Cervello universale computerizzato, qual è il sapore di un halibut dorato?

Dal punto di vista filosofico e oggettivo, se consideriamo la faccenda da ogni possibile angolazione di approfondimento, ciò che la parola “oro” rappresenta è un semplice colore. Solo quello. Come il giallo a cui assomiglia, ma metallizzato e quindi scintillante, lucido, attraente. Ma se analizziamo l’antefatto storico dell’attuale condizione umana, i nostri aneliti, il comportamento pratico delle persone, è per quel particolare punto dello spettro luminoso che rimbalza contro la materia, che intere civilizzazioni sono sorte dalla polvere ed in essa hanno fatto ritorno, mentre uomini più furbi si arricchivano a discapito di chi aveva avuto la (relativa) fortuna di esser nato e cresciuto sopra giacimenti di siffatta natura. Fino al punto di aver trasformato l’espressione in un purissimo concetto, applicabile a contesti di varia natura. Vedi: l’oro nero, l’oro bianco, l’oro liquido e semi-solido. L’oro imbottigliato. L’oro… Da mangiare. Che è talvolta, l’effettivo metallo reso piatto e consumato per l’ora di cena, all’interno di piatti e pietanze che sovrastano l’epitome della decadenza. E certe altre derivante grazie al “naturale” colore della pietanza. Se così possiamo definire, il frutto di anni di lavoro e attenta selezione artificiale, coadiuvata dal più avanzato bagaglio tecnologico che si accompagna alla millenaria pratica della piscicoltura. Vedi l’intrigante e qui presente video, pubblicato il mese scorso su un canale di gastronomia coreano, in cui si osservano i processi aziendali di quella che dovrebbe (o in ogni caso, potrebbe) essere la Haeyeon Fish Farm sulle coste dell’isola meridionale di Jeju, rinomata destinazione turistica dal mare accogliente ed il paesaggio degno di riempire un migliaio di cartoline. Nonché il principale sito di provenienza, da ormai almeno mezza decade, di un prodotto ittico particolarmente amato in patria e che sta iniziando a farsi conoscere sui mercati internazionali: l’aurifero halibut, o sogliola dall’aspetto di un aquilone riflettente acquistato per il capodanno cinese. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di quel tipo di pesce asimmetrico e piatto, appartenente all’ordine dei Pleuronectiformes che nei mari d’Occidente si presenta con livrea per lo più mimetica, di un timido color chiazzato tendente al marrone. Magnifico, nel suo sapore lieve e delicato, inconfondibile tra le tipologie di pesce che si mangiano nei ristoranti specializzati. Un po’ meno per l’aspetto, se vogliamo. Ed è proprio perché l’occhio vuole la sua parte, che in Estremo Oriente la varietà più amata viene per lo più pescata localmente, nella fattispecie del Paralichthys olivaceus o “passera olivina”, un pesce che in natura si presenta ornato da una forma meno triangolare, più graziosa e affusolata, ma soprattutto rivestito di un manto verde oliva punteggiato da migliaia di aggraziati puntini bianchi. Abbastanza, ma non abbastanza a quanto pare, se si osserva nella qui presente versione ULTERIORMENTE perfezionata: di un giallo canarino molto intenso, che una volta estratto fuori dall’acqua continua a rifulgere dinnanzi alle pupille e il desiderio di chi sogna di mangiarlo. Con gran soddisfazione dell’allevatore, che con impegno e dedizione quotidiani l’ha selezionato progressivamente, raggiungendo l’apice del risultato più desiderabile. Migliorando largamente il risultato finale…

La processazione culinaria di un pesce tanto affascinante può sembrare crudele. D’altra parte sarebbe opportuno ricordare come il suo sacrificio, di una specie assai prolifica e perfezionata proprio a tal fine, favorisca la sopravvivenza di moltissime altre specie realmente rare.

Ora è importante applicare l’effettiva distinzione tra il tipo di halibut o passera (fam. Pleuronectidae) che possiamo acquistare dalle nostre parti e questa versione originaria dei mari giapponesi e coreani (fam. Paralichthyidae) che vede il primo nella propria asimmetria vantare entrambi gli occhi sul lato destro del corpo, mentre nel secondo si trovano comunemente su quello opposto. Una distinzione meno rigida ed imprescindibile in entrambe le famiglie, quando si considera come alla nascita e fino alla fine del periodo larvale, entrambe queste varietà di pesci presentino in effetti un’oculata distribuzione dei propri organi di percezione visuale, col rispetto del piano evidente perpetrato ad ogni altra varietà di pesce presente su questa Terra. Sebbene sia perfettamente logico, a pensarci, che una creatura dalla forma stretta ed alta, che occupa le parti basse dell’ideale colonna oceanica, si adatti gradualmente a vivere a ridosso del fondale, per mimetizzarsi e scomparire dallo sguardo fin troppo attento dei suoi predatori. Se non che appiattendosi in siffatta maniera, attraverso le trascorse generazioni, avrebbe risentito del fondamentale e insuperabile problema di poter scrutare il mondo con un solo occhio alla volta. “Perché non spostarli, allora…” Avrebbe metaforicamente detto il prevedibile Demiurgo dell’evoluzione: “Entrambi dalla stessa parte?” Dal che la sogliola e tutto quello che ne deriva, inclusa la notevole varietà di questo particolare ambito tassonomico, con specie di ogni tipo provenienti dai più diversi mari del pianeta, talvolta aposematiche e velenose, altre criptiche, tranquille e facili da far nascere in cattività. Da cui l’importante collocazione nello schema generale dell’industria dell’allevamento ittico, con conseguente riduzione dei costi e aumento della sostenibilità a lungo termine come pietanza ad ampia distribuzione nei principali paesi d’Asia. Se osserviamo tuttavia lo storico pregresso del settore, sarà possibile notare un progressivo spostamento di epicentro per tale mercato nel contesto dei paesi del Sud Est asiatico, dove i costi operativi sono assai minori soprattutto per quanto riguarda l’imprescindibile manodopera umana. Il che ci riporta al caso della Haeyeon Fish Farm, la Pungeo Corporation ed altre istituzioni simili in territorio coreano, tra i principali beneficiari privati del progetto governativo dedicato all’integrazione di vari approcci informatizzati, inclusa l’intelligenza artificiale, all’efficientamento delle proprie modalità operative. Descritte in termini generici in un comunicato stampa del 2018 con l’acronimo di “ICT” (Information & Communication Technologies) sebbene sia perfettamente possibile immaginare la tipologia d’interventi sulla base di approcci simili implementati nell’ambiente ittico di altri paesi. Un allevamento realmente connesso e smart trae subito infatti alcuni immediati vantaggi, che derivano dalla possibilità di monitorare le condizioni dell’acqua e rilasciare anche a distanza le contromisure adeguate, mediante l’utilizzo di un semplice smartphone. Aprendo di concerto il panorama all’applicazione di algoritmi autonomi di valutazione a diversi valori di riferimento, affinché tali interventi possano essere almeno parzialmente automatizzati. I nuovi progressi raggiunti nel campo delle reti neurali, da cui deriva una capacità dei suddetti sistemi di arrivare ad analizzare un immagine traendone opportune conclusioni, permette inoltre di applicare valutazioni statistiche pienamente oggettive a difformità come la presenza di macchie o imperfezioni sui pesci, possibili segnali di condizioni di salute meno che ottimali. Velocizzando, e semplificando, l’applicazione delle contromisure adeguate.

In natura le passere di mare sono spazzini dei fondali che si nutrono di microrganismi, ma anche l’occasionale larva ittica, cobepodi e piccoli crostacei. In cattività, si adottano facilmente ad un’ampia varietà di mangimi.

Quanto simili approcci possano aver contribuito al miglioramento cromatico del cosiddetto halibut dorato non è realmente facile da capire. Sebbene sia apprezzabile più volte all’interno delle descrizioni e dei commenti a video come quello della Haeyeon la ricorrente stima di circa “40.000 pesci prodotti ogni giorno” da ciascuna installazione basata sugli stessi presupposti. Un dato pienamente sostenuto dall’analisi di mercato, che vedrebbe in base ai dati pubblicati dalla K-Fish Seafood, importante esportatore del prodotto, fino al 63% della produzione locale di halibut, ed il 96% di quello esportato, provenire esclusivamente dall’isola di Jeju coadiuvata dai nuovi approcci tecnologici all’aumento della produzione. Nonché, a quanto ci è possibile desumere, una quantità molto prossima al 100% dell’intero repertorio dorato.
Nell’attività del collezionismo di animali digitalizzati fantastici universalmente nota come Pokémon-mania, viene da sempre tenuta in considerazione particolarmente elevata l’occasionale cattura di esemplari dal colore insolito, convenzionalmente definiti con il termine di shiny o “splendenti”. Il che costituisce, molto chiaramente, una pura ed assoluta affettazione creativa. Quando l’esperienza e la storia c’insegnano la plasmabile natura delle cose viventi, che può essere guidata facilmente dalla mano dell’uomo fino al raggiungimento del risultato desiderabile nel giro di appena una manciata di generazioni. D’altra parte, chi può dire che il colore giallo intenso di Pikachu fosse del tutto naturale? Magari, in natura, la sua specie si presenta come un topolino grigio del tutto affine a quelli delle nostre campagne visitabili in prima persona. La rarità è un concetto variabile, ma soprattutto una questione di punti di vista.

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