Il ponte naturale del castello sospeso in mezzo al canyon americano

La disponibilità di fonti d’acqua ha in tutto il mondo influenzato e caratterizzato la progettazione urbanistica delle antiche civiltà. Poiché non può sussistere un insediamento, dove la questione idrica resta irrisolta, rendendo l’acqua uno dei carburanti imprescindibili dell’aggregazione umana. Eppure paradossalmente furono proprio alcuni dei gruppi etnici confinati in territori particolarmente aridi, ad industriarsi per trovare fonti dove non pareva essercene alcuna, costruendo dighe, serbatoi di cattura della pioggia, deviando il corso di piccoli fiumi o torrenti. Gli Anasazi furono dei veri maestri in questo, edificando il proprio lascito immanente soprattutto nei secoli tra il decimo e il quattordicesimo d.C, nella regione progressivamente più inospitale dei Quattro Angoli, situata in corrispondenza dell’incontro tra gli stati rettangolari di Utah, Colorado, Arizona e Nuovo Messico. Eppure, persino tra l’ampio novero delle rovine delle loro costruzioni, spesso incorporate nei paesaggi rocciosi o sopra il ciglio dei burroni, riesce a distinguersi la possente cittadella di Road Canyon, nella regione archeologica di Cedar Mesa presso la contea di San Juan nello Utah. Per inaccessibilità ed potenza strategica, ma anche l’apparente surrealismo del suo contesto. Poiché come avrebbe mai potuto resistere a un assedio, un luogo tanto lontano da approvvigionamenti o spazi di stoccaggio idrico latente?
Rovina accertata come risalente al periodo tardo di queste genti, quando le poche comunità rimaste si combattevano in modo pressoché costante le risorse di cui disponevano giungendo spesso a praticare il cannibalismo, questo vero e proprio castello dei cieli avrebbe dunque potuto costituire essenzialmente una di due cose: un sito di stoccaggio per il cibo facilmente difendibile, la cui posizione non sarebbe stata facilmente individuata dall’esercito nemico. Oppure una fortezza temporanea dove ritirarsi per la propria ultima e più strenua resistenza, in maniera analoga a quanto teorizzato nella battaglia tolkeniana del Fosso di Helm. Il che non impedì d’altronde all’ignoto gruppo di Anasazi d’industriarsi a costruirvi un vero e proprio villaggio, incuneato come di consueto sotto il tetto sporgente di una grande pietra d’arenaria color ocra, mediante l’uso di mattoni di adobo per mura solide e durature. Ma accessibile soltanto mediante una struttura geologica tanto spettacolare quanto pratica nel suo contesto evidente; sostanzialmente una cengia o penisola verso il singolo pilastro centrale, posizionato al centro di uno strapiombo alto almeno una trentina di metri. Immaginate dunque di avanzare lungo quel tragitto in un malcapitato tentativo di conquista. Senza valide armature o scudi per proteggere i propri guerrieri, sotto il tiro continuo di frecce, lance ed altri appuntiti implementi, nel tentativo disperato di porre fine ad un conflitto ormai da tempo senza quartiere. Un luogo come questo avrebbe potuto costituire la condanna, in modo ragionevolmente equanime, sia degli aggressori che dei suoi stessi abitanti…

Piuttosto popolare tra gli escursionisti, nonostante non ne venga fatta menzione in alcuna guida turistica ufficiale o negli itinerari su Internet di Cedar Mesa, questo sito inconfondibile costituisce in tal modo uno dei luoghi fortificati maggiormente impressionanti dell’intero contesto pre-colombiano. Potendo beneficiare con massima efficacia delle caratteristiche uniche del paesaggio circostante, tanto da sembrare la precisa approssimazione di un recesso costruito dall’uomo stesso. Gli Anasazi, che una maggiore attenzione alla nomenclatura oggi preferirebbe veder chiamati Antenati del Pueblo visto il significato del termine (“Antichi Nemici” in lingua Navajo) per quanto è stato possibile determinare dai molti ritrovamenti effettuati a partire dall’insediamento dei coloni europei, sembravano del resto possedere un’affinità profonda con la natura e le sue forme, possibilmente grazie al sistema religioso Kachina, fatto di spiriti degli Antenati interconnessi a quelli della Terra ed il Creatore stesso, possibilmente proveniente dalle stelle verso cui tendevano ad allineare le proprie sapienti costruzioni. Essi non possedevano, d’altronde, alcuna forma di scrittura a noi nota, impedendoci di approfondirne in alcun modo la storia. Benché conosciamo il termine della loro Età dell’Oro, quando il repentino e significativo mutamento climatico subìto dall’area nordamericana meridionale attorno all’epoca del loro declino portò alla progressiva riduzione di quelle stesse fonti d’acqua, già pesantemente limitate, che ne costituivano il flusso di sostentamento primario. Portando infine all’abbandono pressoché improvviso, lungamente in grado di lasciare perplessi gli archeologi, di tutto ciò che avevano costruito. Tanto che abbiamo notizia della contingenza sorprendente vissuta dai cowboy stessi, trovatosi nelle regioni del Vecchio West direttamente a contatto con interi siti integri ed ancora dotati del loro comparto di suppellettili di ceramica, strumenti e attrezzatura risalente a quasi un millennio prima della loro epoca. Una questione da sempre problematica per tali preziose finestre verso il passato, destinate a ritrovarsi al centro di un tipo di turismo particolarmente distruttivo, nonché l’attenzione ancor più deleteria di archeologi autodidatti, interessati in larga parte al valore materiale di quei reperti. Ragione principale, quest’ultima, per la mancata segnalazione sulle mappe di un luogo eccezionale come la cittadella di Road Canyon oltre all’installazione di una certa quantità di avvisi e divieti attorno alle camere facilmente accessibili degli ancestrali appartamenti. Per una stringente normativa più facile da far rispettare di quanto si potrebbe immaginare per la collocazione remota di questo luogo, vista la facilità e assoluta immediatezza con cui documentazioni inappropriate tendono oggigiorno a comparire online, accompagnate dal nome e cognome dei loro abusivi autori. Una sorta di provvidenza a posteriori offerta dal bisogno di popolarità delle persone. Che tendono, spesse volte, a denunciarsi da sole.

Il che lascia nel contempo spazio ad ampie risorse d’approfondimento nozionistico e del tutto sostenibili reperibili sui molteplici canali YouTube di visitatori che si sono trovati, per una ragione e per l’altra, a sperimentare in prima persona le notevoli prove residue di coloro che vennero prima. Di noi, dei loro discendenti e soprattutto del bisogno di apparire in alcun modo particolare; fatta eccezione che forti, imbattibili, chiusi all’assalto di coloro che avrebbero potuto togliergli il necessario spazio vitale. Su chi, o cosa combattessero essenzialmente gli Anasazi molte sono state le speculazioni costruite nel corso degli anni. A partire da genti di matrice linguistica uto-azteca, esse stesse costrette a migrazioni verso settentrione dall’impatto del mutamento climatico. Oppure membri di popoli parlanti l’idioma athabasca come i Diné di passaggio dalla parte sud della California, destinati un giorno a suddividersi nelle tribù dei Navajo e degli Apache. La cui ostilità nei confronti degli antenati del Pueblo appare iscritta nella stessa nomenclatura idiomatica assegnata a tali formidabili avversari nel controllo e l’adattamento del territorio. Questo senza menzionare, se non come considerazione ironica, la possibilità sempre discussa degli antichi alieni. Che d’altronde si sarebbero trovati egualmente in difficoltà di fronte a una fortezza come quella di Cedar Mesa. Nessuna piattaforma d’atterraggio era prevista, per eventuali dischi volanti, tra la pietra e il grande baratro verso il fondo del canyon!

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