L’improbabile realtà di un vetro radioattivo

Nella sua forma basilare il vetro, materiale solido che tuttavia presenta le caratteristiche di un liquido, è il prodotto della fusione e successiva cristallizzazione di sabbia, silicio o altri silicati, occasionalmente fatti galleggiare sopra un letto di stagno per garantirne la levigatezza opportuna. Ciò consente di disporre, nella maggior parte delle situazioni, di un qualcosa che risulti essere del tutto trasparente, soluzione idonea per finestre, specchi o altri simili implementi. Ma che dire di chi cerchi, nelle proprie circostanze operative, un oggetto finale che risulti essere dotato di un colore? Suppellettile o perfetto soprammobile, differenziato dai prodotti circostanti per la sua capacità di assorbire, almeno in parte, la luce… Un risultato che può essere raggiunto in un singolo modo: l’uso pratico, ed attentamente calibrato, di una certa quantità di metallo. Polvere alla polvere, di borosilicati, ed ossido potente da inserire nella mescola della giornata; tutto questo in base a una ricetta che deriva dai recessi del Mondo Antico. E in effetti tra i ritrovamenti archeologici effettuati a Posillipo, coerenti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C, sono stati ritrovati dei mosaici composti parzialmente in vetro, la cui colorazione risultava essere di un pallido verde oliva. La cui analisi più approfondita avrebbe dato un valido riscontro, di quanto mai, nessuno, avrebbe teso a sospettare: il contenuto, lieve ma presente, di una polvere d’uranio. Materiale radioattivo per eccellenza!
Di sicuro non il più pericoloso. E del resto fino alla sua attivazione, durante i processi che condussero alla produzione moderna dell’energia nucleare, sufficientemente inerte da essere maneggiato senza eccessivi rischi per la salute. Come sarebbe ritornato in voga d’altra parte quasi due millenni dopo, con la produzione americana di quello che sarebbe stato chiamato coerentemente jadeite glass o “vetro di vaselina”, dall’appellativo commerciale di un petrolato venduto al tempo dalla stessa tonalità cromatica, o con senno di poi storiografico direttamente vetro [dell’epoca] della grande depressione. Caratterizzato da una proprietà piuttosto interessante: la propensione ad accendersi di luce riflessa e brillare pressoché istantaneamente, con una fosforescenza naturale particolarmente sensibile alla luce ultravioletta. Vasi, candelabri, lampadari… Ma anche piatti e bicchieri, dimostrando la pressoché totale indifferenza al potenziale insalubre di quanto, dopo tutto, veniva ancora considerato un materiale come tanti altri. Successivamente alla seconda guerra mondiale ed in particolare a seguito del progetto Manhattan per la creazione della prima bomba atomica, dunque, la situazione sarebbe radicalmente cambiata, cambiando dapprima la disponibilità e quindi la concezione collettiva di tale materiale, causando l’istantanea e totale sparizione di simili oggetti dal mercato della produzione corrente. Ragion per cui, sebbene dotati di un pregio di lavorazione trascurabile, tali testimonianze di uno strano passato vengono oggi mantenute in elevata considerazione dai collezionisti, disposti a pagare una ragionevole quantità di dollari per aggiungere un altro pezzo di simil-criptonite alla loro collezione di bric-à-brac.
Il tipico prodotto di vetro all’uranio, del resto, ne contiene una quantità non superiore al 10-15%, generalmente incapace di emettere radiazioni superiori a quelle già contenute dal corpo umano. Sebbene esistano delle eccezioni e ad ogni modo, lo stesso metodo impiegato per dare forma ad uno di questi oggetti risulti essere piuttosto impressionante e per quanto ci è dato di comprendere, potenzialmente pericoloso…

Possibile che per immaginare le caratteristiche dell’unico materiale in grado di danneggiare Superman, personaggio creato proprio negli anni ’30 da Jerry Siegel e Joe Shuste, l’ispirazione fosse stata tratta proprio dalla colorazione industriale del materiale radioattivo più conosciuto a quei tempi? Le tempistiche, del resto, sono interessanti…

Tra le più recenti e interessanti documentazioni online dell’argomento va senz’altro annoverata, ad oggi, l’opera del chimico sperimentale di YouTube NileRed, che lo scorso febbraio si è procurato i materiali necessari, e ha messo in campo le conoscenze pregresse, per controbilanciare il fatto che, parole sue: “Il vetro all’uranio è diventato sfortunatamente difficile da trovare.” Partendo dai principi generativi di una certa quantità di nitrato (NO3) di uranile, prodotto collaterale e inerte dei processi connessi al combustibile nucleare, di per se molto poco radioattivo e un tempo utilizzato anche nello sviluppo fotografico (sebbene si consigli, non di meno, di maneggiarlo con considerevole attenzione). Sale disciolto il quale, all’interno di una certa quantità di semplice acqua, ha quindi filtrato più e più volte fino all’ottenimento di un fluido perfettamente trasparente, cui si preoccupato quindi di aggiungere come materia prima il carbonato di sodio, coadiuvato da diverse tipologie di additivi chimici, tra cui l’acido borico puro al 99%. Il cocktail creato in questo modo, più volte sottoposto ad analisi preventiva mediante l’impiego di un contatore geiger acquistato su Amazon, è stato quindi cotto all’interno di una piccola fornace casalinga, nella certezza di riuscire a creare, in questo modo, una ragionevole analogia degli strani oggetti splendenti custoditi con cura nella credenza più sicura della nonna. Dopo una prima delusione dovuta alla mancanza di fosforescenza dei due oggetti a forma di lente creati al termine del suo complicato tentativo, quindi, il produttore del video ha notato un aumento dell’effetto finale con il procedere del periodo di raffreddamento, sebbene tutti e due gli oggetti fossero destinati, di lì a poco, a finire per frantumarsi spontaneamente in una moltitudine di frammenti. Ciò molto probabilmente e come ammesso dallo stesso NileRed, causa la sua inesperienza di vetraio, che gli ha purtroppo impedito di disporre un ritorno alla temperatura ambiente sufficientemente lento da garantire l’integrità finale dei pezzi. Il che, del resto, non priva di rilevanza e validità quanto da lui dimostrato, sopratutto quando si considera come la maggior parte delle trattazioni sull’argomento risultino essere per lo più teoriche o relative all’aspetto del collezionismo e modernariato di questi strani oggetti.
Tralasciando alcuni esperimenti compiuti attraverso i secoli, per definire ulteriormente il quadro storico della faccenda, il 99% del vetro colorato mediante quantità variabile di uranio è databile del resto a partire dalla metà del XIX secolo, quando l’austriaco Franz Xaver Riedel iniziò a immettere sul mercato dei pezzi creati con quello che lui definiva annagelb (giallo) e annagrün, dal nome di sua figlia Anna Maria. Un altro esempio in grado di precorrere i tempi è rintracciabile nel cosiddetto vetro di Burma risalente agli anni successivi al 1985, grazie all’opera della compagnia di vetrai di Mount Washington di New Bedford, Massachusetts, che inseriva nel suo amalgama di partenza anche una piccola quantità d’oro, per il raggiungimento di una colorazione giallo pallido altamente distintiva. Dopo il picco raggiunto attorno al 1920 anche grazie al successo di linee come quella della Quaker Oats Company, famosa produttrice tra le altre cose di orzo e cereali, il vetro all’uranio diventò quindi la rarità che in buona sostanza, resta tutt’ora, sopratutto date le nuove cognizioni acquisite in materia del pericolo costituito dai materiali radioattivi. Dopo tutto, è bello poter bere in un bicchiere di colore verde. Ma esistono altri modi, meno pericolosi, per raggiungere lo stesso risultato!

Ancora facile da ritrovare nella maggior parte dei mercatini di antiquariato, causa la grande quantità di oggetti prodotti mediante questa procedura, il vetro all’uranio viene venduto a prezzi ragionevoli, sebbene risultino essere in costante aumento. La maggior parte degli acquirenti, quindi, ne acquistano esempi nella speranza di aver fatto un investimento futuro.

Non tutto il vetro all’uranio d’epoca, del resto, è totalmente sicuro da usare oggi ed esistono esempi di piatti o vassoi creati con percentuale di fino al 25% del luminoso metallo, abbastanza da sconsigliarne ad esempio la lavorazione o incisione a posteriori come parte di opere d’arte contemporanee (per non dire rottura accidentale) pena il rischio di liberare particelle potenzialmente pericolose e tutt’altro che consigliabili da inalare per sbaglio.
Resta certamente nota, del resto, la leggerezza con cui i coévi dei nostri nonni erano soliti maneggiare materiali dotati di una pericolosità inerente, come esemplificato dalla triste vicenda delle Radium Girls, gruppo di ragazze colpite negli anni ’20 dai sintomi dell’avvelenamento da radiazioni e successivamente morte in età prematura, unica causa l’aver lavorato all’interno degli stabilimenti in cui si producevano orologi dotati di lancette fosforescenti secondo una prassi, per nostra fortuna, abbandonata di lì a poco. Ma ogni pregresso errore commesso all’interno di una civiltà industriale, in un modo o nell’altro, finisce per contribuire al miglioramento progressivo dei risultati raggiungibili sul sentiero del progresso. Ragion per cui simili sacrifici, mai giustificabili, servirono almeno a evidenziare il pericolo di determinate reazioni chimiche, mai realmente controllabili dall’uomo. E che pessima idea, da quel fatidico giorno, sarebbe stato il gesto di toccare senza protezioni adeguate ogni possibile materia prima, posata per sbaglio sul nastro trasportatore della catena di montaggio…

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