo significativa, o almeno questo riteneva Boucicaut. Così alla fine, fu proprio lui a lanciarsi all’assalto, assieme ai circa 8.000 coraggiosi cavalieri che includevano, nei fatti, una buona metà della corte di Francia.
Trovarsi all’altro lato di una carica di cavalieri di quell’epoca del Basso Medioevo costituiva, nei fatti, un’esperienza terrificante. Innumerevoli storie e leggende narravano di piccoli manipoli appartenenti a questo o quell’Ordine rinomato, che galoppando tra gli schieramenti dei non-cristiani, potevano distruggere la coesione di forze numericamente molto superiori. Un guerriero pienamente corazzato, con palafreno adeguatamente abile nel suo ruolo, era una forza inarrestabile comparabile a quella di un moderno carro armato. Soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare Enrico V, in quel frangente. Ed il miracolo (della tecnologia) arrivò. O per meglio dire, esso era già lì, cautamente avvolto in un panno impermeabile nei bagagli di ciascun margravio, ogni vassallo, dei pochi popolani e seguaci che si erano trovati a supportare l’offensiva del re. Il suo nome: longbow. L’arco lungo, il più letale strumento bellico che fosse stato mai schierato in un campo di battaglia. Soltanto che allora, non lo sapeva ancora nessuno. L’arte del tiro a lunga gittata era infatti praticata in Inghilterra come una sorta di sport, trasmesso di padre in figlio nelle città, nelle tenute, nei villaggi, come un utile modo per andare a caccia e procurarsi della carne. Le frequenti competizioni regionali, nonché il plauso concesso ai migliori cecchini, costituivano tutto il premio di cui avessero bisogno costoro. Poi nel momento della verità militare, naturalmente, quell’attrezzo si scopriva estremamente utile allo scopo di difendere se stessi ed il paese: perché una freccia che può giungere fino a 200 metri, altrettanto facilmente, se chiamata a farlo, avrebbe perforato qualche valido centimetro d’acciaio. Uccidendo chicchessia. Così Boucicaut, alla testa dei suoi prodi, si lanciò alla carica contro l’istrice inferocito, contando assieme agli altri comandanti sulla forza imperitura del suo diritto di nascita, l’onore e la fierezza dei cavalieri. Per primo cadde Carlo d’Albret, colpito fatalmente alla gola. Quindi i Duchi di Borbone e d’Orléan, i cui cavalli, follemente, non portavano una bardatura laterale. E infine egli stesso, il più grande cavaliere della Storia. Mandato a rotolare giù nel fango, mentre gli zoccoli infuriavano tutto attorno alle sue membra indolenzite. Ma l’intera vicenda, a conti fatti, non poteva certo finire a quel modo…

Met Armor Galleries
Alcuni addetti del Metropolitan Museum of Arts di New York dimostrano, in un vecchio video degli anni ’20, la facilità con cui fosse possibile muoversi in armatura. Già allora, risultava estremamente facile sfatare il mito secondo cui un cavaliere disarcionato fosse totalmente privo di risorse o capacità di riscossa.

Ora, le prime battute della battaglia di Agincourt sarebbero state sufficienti a scoraggiare chiunque. Il problema era che i comandanti francesi, come del resto tutti coloro che erano venuti prima, avevano fatto affidamento su un approccio allo scontro che definire tattica sarebbe stato estremamente ottimistico: semplicemente si erano lanciati all’assalto con le loro truppe più forti, certi che i deboli inglesi avrebbero ben presto capitolato in forza di un crollo a picco del morale e della voglia di combattere contro di loro. Ma lo schieramento avversario era comandato dal re stesso, ben consapevole di quello che una sconfitta avrebbe comportato. Così era stato creato artificialmente uno sbarramento invalicabile, quello stuolo di pali che proteggevano gli arcieri, e tra i fieri cavalieri di Francia ciò scatenò immediatamente il panico. Guerrieri con cumuli di vittorie alle spalle venivano facilmente trafitti dalle frecce scagliate dai longbows, mentre i loro cavalli, imbizzarriti, si voltavano per scatenare lo scompiglio tra i seguaci appiedati. Mucchi di cadaveri, semi-sepolti nell’acquitrino, impedivano ulteriormente l’avanzata, mentre una letterale pioggia di dardi continuava la sua opera di strage. In mezzo a un simile caos, il grande conquistatore Boucicaut si rialzò da terra. E cominciò a correre verso il nemico.
Molte sono le storie sulle imprese di Jean Le Meingre, maresciallo di Francia figlio di un maresciallo di Francia, nonché compagno di studi in gioventù dello stesso re pazzo Carlo VI, di cui era stato in molti frangenti l’uomo personale. Che era anche stato dal 1401 al 1409 governatore dei possedimenti d’Oltremare di Genova e Milano, a quell’epoca protettorati francesi. Le principali fonti che abbiamo sulle sue imprese, tra cui il Livre des faits du bon messire Jean le Meingre dit Boucicaut (1620) citato in via specifica nello sperimentatore del nostro video di apertura, parlano di un uomo dissimile da ogni altro, il cui severo regime di auto-addestramento permetteva di prevalere in ciascun singolo torneo cavalleresco. Nel video prodotto dal canale di YouTube Medievalists, l’atleta ripercorre e dimostra le diverse tecniche narrate nel testo, che una voce fuori campo legge in un impeccabile, quanto incomprensibile francese d’altri tempi. Egli effettuava degli esercizi di riscaldamento, finalizzati a preparare il corpo e lo spirito, quindi balzava a cavallo già completamente bardato, senza alcun bisogno di aiuto. Poi correva per chilometri, al fine di costituirsi una riserva di fiato sufficiente per le battaglie a venire. Ritrovandosi nel bosco, a quel punto, prelevava della legna da ardere. E sempre completamente in armatura, iniziava a farla a pezzi con la sua accetta, indifferente allo sforzo che ciò gli richiedeva. Presa una scala a pioli, quindi, la appoggiava al muro in posizione molto diagonale. Ed afferratola con entrambe le mani da sotto, iniziava a risalirla al contrario. Ma la parte migliore si scopre nel finale del video, quando viene mostrato l’aspirante emulo di Boucicaut che si arrampica su una parete da scalata, nelle parole del testo “alta come una torre” e poi discende nuovamente. Tentando di non far pesare la presenza della sua imponente, pesantissima corazza. Che ad ogni modo, egli non toglieva quasi mai, neppure quando veniva il momento di danzare nelle corti di mezza Europa.

Life in Armor
Non tentare a casa: i risultati possono variare. Mad Swordsman, un giovane americano appassionato di storia della città inglese di Portsmouth, ci mostra le problematiche che incontrerebbe subito il moderno Boucicaut, a cominciare da quello di entrare dentro all’automobile. Certo, anche la qualità dell’armatura avrebbe dovuto fare la sua parte…

Essere disarcionato dal codardo tiro a distanza degli inglesi, quindi, non avrebbe certo fermato quest’uomo. Gridando tutta la sua furia tra i guerrieri in fuga, il cavalier di Boucicaut si alzò dal fango, la lancia ormai spezzata e dimenticata tra i cadaveri dei suoi compagni. Estratto il suo spadone, assieme agli altri cavalieri rimasti appiedati ma ancora vivi, egli caricò la sparuta fanteria straniera, dotata di armature leggere ed armamenti certamente insufficienti…A fermare LUI. Accompagnato da duchi e conti, circondato, dai più valenti, ancorché feriti nel fisico e nell’orgoglio, cavalieri di Francia, l’ormai non tanto giovane maresciallo impattò contro le fila del nemico. E vibrando colpi da ogni lato, disarmò e uccise fino all’ultimo respiro che gli rimaneva. Finché un colpo vibrato da un lato, ad opera di un qualche insignificante campagnolo, senza alcun blasone degno di nota, non lo face capitolare a terra, privo di sensi. E così finì la sua battaglia di Agincourt.
In seguito, le cose non fecero che andar peggio per i francesi. Più e più volte, la fanteria rimasta, assieme ai rinforzi che avevano raggiunto il grosso delle truppe a sèguito del duro inseguimento, tentarono di far breccia sull’altura posseduta da Enrico V. Ma ogni carica, nonostante l’ardore, dovette scontrarsi con la dura realtà degli archi lunghi, la cui gittata e potenza bastavano rendere qualsiasi corazza, o scudo, totalmente inefficienti. I figli o nipoti di questi soldati, molto probabilmente, avrebbero potuto individuare in tali eventi un fosco presagio del futuro: il primo spettro di una guerra in cui non più un duro addestramento bellico personale, ma il semplice numero delle unità in grado di uccidere da lontano, avrebbero determinato l’esito ed il passo della storia. Fossero queste ultime armate di arco, balestra, archibugio, oppure…
Verso il termine del primo e ultimo dì della battaglia, il re d’Inghilterra fece radunare gli innumerevoli prigionieri catturati, e senza un attimo di esitazione ne ordino l’uccisione in massa. Nonostante la crudeltà del gesto gli storici coévi non condannarono una tale decisione: l’esercito era infatti in una tale minoranza numerica, che una semplice rivolta condotta con le armi recuperate sul campo di battaglia avrebbe potuto invertire le sorti del conflitto. Lo schieramento francese tuttavia, alla visione di una simile spietatezza, immediatamente perse animo e si ritirò. Il monarca vincitore ritornò così in patria, conseguendo uno status di trionfatore letteralmente privo di precedenti. Tale da permettergli, con il Trattato di Troyes del 21 maggio 1420, di farsi nominare reggente di Francia ed erede di Carlo VI, ovvero sommo sovrano di Francia. Ma nuove guerre rimanevano in agguato! Boucicaut nel frattempo, assieme ad altri individui di altissimo rango sconfitti ad Agincourt, era stato miracolosamente risparmiato, con la probabile intenzione successiva di chiedere un riscatto. Ma le condizioni del suo fedele amico il re pazzo, di lì a poco non avrebbero fatto altro che peggiorare e nessun altro riuscì a racimolare la somma necessaria al suo salvataggio. E fu così che il grande cavaliere morì prigioniero a Londra, nel 1421. Aveva 57 anni, un’età comunque rispettabile per chi faceva la sua vita, soprattutto in quegli anni di scienza medica non propriamente ineccepibile.
Col suo decesso, in un certo senso, ci lasciava un ulteriore intangibile quantum dell’ideale cavalleresco, destinato a disperdersi tra le molecole di una nuova, più funzionale ed al tempo stesso detestabile, natura della strategia di guerra.

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