Lo splendore medievale di Ani, città in rovina sul confine d’Armenia

Disseminati nella grande pianura erbosa nel mezzo del nulla più assoluto, il gruppo di edifici e chiese sembra sorvegliare il dirupo che delimita l’antistante Turchia. I pilastri derelitti di un ponte, ultimo residuo di quel fondamentale punto di collegamento tra Oriente ed Occidente, preannunciano lo stato di simili luoghi dimenticati; alti e svettanti, maestosi a lor modo. Eppure consumati dal trascorrere del tempo e i lunghi secoli d’incuria. Lì una chiesa con il campanile cilindrico, circondato dai più rappresentativi absidi dell’architettura del XIII secolo, quando venne consacrata alla figura di San Gregorio degli Onenti. Poco più avanti, precariamente in bilico sul gran burrone, i resti consumati dell’antico mausoleo, un tempo dedicato ad ospitare i resti del principe Grigor Pahlavuni, nonché luogo di culto celebre col nome di San Gregorio degli Abughamrensi. E poco più in là, l’alto minareto della moschea di Manuchihr, costruita nel corso dell’impero dei Turchi Selgiuchidi, attraverso un periodo tra l’anno 1.000 e duecento anni a partire da quella data. Isolata, nel punto privilegiato di un simile scenario, l’imponente cattedrale completata nello stesso periodo, su ordine del re Gagik I e grazie all’opera del grande architetto Trdat, rimasta priva di un tetto a seguito del grande terremoto del 1319. Un destino comunque migliore, di quello toccato in sorte alla Chiesa del Redentore, letteralmente tagliata a metà ed oggi sostenuta da una serie d’impalcature, a seguito di una tempesta verificatosi nel 1955. Il tutto protetto, ormai da un lato soltanto, dalle alte mura ciclopiche di una potente dinastia di re medievali, che resistettero per lunghi anni ai ferventi assalti dei Bizantini prima, e i Selgiuchidi a seguire, ma non avrebbero potuto far nulla di fronte alla paziente distruzione del tempo. Chi ha vissuto in questi luoghi? Chi ha potuto costruire tutto questo, prima di sparire essenzialmente dalle pagine geografiche di una nazione, andando incontro alla fondamentale diaspora di un’Era? (Antefatto di tragedie ancor più grandi, che dovevano ancora venire!)
Fu la ricerca di uno stato d’equilibrio in un momento storico, e contesto politico, estremamente travagliato. Si trattava, essenzialmente, dell’accordo su cui sarebbe stato costruito un regno. Quando Ashot I, figlio di Smbat VIII il Confessore nonché principale depositario della dinastia armena dei Bagratuni, venne nominato Principe dei Principi (primus inter pares) con il benestare delle principali famiglie nobiliari nakharar, a partire dall’862 d.C. si affrettò a stringere un accordo con i califfati arabi che circondavano il suo territorio, legittimando la qualifica di fronte ai suoi vicini. Quindi, con l’aiuto del fratello Abas Bagratuni, sommo generale e sparapetto degli eserciti riuniti, mosse immediatamente guerra contro i Kaysiti di Manazkert, l’emiro di Barda e l’Iberia caucasica, nel tentativo di consolidare il suo potere. Soltanto cinque anni prima della sua morte, sopraggiunta durante un viaggio per soprassedere alle campagne militari nell’890, con un grande plebiscito dei suoi sottoposti, venne quindi nominato re d’Armenia. Fu questo l’inizio della cosiddetta “seconda età d’oro” delle sue genti, con la fondazione del regno Bagratide, destinato a durare un lungo e significativo periodo di 160 anni. Ma sarebbe stato solamente nel 961, durante il regno del suo successore Ashot III il Misericordioso, che una simile nazione avrebbe finalmente trovato la sua capitale. Costruita in un luogo dalle straordinarie difese naturali, lungo il passaggio strategico di un lunga serie di rotte commerciali, tra cui quella più importante di tutti, la Via della Seta. Un luogo destinato a diventare favolosamente ricco, celebre e sostanzialmente una delle città più avanzate e importanti di tutta l’Europa del decimo secolo, con una popolazione stimata attorno ai 100.000 abitanti. E urbanisticamente caratterizzata all’apice della sua magnificenza, secondo un’iperbole poetica particolarmente diffusa, dall’alto profilo di mille e una chiesa. Osservate grazie all’occhio della mente, dunque, la città di Ani. Prima che le sabbie del tempo finiscano per ricoprirla, al termine di una serie di travagliati eventi storici e feroci battaglie…

Nelle rappresentazioni speculative, Ani è una gigantesca città fortezza in bilico tra il confine di Armenia e Turchia. Ben poco di tutto questo, tuttavia, può oggi essere ammirato dai viaggiatori più intraprendenti.

Il problema nell’interpretazione corrente dell’architettura medievale europea è che essa viene normalmente osservata e commentata, per quanto possibile, attraverso la lente di una serie di luoghi particolarmente noti, a discapito di altri che molti libri preferiscono tralasciare. Ma se scegliamo di volgere lo sguardo verso Est, sono pochi i luoghi degni di vantare un ricco sincretismo, nonché alto livello di rilevanza, paragonabili alla dimenticata capitale del regno Bagratide, che tanti eventi nefasti dovette affrontare, fino alla sua rovina e sostanziale abbandono nel XIV secolo d.C. Un lungo declino già iniziato con la disputa dinastica alla morte di re Gagik I (989–1020) quando l’impero rivale dei Bizantini approfittò dell’instabilità politica per un’astuta manovra politica, seguìta dall’invio degli eserciti, per catturare finalmente quelle mura tanto a lungo desiderate, installando un governatore ed includendo la città nei propri domini. Ma Bisanzio scoprì ben presto come il ruolo di mediazione degli Armeni avesse avuto in realtà un’importanza primaria, agendo come cuscinetto contro le mire espansionistiche dei Turchi Selgiuchidi, che nel 1064 assediarono la città, riuscendo a catturarla dopo un periodo di appena 25 giorni. Seguì un terribile massacro, da cui non vennero risparmiati neanche donne, anziani e bambini, mentre una quantità stimata di 50.000 uomini venne presa prigioniera, per condurre il resto della propria vita in schiavitù. Nel 1072, quanto restava della capitale ormai depopolata venne quindi venduto alla dinastia degli Shaddadidi. Ma i conflitti, per questo lungo d’importanza geografica primaria, non erano ancora finiti e a più riprese il regno confinante della Georgia, nel 1124, 1161, 1174, 1199 fece il possibile per possederla, vedendola ricatturata ogni volta dagli Shaddadidi, finché nel 1209, sotto il comando della grande regina Tamara, un discendente degli Armeni, il generale Zakare, tornò nuovamente a possedere il territorio di Ani. Fondando una nuova dinastia, che sarebbe durata almeno fino al 1236, quando la capitale venne nuovamente saccheggiata, questa volta dalle orde dei Mongoli durante gli anni delle loro più feroci conquiste. Un grande terremoto, nel 1319, si sarebbe occupato di garantire il resto.
Oggi (quasi) nulla resta, essenzialmente, di un luogo che doveva un tempo essere stato magnifico quanto le città di Roma e Costantinopoli, sebbene su una proporzione più ridotta. Tranne quei ponderosi e resistenti edifici in pietra lavica, costruiti un tempo dai diversi principi e nakharar armeni che facevano a gara per guadagnare il più alto grado di prestigio presso il proprio sovrano e dinnanzi allo sguardo delle moltitudini in solenne attesa. Luoghi di culto conformi all’idea di un’architettura di tipo cristiano ortodosso, ma con molte contaminazioni delle confinanti culture arabeggianti, le cui svettanti cupole sarebbero tristemente crollate, entro un periodo di qualche secolo di sangue, sofferenza e tragedie. Mentre il sopraggiungere della modernità, purtroppo, non avrebbe in alcun modo migliorato le cose.
Nel 1878, con la conquista della regione di Kars da parte dell’Impero Russo, Ani attirò l’attenzione del rinomato archeologo Nikolay Yakovlevich Marr, che iniziò immediatamente uno scavo nella perduta capitale armena. Le sue ricerche e pubblicazioni, per non parlare della quantità spropositata di manufatti inviati presso i principali musei del tempo, portarono a una rinomata fama del sito nel mondo accademico e la cognizione popolare, facendone un importante simbolo politico e religioso. Destinato a rimanere, tuttavia, del tutto privo di protezione, fino alla fine della grande guerra. Fu così che nel 1918 le armate dell’Impero Ottomano, nel tentativo di riconquistare la neonata Repubblica Armena, raggiunsero l’antico luogo, iniziando un ulteriore ed ancor più sistematico dei suoi preziosi tesori. Successivamente alla resa delle truppe turche e nell’epoca immediatamente successiva al trattato di Versailles, prima di ritirarsi da Ani, il comandante del fronte orientale Kazım Karabekir ricevette quindi l’ordine nel 1921 di distruggere fino all’ultimo dei suoi antichi monumenti, assieme a coloro che tentassero di preservarli. Direttiva che fortunatamente, decise di non rispettare. Benché altri ufficiali nella sua stessa posizione e situazione storica, purtroppo, non avrebbero fatto la stessa cosa.

La cattedrale di Ani, come molti altri luoghi di culto della città, venne trasformata nel 1064 in una moschea. La cupola dell’edificio sarebbe purtroppo crollata nel 1319, a seguito del grande terremoto che avrebbe suggellato l’abbandono definitivo della città.

Un tempo e un luogo destinati a riservarci, più di ogni altro, una lente utile a comprendere la società di coloro che riconoscendosi in una cultura nettamente distintiva, fecero il possibile per preservarla all’interno di un ambiente politicamente ostile. E che già nel remoto Medioevo, andarono incontro a quel tipo di sofferenze ed efferati massacri che, molti secoli dopo, avrebbero raggiunto la più efferata delle perfezioni tristemente immaginabili dall’uomo. Che l’alto livello culturale ed ingegneristico raggiunto dagli Armeni avesse raggiunto gli assoluti vertici del mondo civilizzato di allora, all’epoca del regno dei Bagratidi, è una questione estremamente semplice da confermare, osservando le ossa splendide e sbiancate della città delle mille e uno chiese, parzialmente polverizzata dal trascorrere di oltre un millennio.
Se poi tutto questo sia poi stato preservato in maniera idonea e per quale serie di ragioni politiche, anche considerate le sfavorevoli circostanze, è un’argomentazione oggetto di dispute assai comprensibilmente accese. Di certo, l’iscrizione nel 2016 del sito nell’elenco dei patrimonio dell’UNESCO potrà essere uno strumento utile per la sua futura riscoperta. Ma perché la città di Ani possa ritrovare anche soltanto una scintilla della sua antica magnificenza occorrerà, più di ogni altra cosa, venire a patti con gli eventi di uno scomodo passato. Per comprenderne, finalmente, le globali e sempiterne ramificazioni.

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