L’ascesa e la caduta di Urartu, misterioso regno antesignano dell’Armenia

È importante tenere presente, quando ci si approccia allo studio della prima Età del Ferro, che le nozioni di cui disponiamo in merito a nazioni di una particolare area geografica è principalmente la diretta conseguenza delle limitate testimonianze dimostratesi capaci di attraversare indenni il passaggio di quasi tre millenni. In tal senso grandi e organizzati popoli, le cui tecnologie e metodi di archiviazione impiegavano soltanto materiali deperibili, finiscono per venire accorpate o confuse con altre più “importanti”. Il cui principale merito fu quello di lasciare ai posteri una chiara descrizione pratica delle loro gesta. Il caso di Urartu, un potente stato del Vicino Oriente che prosperò per un periodo di due secoli nel vasto territorio dell’Altopiano Armeno, la singolare sovrapposizione di influenze culturali variegate ed un’organizzazione politica centralizzata lasciò chiari segni grazie allo strumento delle epigrafi scritte su pietre monumentali, pareti delle fortezze e dei templi. Sempre utilizzando con una lingua originale, probabilmente di derivazione hurrita, il riconoscibile alfabeto cuneiforme più comunemente associato ai vicini Assiri, che tuttavia possiamo desumere esser stati loro acerrimi nemici, più volte combattuti o respinti in una serie interminabile di battaglie per il territorio. Ciò che gli archeologi hanno dunque ricostruito con ragionevole certezza, tramite gli studi scientifici formalmente iniziati non prima del XIX secolo, è che un re di nome Arame unificò le tribù disunite della suddetta regione nell’anno 858 a.C, durante il regno del potente Re Shalmaneser III dell’Assiria. I due sovrani, in seguito a quella che potrebbe essere stata interpretata dal secondo come una forma di rivolta, si combatterono aspramente fino alla cattura della capitale di Urartu, Arzashkun e la conseguente costruzione della più inespugnabile città-fortezza di Tushpa, presso una collina a strapiombo sopra le acque limpide del lago di Van, che sarebbe rimasta il principale centro politico e amministrativo del regno per l’intero periodo degli anni a seguire. Molte teorie sono state elaborate, e strade tentate al fine d’indentificare l’origine di questo primo sovrano, comunque associato alla figura poetica di Ara il Bello, menzionato nel canone leggendario armeno come oggetto dell’amore irrazionale e sconfinato della regina Semiramide, la quale mosse guerra nei confronti del suo popolo per riportarlo prigioniero nei suoi palazzi. Soltanto per causarne accidentalmente la morte, prima che i sacerdoti urartiani riuscissero miracolosamente a riportarlo in vita nel villaggio di Lezk. L’esatta antichità o appropriatezza culturale di tale vicenda restano d’altronde prive di conferma, benché risulti possibile far avanzare il racconto di quell’epoca mediante le ulteriori iscrizioni ritrovate nei diversi insediamenti facenti parte dell’area d’influenza dei suoi successori. Da suo figlio Lutipri che regnò fino all’834 a.C e passando per Sarduri I, ritenuto il fondatore di una seconda dinastia responsabile dell’espansione dei confini dalla zona di Aras fino ai margini della Mesopotamia meridionale e non lontano dalle coste del Mar Nero. Conseguendo numerose vittorie militari a discapito di popoli considerati per lunghissimo tempo tra i più potenti del proprio contesto storico ed ambiente coévo…

Per quanto concerne l’aspetto della cultura e società di Urartu, possiamo affermare con certezza dunque che fu il figlio di Sarduri I, Ispuini (820-800) a introdurre ed accrescere la diffusione della religione del Dio supremo Haldi, feroce eroe alato spesso raffigurato con un piede che schiacciava la testa di un leone del tutto incapace di ribellarsi. Laddove il complesso e stratificato pantheon, probabilmente ereditato dalle differenti tribù originariamente situate sul territorio, includeva anche altre figure dominanti quali Teiseba, signore ultraterreno delle tempeste e Siuini, personificazione dell’astro solare. Dal punto di vista politico, d’altronde, Urartu era nota per lasciare gli abitanti delle regioni sottomesse liberi di praticare le proprie attività rituali e sociali, accontentandosi che essi riconoscessero l’autorità di una nutrita “famiglia reale”, capace di raggiungere anche i 300 membri, e pagassero i tributi necessari alla gestione di un gruppo d’insediamenti in grado di agire come un’entità politica coerente. Il che includeva con particolare rilevanza, a quei tempi, l’amministrazione dei terreni agricoli, che venivano considerati tutti appartenenti, per lo meno dal punto di vista nominale, al sovrano stesso. Gli urartiani seppero del resto dimostrarsi come abili e comprovati costruttori, non solo di alte mura cittadine ma anche dei sofisticati sistemi di irrigazione, niente meno che essenziali per la produzione di cibo nei territori aridi oggetto della loro presenza plurisecolare. Mentre dal punto di vista artistico, abbiamo ritrovato esempi di una valida arte figurativa, particolarmente nella realizzazione in bronzo di oggetti come fibbie o calderoni decorati, oltre a scudi ed altri implementi bellici impiegati durante le loro campagne. Un motivo ricorrente era quello del bue, animale presente in grandi quantità nelle stalle di Van col fine di specifico di venire frequentemente sacrificato agli Dei.
Ciò che possiamo affermare di sapere grazie ai dati raccolti dai praticanti moderni e contemporanei dell’Urartologia, un campo di studi nato grazie al professore tedesco Friedrich Eduard Schulz nel 1827, che scoprì la prima epigrafe su di una stele in un passo montano prima di essere assassinato dai banditi curdi l’anno successivo, è che l’Urartia raggiunse l’estensione massima della sua influenza durante il regno di Sarduri II (763 – 735 a.C.) prima d’iniziare a subire colpi per le invasioni ai margini dei popoli nomadi iranici Cimmeri, mentre gli Assiri avanzavano nuovamente per volere del loro nuovo Re, Sennacherib. Il declino sarebbe stato tuttavia lento ed avrebbe avuto una durata di oltre un secolo, finché al termine del periodo governato da Rusa IV (609–590 a.C.) un’alleanza di Sciti e Medi avrebbero infine conquistato la capitale Van e la fortezza di Tushpa, distruggendo il centro di potere lungamente custodito dalle armate di Urartu. Il che avrebbe aperto la strada alla futura ascesa dell’identità del popolo Armeno, i cui lunghi conflitti con la Persia plasmarono in parte l’aspetto sociale e politico che sussiste ancora in quest’importante zona geografica di confine.

Urartu è stata dunque, e rimane tutt’ora, una significativa anomalia. Un regno ragionevolmente potente e molto organizzato, capace di mantenere un’identità distinta nonostante i molti commerci e l’interscambio generazionale con l’Assiria, dotato di proprie leggende, credenze e sistemi sociali di cui abbiamo una conoscenza nozionistica più che mai incompleta. Destinato a perire da una serie di circostanze avverse susseguitesi l’una dopo l’altra, così come avrebbe potuto capitare a innumerevoli altre civiltà o imperi del Mondo Antico, di cui non ci è rimasta alcuna traccia apprezzabile in assenza di un comparabile patrimonio di iscrizioni ed altre epigrafi resistite al tempo. Ma Urartu sarebbe stata menzionata, a suo modo, nel testo della Bibbia grazie all’assonanza più che mai palese del nome del monte Ararat. E non c’è un luogo che avrebbe potuto suscitare una curiosità maggiore, nell’approfondimento della storia guidato dagli sfuggenti teoremi del metodo scientifico agli albori, che scoprire il punto di rinascita dell’intero regno animale inclusa l’umanità, al concludersi della maggiore catastrofe alluvionale di cui possediamo un’apprezzabile narrazione.

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