Pallide dimore, ruvide scogliere: così vive l’affiatata isola di Åstol

Con parte del mondo soggetto al rischio costante di sollevamento delle acque, causa l’impellente scioglimento della calotta artica, può sembrare strano che possano esistere luoghi ove in tempi relativamente recenti si è verificato l’esatto contrario. Eppure basta un rapido sguardo alla mappa geografica della costa meridionale svedese, con particolare attenzione alla provincia sull’Atlantico di Bohuslän, per scorgere cosa possa causare localmente la liquefazione e conseguente ridistribuzione delle acque: 200.000 isole, centinaio più, centinaio meno, che sorgono tra le onde, alcune grandi, altre enormi, certe piccolissime o frequentemente disabitate. Tanto che un tour esplorativo, con base operativa dalla città non lontanissima di Goteborg, è considerato una tappa irrinunciabile di ogni moderno esploratore o aspirante marinaio dei nostri giorni, che voglia individuare nel sangue vichingo almeno una piccola parte dei propri antenati pregressi. Ed una delle destinazioni maggiormente memorabili, nel dipanarsi di un simile scenario, è senz’altro l’ex-isola di pescatori ed oggi quasi-resort turistico di Åstol, un affollatissimo zoccolo solido di pietra metamorfica d’anfibolite, ricoperta in parte di sparuta vegetazione erbosa. E per la rimanente percentuale, le mura erette e legnose di un villaggio che parrebbe riconoscere soltanto un tipo di confine, il mare stesso. Così sottilmente bucolica nel proprio scenario d’appartenenza, eppur soggetta ad evidente sovrappopolazione, la terra emersa non più vasta di 13 ettari (130.000 mq) appare come un solido punto d’approdo, con la propria insenatura nella parte di nord-est a forma di V, dove ogni forma di nave o peschereccio poteva essere efficientemente riparato dagli elementi. Probabilmente un fattore di primaria importanza nell’affermarsi, con un culmine situato a circa mezzo secolo dai giorni nostri, dell’industria delle aringhe locali, in questi luoghi catturate, processate e successivamente messe in vendita presso il circuito dei mercati nazionali situati sulla vicina terra ferma. Non che tale prerogativa prettamente utilitaristica traspaia in modo preponderante nell’aspetto attuale del villaggio, oggi abitato da “sole” 200 persone contro le 600 di quegli anni d’oro, in buona parte interessate ad acquistare le distintive dimore come perfette case per le proprie vacanze, benché confinanti l’una all’altra alla maniera tipicamente associata ai tipici sobborghi della periferia statunitense. Quale miglior luogo è possibile immaginare, d’altronde per fuggire dalle proprie preoccupazioni e il ritmo frenetico della vita moderna, che frapporre un invalicabile braccio di mare, anche soltanto temporaneamente, tra se stessi e gli agguerriti nemici della propria stabilità mentale. Magari dotandosi di un piccolo battello personale, simile a un motoscafo o piccola barca da pesca, sempre capace di tornare alla civiltà sulla terraferma nel giro di appena una ventina di minuti qualora se ne presentasse la necessità. Ma chi, davvero, può desiderare di porre fine anticipatamente ad una simile esperienza rasserenante…

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Il battito cardiaco della cipolla che trasforma le onde in energia di mare

C’è un solo modo per risolvere i problemi della Terra ed è l’avanzamento tecnologico: creare, migliorare, inventare cose in grado di aumentare l’efficienza dei processi. O eliminare un certo tipo di paradigma, come quello che comporta l’estrazione e conseguente combustione intenzionale di enormi quantità di carburante fossile. Che oltre a generare indesiderabile anidride carbonica, presenta la questione niente affatto trascurabile di essere una risorsa in quantità finita. Ovvero prossima all’esaurimento, se prendiamo in considerazione soltanto quei giacimenti già largamente noti e commercialmente utilizzabili con profitto; aspetto, quest’ultimo, niente meno che indispensabile all’interno di una società capitalista e basata sui crismi del mercato globale. Ma il mondo di per se non ragiona né funziona in tale modo, anche ammettendo che una mente immutabile governi processi come il flusso dei venti, la danza dei corpi cosmici ed il ritorno delle maree. Tutti processi, nella fattispecie, utilizzabili come fonti d’energia sostitutiva, a patto di trovare un modo che possa definirsi, a pieno titolo, perfettamente realizzato. E nel suo specifico contesto d’utilizzo, ben pochi potrebbero negare che il CorPower C4, primo esemplare di livello commerciale del generatore prodotto dall’omonima compagnia svedese, abbia messo le proprie aspirazioni in un contesto produttivo. Quello immaginato per la prima volta, in modo per lo più collaterale nel 2011 dal cardiologo Stig Lundbäck, già autore nel 1986 di uno studio scientifico mirato a definire il cuore umano come una pompa dinamica adattiva (DAPP). Dal che, l’idea: se le linee di approvvigionamento elettrico di un moderno centro urbano corrispondono al suo sistema di vene ad arterie, perché non immaginare per agevolarne il funzionamento una forma di approvvigionamento elettrico simile al muscolo più importante situato all’interno del torace umano? Un organo situato, con la consueta decentralizzazione dei moderni processi ingegneristici, non all’interno del corpo in questione bensì oltre il bordo della costa, là dove l’impeto selvaggio del pianeta è solito creare un ciclo ininterrotto di spostamenti. La massa ricorsiva del moto ondoso, che impatta ad ogni singolo minuto contro le sabbiose sponde. Ivi piazzare idealmente un qualche tipo di trasformatore, incaricato di ricevere ed incanalare il potenziale frutto di un potente movimento, sopra e sotto, sopra e sotto all’infinito. Di quel bulbo quasi vegetale, vagamente paraboloide, concepito per massimizzarne l’implacabile compimento di quel solerte gesto…

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Dalla Svezia un’efficace alternativa ai sacchetti sabbia per le alluvioni

Rosso, solido, di plastica, con una riconoscibile struttura angolare. Dotato dell’aspetto pratico di uno strumento conveniente nel quotidiano, come una graffetta, una puntina, una vite per l’intonaco dei muri. Che un individuo in tuta da lavoro pone sul sentiero dell’incombente, imprescindibile devastazione. Andando incontro ad un palese margine di miglioramento.
“L’acqua non può essere fermata” L’avevate mai sentito dire? È uno degli assiomi più frequentemente ripetuti negli ambienti della protezione civile, come presa di coscienza di una delle caratteristiche basilari del secondo elemento più abbondante del pianeta Terra, sempre e in ogni circostanza incline ad essere animato dal potente desiderio di procedere verso il basso. Per cui la sua unica sconfitta a lungo termine può essere individuata nel processo naturale di evaporazione, che richiede spazi idonei per l’accumulo, ed un tempo abbastanza lungo perché il l’astro diurno compia il suo miracolo quotidiano. Ma che dire in tutte quelle situazioni d’incombente disordine o naufragio metaforico, dovute all’occorrenza di una pioggia significativa, possibilmente accompagnata dalla tracimazione dei corsi o bacini idrici pre-esistenti? Quando la propagazione dei torrenti si trasforma, in un risvolto totalmente prevedibile ma non meno tragico per questo, nell’azione invadente degli spazi normalmente occupati dall’uomo e i suoi tesori, i suoi santuari, le sue abitazioni di pregio… Con l’unica possibilità rimasta di “sviare” il grande impulso verso luoghi alternativi, ovvero mettere al servizio collettivo l’essenziale assenza di un intento nel verificarsi dei disastri. Offrendo, per quanto possibile, un sentiero di minore resistenza attraverso la collocazione di barriere temporanee d’incanalamento. Granuli all’interno di contenitori globulari, normalmente, ovvero quegli ammassi di sabbia e stoffa che un tempo erano associati alla necessità di arrestare l’energia cinetica dei proiettili sparati dallo schieramento nemico. Ma i sacchetti non sono leggeri, né maneggevoli, né semplici da stoccare o trasportare presso il luogo del bisogno. Ecco l’idea alla base del sistema Boxwall della NOAQ Flood Protection AB di Näsviken, con sede presso i laghi di Dellen a nord di Stoccolma. Una compagnia che ha fatto della plastica la propria arma, e dello stampaggio di angolari forme geometriche un percorso privilegiato verso la risoluzione di uno dei maggiori problemi dell’umanità in pianura…

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Benvenuti al tribunale con un condominio cubista nel suo cortile

Ecco il prototipo di un edificio controverso: nel 2016, interrogati su quali fossero le mura più antiestetiche della loro provincia, gli abitanti di Ångermanland stilarono una lista con al primo posto la colorata, bizzarra, distintiva opera del rinomato architetto Gert Wingårdh. Il mese successivo, su quella rivista, il Ting1 dal nome assonante avrebbe figurato invece come il secondo palazzo più amato di Örnsköldsvik. Facile comprenderne la ragione, giusto? Quanto spesso capita d’intravedere all’orizzonte la perfetta commistione di un pomeriggio trascorso a giocare con i lego, l’estetica della scuola Bauhaus mescolata con la Pop Art post-moderna, il tutto avvolto in un vago sentore di cubismo. Sia nel senso di Picasso che dei voxel digitalizzati del videogame Minecraft, una risposta basilare all’esigenza di dare una forma alle proprie idee. Ma non c’è davvero nulla di spontaneo, semplice, naïf nell’espressione qui presente dell’ingegno svedese, applicato alla necessità di dare forma ad uno spazio abitativo là dove non ti saresti mai aspettato, in condizioni normali, d’individuarne l’esempio. Almeno finché l’amministrazione cittadina, prendendo atto degli spazi poco utilizzati del suo vecchio tingshus il tribunale distrettuale distaccato dal municipio, non pensò nel 2010 di cedere alla proposta dietro lauto compenso dell’imprenditore edile Nicklas Nyberg, che oltre ad essere un visionario può essere anche messo tra i maggiori appassionati nonché collezionisti di un prezioso autore della storia dell’arte. Probabilmente conoscerete l’autore Bengt Lindström, di numerose sculture, quadri monumentali ed altre creazioni dedicate alla sua particolare interpretazione dell’arte astratta, tanto variopinta quanto imprevedibile e non sempre facile da decifrare.
Magari riuscirete addirittura a scorgerne l’influenza, nell’aspetto straordinariamente distintivo di questo notevole Ting1. Ovvero “la Cosa” ma anche un gioco di parole che può essere tradotto come “Trib-1-ale” con riferimento alle precise mura brutaliste che parrebbero costituire a tutti gli effetto il suo straniante basamento, fino al terzo dei 13 piani dell’edificio. Un’illusione del tutto fittizia nella realtà dei fatti, quando si apprende l’effettiva collocazione del suo variopinto cappello: una struttura a sbalzo che sporge da un pilastro centrale, incastrato direttamente nella dura roccia situata nel cortile interno del tribunale, con ingresso separato e nessun tipo di collegamento tra le due strutture. Su richiesta specifica del governo, ancora interessato a utilizzare la tingshus come archivio. Ma è proprio questo uno degli aspetti di maggiore interesse, alla fine…

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