La Repubblica Autonoma di Nakhchivan, exclave dell’Azerbaigian situata tra Armenia ed Iran, ha molto di cui essere orgogliosa. Fautrice di uno sviluppo industriale particolarmente significativo negli ultimi anni, particolarmente incentrato nella transizione verso metodi energetici di tipo rinnovabile, essa vede l’integrazione tra antico e moderno tipica dei paesi che hanno saputo fare la pace con il proprio passato, coltivando al tempo stesso la modernizzazione di strade ed ambienti urbani, mentre continua a preservare il tesoro di valli e foreste dall’imprescindibile rilevanza ambientale. Ma ciò che maggiormente risulta essere caratterizzante, nell’immagine internazionale di questo luogo non eccessivamente frequentato dal turismo d’Occidente, è la presenza di alcuni siti archeologici capaci di costituire un punto di riferimento nell’inquadramento storiografico di questa regione, un importante punto di snodo strategico nel percorso di conquista di chiunque intenda catturare, traendone successivo beneficio, le importanti risorse agricole e minerarie delle montagne del Caucaso, in bilico tra i due principali bacini idrici all’interno dell’Eurasia. Prendete ad esempio l’antichissima e lungamente utilizzata fortezza, descritta per la prima volta da un viaggiatore spagnolo del XV secolo come una letterale cittadella, con vigneti, frutteti, campi coltivati e pascoli, circondati da mura ed alte torri ad un’altezza di 1700 metri lungo le pendici del monte Alinja. Sebbene utilizzando all’epoca il nome armeno di Yernjak, restando del tutto inconsapevole degli oltre mille anni di storia trascorsi dall’originale costruzione di questo complesso, confermati soltanto dai ritrovamenti archeologici e gli approfonditi studi condotti in epoca moderna. Quando acquisito l’appellativo del tutto arbitrario di “Machu Picchu azera” la fortezza ribattezzata con l’appellativo precedente di Alinjagala (torre di A.) avrebbe incontrato un rinnovato interesse da parte degli estimatori delle epoche antecedenti, ovvero chiunque riuscisse a individuare l’importanza di un tale luogo nell’acquisizione di un quadro completo della situazione politica e culturale di una simile terra di confine. Qualcosa che sembra esulare, a pieno titolo, da qualsiasi definizione tecnica priva di contesto.
La fortezza nasce quindi, secondo i dati raccolti, almeno attorno al VI secolo d.C, quando vantava il compito di proteggere i domini delle casate nobili armene dalle scorribande dei popoli di matrice araba provenienti dal vicino Oriente. Appartenente molto probabilmente alla famiglia nobiliare dei Bagratuni, membri dell’omonima dinastia regnante armena, essa compare dunque in modo estensivo in alcuni frammenti riferiti alle conquiste dell’amiro Sagide Yusuf ibn Abu Saj, temibile generale che circa tre secoli dopo riuscì a conquistarla durante il regno di Smbat I (r. 890-914) catturando il sovrano ed a quanto ci è dato comprendere, mettendolo a morte proprio dinnanzi alle mura della sua “imprendibile” fortezza. Naturalmente all’epoca la particolare configurazione territoriale del paesaggio ove sorge il complesso non doveva ancora essere stata sfruttata fino al massimo del suo potenziale, se è vero che questa facile sconfitta, nei molti anni a venire, non si sarebbe più ripetuta con modalità effettivamente comparabili. Dopo un periodo di strano silenzio nella narrazione giunta fino ai nostri giorni, la cittadella ricompare quindi all’inizio del XIII secolo con il ruolo di sede del tesoro ed erario di stato degli Ildegizidi, dinastia islamica turca la cui capitale era sita in corrispondenza dell’odierna città di Armavir. Con il decadere per una crisi dinastica di tale predominio, la fortezza passò di nuovo sotto il controllo arabo, ed in particolare quello dell’emiro Khoja Dzhovhar, il cui potere si estendeva da Kapan fino a Tabriz. Furono questi gli anni probabilmente in cui le mura vennero costruite lungo le intere pendici della montagna, costruendo una serie di barriere militarizzate che nessun esercito avrebbe potuto varcare facilmente utilizzando la forza delle armi. Se non che alla morte di Dzhovhar senza rilevanti eredi, ancora una volta il baluardo sarebbe passato di mano, finendo sotto il controllo del suo vassallo Altun. Era quindi il 1387, quando il capitolo maggiormente significativo nella storia dell’alta Yernjak avrebbe avuto modo d’iniziare, dinnanzi allo sguardo impassibile della Storia.
Tamerlano, il cui nome significa in lingua mongola “Allodola” era nato nella città di Kesh attorno al 1336, nella parte meridionale di quello che costituisce l’odierno Uzbekistan. Convertitosi alla religione islamica in giovane età, egli non avrebbe tuttavia mai cessato di considerarsi l’ultimo depositario di una lunga stirpe, capace di far risalire la propria linea di sangue fino alla possente figura di Genghis Khan. Ben più che una semplice aspirazione teorica, visto il nome che iniziò a farsi successivamente all’inizio della propria carriera militare, come comandante di cavalleria per conto dell’emiro Khazgan, sovrano della Transoxiana. Alla morte del quale, contrariamente a quanto fatto da tutti gli altri nobili di etnia mongola, decise di restare diventando di fatto la massima autorità militare e politica locale per conto di un popolo che non aveva mai cessato di nutrire mire espansionistiche verso i territori d’Occidente. Così una volta stabilità la sua capitale presso la città di Samarcanda, avrebbe dato inizio alla lunga serie di campagne militari capaci di farne, dinnanzi agli occhi della storia, uno dei maggiori strateghi e uomini politici dell’epoca medievale. Famoso per la sua spietatezza, che gli avrebbe concesso molte conquiste in Iran e contro l’eterna nemesi dell’Orda d’Oro, da una cui costola sarebbe in seguito nato lo stato collaterale di Rus, egli avrebbe dopo la metà del secolo rivolto la sua attenzione verso occidente ed in modo particolare alla Corasmia ed all’attuale territorio dell’Azerbaigian. Dove non avrebbe potuto esserci alcun tipo di formale conquista, questo appariva chiaro, senza prima l’annientamento delle potenti forze militari asserragliate nella fortezza di Alinjagala.
Ciò che segue è una narrazione che si perde nella leggenda, sebbene gli effetti risultino pienamente apprezzabili nella significativa battuta d’arresto delle conquiste timuridi in questa particolare zona del Caucaso, capace effettivamente di estendersi per molti anni trascorsi a razziare i territori in pianura senza mai davvero consolidarne il controllo. Considerata la necessità di mantenere una parte significativa dell’esercito a circondare, ostinatamente, le imprendibili mura sulla cima della montagna. Quali particolari tattiche o risorse precedentemente inimmaginabili possano aver utilizzato l’emiro Altun ed il suo successore Ahmed Ogulshay per contrastare l’assalto di uno degli uomini più determinati e temibili della storia non è del tutto chiaro, sebbene la validità strategica delle loro mura appaia ancora oggi estremamente significativa. Non soltanto per l’accurata disposizione dei punti di controllo e le strettoie frapposte dinnanzi agli assedianti, ma anche per la stessa collocazione remota della fortezza, verso cui nessuno avrebbe potuto effettivamente avanzare senza prima aver completato una vera e propria scalata su irti sentieri, restando esposto per tutto il tempo al fuoco di sbarramento di un’alta quantità di arcieri. Lasciato il figlio Miranshah a supervisionare l’assedio mentre proseguiva la sua marcia verso la Georgia, Tamerlano dovette quindi rinunciare per lungo tempo alle sue mire nei confronti del territorio azero, almeno fino al 1403, quando una serie d’inevitabili errori accumulatosi nel corso degli oltre 14 anni di assedio avrebbero portato alla caduta della fortezza. I cui comandanti, senza ulteriori perdite di tempo, furono messi tutti a morte facendo passare le possenti mura sotto il controllo del timuride Melik Muhammad Obakha.
Attraverso il trascorrere del XV secolo la fortezza di Yernjak si sarebbe trovata al centro di un’ulteriore importante crisi quando il figlio del sovrano turcomanno Kara-Yusuf, di nome Iskender, dovette trovare rifugio tra queste mura con il sostegno degli emiri del Nakhchivan, che volevano eleggerlo a proprio comandante supremo. Se non che un difficile conflitto con Shahrukh, figlio di Tamerlano, l’avrebbe portato l’erede a ridurre il territorio sotto il proprio controllo alle sole mura della fortezza già a partire dal 1434, dove sarebbe stato ucciso dal suo stesso figlio Shah-Kubad, per una questione sentimentale legata all’amore di una delle concubine dell’harem paterno. All’epoca la fortezza, sostanzialmente una città stato indipendente, aveva una guarnigione permanente di 200 soldati e risultava ancora imprendibile, sebbene sostanzialmente priva della rilevanza politica che aveva avuto nei periodi antecedenti della sua storia.
Dotata di molte strutture idrauliche, architettoniche e capienti riserve per l’acqua piovana, la maggiore fortezza montana azera avrebbe avuto molti ruoli nei secoli a venire: luogo panoramico, carcere, monastero. Ciononostante a partire dal XVII secolo, complici le scorribande dell’impero Ottomano, avrebbe infine intrapreso la stessa strada irrecuperabile di tanti altri luoghi abbandonati, iniziando a risentire progressivamente dell’erosione dovuta agli agenti ambientali e la mancanza di manutenzione. “Riscoperta” così da una spedizione di accademici russi negli anni ’30 dello sorso secolo, essa avrebbe trovato modo di diventare nuovamente celebre grazie alla costituzione dell’interessante museo archeologico, capace ancora oggi di costituire assieme al sito stesso una delle più caratteristiche e notevoli attrazioni turistiche del Nakhchivan. Poiché soltanto la più significativa commistione tra vantaggio geografico, importanza politica e capacità dei comandanti all’interno, può permettere a un singolo castello di fermare l’onda inarrestabile degli eventi. Prima che la possente marea del destino, sorgendo sulle rive del mondo, divori inevitabilmente ogni cosa. E quale può essere, in tutto questo, il ruolo apprezzabile di una singola persona? L’alfa e l’omega… Il nulla ed il tutto al tempo stesso. Ovvero in altri termini, è possibile affermare che tutto dipenda dal periodo storico e le capacità personali dell’individuo. L’effettiva nota posizionata a margine, del grande testo imprevedibile della Storia.