Il sovrano ellenistico dei cieli sepolto nel cuore della montagna

Nel 1881 l’ingegnere infrastrutturale tedesco Karl Sester, con l’incarico di definire le strade per i trasporti dell’Impero Ottomano, si trovò a passare per una regione un tempo strategica dell’Anatolia, situata tra la Siria e gli antichi confini del regno d’Armenia. Perfetto punto di passaggio eppure lungamente abbandonato, per l’assenza di risorse idriche utili alla creazione di un insediamento dell’epoca moderna. Eppure come sappiamo le condizioni ambientali di questo pianeta possono variare anche nel giro di qualche secolo, ed ancor più al volgere dei ponderosi millenni, tanto che gli storici già collocavano qui dal tempo successivo alla morte di Alessandro Magno una piccola, ma influente nazione, nota alle cronache col nome ellenistico di Commagene. Fondato dal sovrano iraniano della dinastia Orontide noto come Mitridate I Callinico, che si era sposato con la principessa Laodice VII Thea dell’Impero Seleucide, allineata politicamente, ed imparentata, con il gruppo di generali che avevano ereditato i pezzi dismessi del grande impero, passati alla storia con il nome collettivo di Diadochi. Quello che Sester scorse, dalle profondità della valle in cui stava elaborando il suo piano di fattibilità ed in vetta al vicino colle di Nemrut, alto ben 2.134 metri, fu tuttavia l’opera imperitura del figlio di quei due grandi personaggi, l’altrettanto celebre ed invero ancor più influente Antioco I, detto Theos Dikaios, il giusto ed eminente dio. Una qualifica ampiamente esemplificata dalla massiccia presenza sopra l’arida pianura del suo hierothesion, o vasto monumento funebre simile a una sorta di rudimentale mausoleo. Che potremmo anche chiamare semplicemente un tumulo, sebbene uno dei più grandi mai costruiti, ed invero così avevamo fatto, finché l’accidentale ed incuriosito visitatore tedesco non scrisse un resoconto dei resti delle numerose statue crudelmente decapitate per ragioni non immediatamente chiare, divise in due gruppi sui terrazzamenti artificiali posti sui lati Ovest ed Est di una tale singolare caratteristica del paesaggio. La cui riscontrata esistenza, inoltrata in forma epistolare all’Istituto Archeologico Tedesco, indusse l’immediata visita dello studioso Otto Puchstein, il quale effettuò alcuni rivelamenti preliminari senza dare inizio agli scavi, per la mancanza di strumentazione e tecnologia adeguate. Fece seguito una spedizione Turca per la pubblicazione di un libro sull’argomento nel 1883, egualmente inconcludente nel giungere a conclusioni risolutive. Fu perciò soltanto mezzo secolo dopo, ad opera del più celebre archeologo Friedrich Karl Dörner che assieme ad un’altra importante figura legò il suo nome a questo sito, che le teste di pietra cominciarono ad emergere dalla polvere ed il pietrisco, permettendo d’iniziare a ricostruire la probabile identità delle loro effigi.
L’immagine che potete evocare per comprendere l’effetto che un simile luogo doveva avere all’epoca della sua costruzione, fatta risalire con assoluta certezza al primo secolo a.C. grazie alle numerose epigrafi, i frammenti di cronache e addirittura lo schema astronomico incluso in uno dei bassorilievi che si accompagnano al complesso monumentale principale, è quella di una coppia di schieramenti appartenenti ad una qualche vetusta versione del gioco degli scacchi, con la presenza riconoscibile di Zeus in persona facente funzione del Re, affiancato dai suoi figli e fedeli alleati Apollo, Ares e la Dea del vicino Oriente Commagene, poco nota fuori dai confini del regno che portava il suo nome. Ma soprattutto, ed è senz’altro questo l’aspetto cruciale dell’intera faccenda l’effige di Antioco I in persona, che proprio in tale guisa veniva fatto ascendere tra le schiere degli altissimi, ed in funzione di ciò acquisiva la propria immortalità imperitura per i molti secoli a venire. O almeno questa era l’idea di partenza, sebbene gli imprevedibili risvolti della Storia, e tutto ciò che questi comportano, avessero un piano differente per il suo lascito, affini a quelli esemplificati dal famoso componimento in versi di Percy Bysshe Shelley, in merito alla rovina ricaduta sulle grandi opere statuarie di Ozymandias, il nome letterario del faraone Ramsete II…

Oltre ai culti misterici ed allo Zoroastrismo, il sovrano più celebre di Commagene fece probabilmente riferimento per il suo progetto ai segreti dell’Ermetismo, nella maniera esemplificata dalle conoscenze astronomiche integrate nella configurazione e i bassorilievi del suo hierothesion.

Molto di quello che sappiamo oggi in merito alla colossale tomba del monte Nemrut deriva quindi dagli studi approfonditi di Dörner, ma anche l’importantissimo contributo di Theresa Goell, l’archeologa che seppe farsi un nome in un’epoca in cui la professione era dominata quasi esclusivamente dagli uomini, giungendo ad acquisire il meritato soprannome di “Regina della Montagna”. La quale dedicò essenzialmente la carriera, ed in verità la vita stessa, all’individuazione di quanto tutt’ora elude le ricerche dei suoi colleghi e successori, la leggendaria camera tombale dell’uomo che volle farsi Dio, ipotizzata essere da quasi un secolo uno dei sepolcri più ricchi che la storia abbia mai conosciuto. Così come confermato possibilmente, in epoca più recente, anche dai rilevamenti effettuati con radar ed altri strumenti, tali da collocare potenzialmente copiose quantità d’oro ed argento sotto il cappuccio impenetrabile della montagna. Costituito effettivamente, in una delle opere architettoniche più straordinarie della sua epoca, da una massa di pietrisco e sassi alta 49 metri, che andrebbe sostanzialmente rimossa in maniera pressoché totale prima ancora d’iniziare soltanto a scavare in profondità, un passaggio tutt’ora rimandato nella speranza che si giunga a disporre di un piano dall’impatto meno devastante per quella che potrebbe rivelarsi, d’altra parte, una teoria inesatta. Il che non sembrò fermare, a suo tempo, alcune iniziative dell’intraprendente Goell, che guidata da una serie di presagi e segni riportati nella sua appassionante autobiografia, non poté esimersi dal far saltare con la dinamite alcuni recessi dell’importante sito, senza tuttavia mai raggiungere il tesoro tanto agognato. Decisamente più utili, e tutt’ora occasionalmente citati, furono i suoi studi sul significato simbolico ed iconografico del complesso monumentale ed i molti aspetti illuminanti contenuti al suo interno. Dalla maniera in cui le statue delle figure divine combinavano alla qualifica greca, in realtà, l’abbigliamento e caratteristiche di personaggi orientali, come Mitra dei culti misterici, il protettore dei guerrieri Bahrām e niente meno che Orosmasdes-Ahura Mazda in persona, la somma mente creatrice venerata dalla religione dello Zoroastrismo, alle cui modalità e presupposti Antioco I si ispirò probabilmente per definire le modalità del culto che volle dedicato alla sua figura. Molto importante, nella definizione di un quadro generale, fu anche l’analisi del bassorilievo detto dell’Oroscopo del Leone, raffigurante l’imponente animale sotto una disposizione astrale dei pianeti Giove, Mercurio e Marte, corrispondente al giorno esatto del 7 luglio 62 a.C. Individuato da alcuni come possibile data per l’inizio della costruzione del tumulo, ma da Goell stessa in qualità di giorno in cui il Dio-Re nacque o accedette al trono, entrambe date che sappiamo essere state celebrate almeno per un certo periodo dai suoi contemporanei. Incluso il vero e proprio clero sacerdotale, da lui costituito al fine di preservare la tradizione futura della propria ascendenza sovrannaturale, e che avrebbe dovuto idealmente far osservare un periodo di pace e celebrazione in corrispondenza delle due ricorrenze sacre.
Pur avendo fatto aggiungere alla qualifica dinastica ereditaria anche i due titoli di Philhellen e Philorhomaios (Amico dei Greci e dei Romani) la realtà dei fatti avrebbe ben presto dimostrato ad Antioco come le avversità dell’esistenza potessero gettare nella polvere anche le migliori intenzioni di chi credeva nella pace tra i popoli accompagnata da un certo grado di megalomania, che non gli aveva tuttavia impedito di agire per quanto ne sappiamo nell’interesse delle sue genti. Fin quando nel 51 a.C, per alcuni gesti diplomatici eccessivamente allineati alla sfera politica del vicino impero iraniano dei Parti, poco dopo l’ascesa al potere della figura di Cesare Augusto quest’ultimo decise d’inviare a Commagene una spedizione punitiva guidata dal generale Publio Ventidio Basso, con il compito di trasformare il distante alleato in uno stato cliente dell’Impero Romano. Iniziativa cui fece seguito una serie di accese battaglie, con Antioco che fuggiva dalla capitale di Samosata, la quale accerchiata dalle armate romani non venne tuttavia mai conquistata con la forza delle armi, costringendo ad un lungo periodo di assedio. Del resto della vita dell’uomo che volle farsi Dio, ma dovette necessariamente un giorno arrendersi all’evidenza della sua mortalità, sappiamo ben poco. A parte quello che possiamo desumere dallo stato in cui ci è giunto il suo sacro sepolcro…

L’abbigliamento delle statue, replicate sui due terrazzamenti ed in variabile stato di conservazione, presenta un’aspetto spiccatamente mediorientale, sebbene i lineamenti siano raffigurati nello stile tipico dell’Antica Grecia. Un ulteriore esempio del sincretismo di quest’epoca, unica nel corso della storia umana.

È indubbio a tal proposito che più di due dozzine di statue acefale non siano certamente un caso, così come lo stato in cui si trovano i volti ed i loro corpi assisi in trono lascino immaginare un’intenzionale opera di dissacrazione e sfregio. Potenzialmente condotto dai Romani, sebbene altrettanto possibile appaia un’iniziativa condotta dagli stessi eredi del culto del sovrano-dio, che era scappato dal paese causando l’immediata resa di parte dell’esercito nel momento in cui vigeva la massima necessità della sua presenza. Con la significativa esclusione della Dea Commagene, risparmiata dalla rovina almeno fino agli anni ’60 dello scorso secolo, quando la Goell narra di averne trovato la testa in terra come le altre, poco dopo che un fulmine l’aveva colpita durante un temporale. Forse il più terribile, ed inimmaginabile dei presagi.
Così ancora oggi il sito del monte Nemrut, forse uno dei più antichi e significativi monumenti dell’intera nazione Turca, resta poco visitato dai turisti per via della sua collocazione remota, ed altrettanto trascurato dagli archeologi del corso principale. Non abbastanza esotico per gli orientalisti, non sufficientemente greco o romano per coloro che si appassionano a tali civiltà. E proprio per questo, più di molti altri esempi giunti apprezzabili fino alla nostra epoca, massimamente ellenistico, per concezione e finalità evidenti. Chi non vorrebbe, d’altra parte, provare un giorno a diventare un Dio? È probabilmente soltanto l’assenza di presupposti tangibili, che c’impedisce di farlo. E la pesantezza dei letterali macigni che dovremmo sollevare in mancanza di schiavi a nostra disposizione, per riuscire a spostare le ponderose ed inamovibili montagne.

L’aspetto possibile della tomba di Nemrut sotto la montagna di pietrisco. Che almeno ufficialmente, nessun uomo moderno ha mai visto coi propri occhi e probabilmente resterà chiusa nei secoli, o persino l’eternità a venire.

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