Lungamente nota è la presunta associazione tra il colore candido e l’eccezionale grandezza di un animale: balene, equini leggendari con il corno e/o le ali, cani tricefali di razza pittie, rottie, dobbie o altro piacevole eufemismo per razze notoriamente ben fornite di caratteristiche utili a manifestare il dissenso nei confronti di chi dovesse trovarsi ad invadere le loro sfere di tranquillità individuale. Forse per questo il popolo di Internet non ha tardato a interpretare un breve spezzone del qui presente video proveniente dalla Moldavia, con protagonista Andrey l’allevatore, come il più spettacolare esempio tangibile di un Ratto dalle Dimensioni Inusuali, direttamente uscito dalla foresta infestata del classico cinematografico La Storia Fantastica (The Princess Bride – 1987). Mentre altri in modo alquanto inesplicabile, preferivano associarlo al maestro Splinter delle Tartarughe Ninja, nonostante costui fosse caratterizzato da una colorazione decisamente più convenzionale. Per non parlare del modo in cui un’essere come questo, nella realtà dei fatti, non potrebbe mai riuscire a sopravvivere in ambienti fognari, per la ben nota cagionevolezza della sua salute, compensata almeno in parte dalla nota propensione a moltiplicarsi. Il che ha saputo fare, fin dall’inizio del secolo scorso, del mammifero di 4-9 Kg sudamericano noto un tempo come coypu un’importante fonte di guadagno per chi aveva tempo, spazio e abilità da dedicargli, grazie al pregevole valore della sua pelliccia e si, anche delle carni. Al punto che potreste, o per meglio dire dovreste anche voi conoscerlo, col nome comune internazionale di nutria. L’avevate riconosciuto? Scommetto di no. Questo perché il Myocastor coypus, nella tradizione dell’intero Est Europa, si è ormai da tempo trasformato in un comune animale da fattoria, come la gallina o la mucca, il che ha portato da tempo alla creazione di particolari varietà, frutto della selezione artificiale. Vedi la nutria classica arancione, quella dorata, color argento della Moravia, multicolore (bianca e marrone) della città di Přeštice e infine la nutria perlata che in casi estremi può essere definita bianca non albina, forse il non-plus ultra dell’intera selezione, per la difficoltà di ottenerla causa la diretta ereditarietà dei geni collegati alle tonalità scure. Ed è per questo un’evidente dimostrazione dell’abilità di Andrey, la quantità di questa particolare varietà che egli possiede, tra cui l’esemplare più imponente è certamente quello che offre allo sguardo indiscreto della telecamera, in questo video super-popolare in cui stava in realtà spiegando semplicemente come scoprire se una femmina è incinta, controllando i suoi capezzoli situati in modo inusuale all’altezza dei fianchi. Maneggiandola in una maniera piuttosto brusca che potrebbe anche dare fastidio (in genere è altamente sconsigliato sollevare qualsiasi creatura per la coda) ma d’altra parte non avendo mai fatto il suo mestiere, sarà davvero il caso di metterci a criticare? Chi è senza peccato…
pelo
La soffice avvenenza della più rara scimmia dalla coda prensile del continente sudamericano
Nel gigantesco archivio di circa 40.000 tra immagini e video costituito da Joel Sartore, fotografo che collabora da oltre 25 anni con la prestigiosa rivista del National Geographic, spiccano taluni ritratti monografici di animali a rischio d’estinzione, ripresi su fondo nero e illuminati ad arte per massimizzarne le notevoli caratteristiche estetiche inerenti. Un’insieme notevole all’interno del quale, tra tutti, può colpire l’immaginazione questo piccolo di un primate ricoperto da una folta pelliccia, che non sfigurerebbe su quadrupedi caprini o altri animali d’alta quota, nonostante il suo effettivo habitat di provenienza siano le foreste pluviali situate nelle pianure costiere del Perù. Dove trascorrerebbe idealmente le sue pacifiche giornate assieme alla madre e un gruppo di fino 25-30 esemplari allo stato brado, se non fosse per una popolazione complessiva ormai stimata attorno ai 1.000 individui, benché sia stata ancor più piccola negli anni antecedenti a un significativo sforzo internazionale di conservazione. Lagothrix flavicauda è il suo nome, benché sia molto più comune definirla scimmia lanosa o “lagotrice” dalla coda gialla, per distinguerla dal suo cugino molto più diffuso, la L. lagothricha o scimmia lanosa comune. A cui manca un aggettivo cromatico per l’ampia varietà di colori che può assumere il suo manto, nell’ampio areale di appartenenza capace di estendersi dalla Colombia all’Ecuador, la Bolivia, il Brasile ed il Venezuela. Nonostante la pressione sul suo habitat, l’abbondanza dei predatori e soprattutto una caccia ininterrotta praticata dalle numerose popolazioni indigene abbiano portato anch’essa ad uno stato di vulnerabilità biologica capace di minacciarne la discendenza. Il che costituisce da un certo punto di vista una significativa anomalia, quando si considera l’innato carisma e relativa oscurità di queste due specie, senz’altro tra le maggiormente carismatiche, nonché l’effettiva scimmia più imponente dell’intera zona neotropicale: fino a 50 cm di lunghezza, sia nelle femmine che nei maschi, sebbene i secondi risultino ancor più massicci con i loro 10 Kg massimi di peso (e una coppia di minacciosi canini utili all’autodifesa). Non che tale massa corporea comprometta in alcuna valida maniera l’innata agilità di queste rappresentanti a pieno titolo della famiglia degli Atelidi, condivisa con le aluatte e scimmie ragno che condividono il loro stesso bioma d’appartenenza, grazie alla notevole presenza ed abilità d’impiego del cosiddetto quinto arto, una massiccia e muscolosa coda prensile capace di esercitare facilmente la forza pari a quella di un pollice opponibile umano. E che ricoperta dallo stesso pelo caratteristico che ricopre ogni parte del corpo dell’animale, fatta eccezione per il muso e le mani, finisce per assomigliare alla tozza proboscide di un elefantino di peluche. Una di quelle metafore di cui difficilmente avremmo potuto verificare l’appropriatezza, senza l’eccezionale risoluzione delle moderne foto e videocamere digitali…
Il grande Re circumpolare dell’Artico, vestito del suo folto e orgoglioso mantello
Forse l’orso polare, candido e massiccio, predatore di terra più temibile di tutto il pianeta. O magari l’alce dalla sua svettante corona, le cui proporzioni quasi preistoriche trovano rivali solo tra i grandi mammiferi della savana africana. L’aquila, la terna o il gufo delle nevi? Che osservano dall’alto il dipanarsi degli eventi, potendo scegliere le proprie battaglie e dove procurarsi il necessario per estendere la propria sopravvivenza. Se non vogliamo, piuttosto, andare a rendere gli omaggi tra gli abissi dell’oceano, nella guisa di scaltra e vorace orca, oppure il narvalo con il suo dente simile a una spada, o ancora saggio ed amichevole beluga… Definire chi possegga il vero predominio del gruppo di terre che circondano la grande e sottile distesa di ghiaccio perenne che si trova nell’estremo settentrione, ben diversa dall’effettivo e impenetrabile continente del Polo Sud, non è più semplice che farlo fuori da una qualsivoglia narrazione fiabesca. Poiché intelligenza, forza, capacità di perseguire gli obiettivi e di proteggere i propri diretti sottoposti, sono tutte doti che appartengono, in misura differente, ad una vasta gamma di creature naturali. C’è tuttavia un imponente animale, erbivoro ma non per questo privo di difese, che più di ogni altro sembrerebbe costituire la perfetta convergenza di una simile pluralità di doti. Ed il suo nome, nella lingua indigena del Saskatchewan è mâthi-mostos, l’orribile bisonte. Mentre per gli Inuit del Canada Occidentale è umingmak, il barbuto. Ma voi potreste averlo conosciuto in precedenza, secondo lo schema molto meno metaforico del mondo contemporaneo, con il termine semplicemente descrittivo di bue muschiato. Ovibos moschatus è quella creatura che tranquillamente prospera, ed agevolmente riesce a riprodursi, là dove nessun altro tipo d’ungulato è solito riuscire a spingersi neppure temporaneamente, mancando degli eccezionali adattamenti evolutivi frutto di molti millenni d’evoluzione. A partire dall’epoca del tardo Pliocene (fino a 2,3 milioni di anni fa) quando gli antenati della sua famiglia dei bovidi iniziarono a migrare sempre più lontano verso le grandi distese disabitate, dove nessuno potesse minacciare l’incolumità dei propri nuovi nati. Con una capacità innata di trovare i punti in cui la neve sembra farsi più sottile, riuscendo a nutrirsi di sparuta erba, piante robuste come il salice artico, muschi, radici e licheni. E soprattutto fare affidamento sulla loro più notevole e distintiva caratteristica, il possesso di un folto strato di pelo superficiale, tanto lungo da raggiungere il terreno in determinati casi, isolando l’ungulato da qualsiasi condizionamento frutto di un clima estremamente poco accogliente. Importante aspetto nel definire tassonomicamente un simile gigante, capace di raggiungere i 400 Kg in natura e fino ai 600 in cattività, è la mancanza di un rapporto di parentela stretto con il bisonte delle grandi pianure americane, e quello ormai rarissimo del continente europeo, essendo tali esseri dei membri della sottofamiglia Bovidae, mentre il bue muschiato è soprendentemente un membro del gruppo contrapposto dei Caprinae. Risultando nei fatti più strettamente associato alle pecore e capre moderne, o per essere più specifici le goral (gen. Naemorhedus) o takin dell’Himalaya, con cui condivide anche le considerevoli dimensioni. Laddove in effetti il bisonte, bovino a tutti gli effetti dall’aspetto esteriormente simile, può tranquillamente avvicinarsi alla tonnellata di peso, superando agevolmente l’imponenza di questa già ingombrante presenza. Caratteristica in comune di entrambe queste linee di discendenza parrebbe essere d’altronde la testa considerevole, dotata di piccole corna rivolte verso l’alto e usata durante la stagione degli accoppiamenti per determinare chi sia l’esemplare più forte, tramite una serie di roboanti impatti frontali, fino all’inevitabile ritirata di coloro che perdono necessariamente di vista l’obiettivo di partenza: guadagnarsi l’attenzione di una o più femmine, al fine di riuscire a mettere su famiglia. L’interesse totalmente in comune a qualsivoglia abitante dei diversi habitat, data l’importanza in natura di riuscire a preservare l’unicità dei propri geni…
Questo gatto non è un lupo mannaro
Che cosa ha molto pelo alla nascita, poco pelo una volta raggiunta l’età adulta, e di nuovo un folto manto color roano per tutto il corso della propria vecchiaia? Orecchie morbide e flosce. Piedi lunghi e talvolta, palmati. Con un muso parzialmente glabro in grado d’incrementare, con la giusta luce, l’impressione della profondità. Di sicuro, non è uno Sphynx. Il nobile e famoso gatto anallergico, la cui caratteristica principale è la presenza di un gene che impedisce la keratinizzazione, prevenendo di fatto il funzionamento dei follicoli e producendo di fatto un animale del tutto glabro. E neanche un topo-lupo-gatto-creatura-misteriosa, come sembrano voler affermare innumerevoli testate di curiosità, articoli semi-seri o disquisizioni relativamente disinformate sui principali hub memetici del web. Bensì un gatto vero, celebre per la sua intelligenza e l’indole giocosa ma possessiva, stranamente simile a quella di molte tipologie di cani. E a partire dal maggio del 2017, una razza effettivamente riconosciuta dal TICA (l’Associazione Nazionale Felini) qualificata per questo a competere nei concorsi di fama internazionale, a patto di possedere l’appropriato pool di caratteristiche, conformi a quelle della stirpe originaria. Un importante punto di distinzione, quest’ultimo, poiché il termine identificativo Lykoi (parola greca per il termine “lupo”) sembra essere usato ad oggi dagli amanti dei gatti in due contesti simili ma diversi: uno è l’esemplare, di qualsiasi aspetto, forma o dimensione, caratterizzato dall’assenza topica di sottopelo e che piuttosto che seguire una muta stagionale, sembra perderlo e riguadagnarlo durante fasi diverse della propria esistenza. L’altro è la discendenza dell’incrocio creato a partire da due specifiche cucciolate di quelli che vengono convenzionalmente definiti Domestic Shorthair, ovvero gatti privi di pedigree, venute entrambe in possesso della coppia di allevatori Johnny e Brittney Gobble nello stato del Tennessee durante il mese di luglio dell’anno 2010, con la collaborazione di Patti Thomas. Che contribuì a trovare un nome per quella particolare collezione di geni che tutte le personalità citate, pressoché subito, ritennero meritasse di essere preservata.
Nonostante l’opinione del pubblico. Contro le aspettative del senso comune. Il problema affrontato spesso dagli allevatori è che essi vengono ritenuti, fin troppo spesso, completamente responsabili delle loro supposte “creazioni” come se essi, lavorando in una sorta di laboratorio del Dr. Frankenstein, s’industriassero per garantirsi i maggiori e più proficui presupposti di guadagno. Una concezione questa che sembra trovare la massima espressione nella corrente di pensiero, assai popolare al giorno d’oggi, secondo cui l’unico modo legittimo di procurarsi un animale domestico sia sceglierlo presso un canile, sulla base della propria preferenza estetica o senso d’altruismo innato. Il che in effetti, non può che generare alcuni significativi problemi: perché chi mai adotterebbe un gatto o una gatta che pur godendo di ottima salute, al primo, secondo e terzo sguardo sembrano effettivamente malati di rogna? Proprio questa potrebbe essere la domanda che si posero i Gobble all’epoca, o forse si trattò semplicemente dell’occhio esperto di due sinceri amanti degli animali, che seppero intravedere nei loro nuovi beniamini un diverso tipo di bellezza, del tipo che molti dei cosiddetti benpensanti sarebbero stati pronti a giudicare in tutt’altro modo. Di certo, i cinque capostipiti elencati sul sito ufficiale Silver Lining Wolfie, Ray of Hope, Hillbilly Moonshine, Eve Havah e Opossum Roadkill (mai nome fu maggiormente carico di sottintesi) non assomigliavano ad alcun altro gatto che fosse stato fotografato o mostrato con orgoglio prima di allora, risultando piuttosto conformi ad un certo tipo di stereotipo, che potremmo avvicinare, come vuole la convenzione, all’interpretazione cinematografica classica dell’uomo lupo.
Una creatura sovrannaturale e composita, imprevedibile, soggetta alla furia trasformativa, nonché sanguinaria, della luna piena. Lo sterminatore di cacciatori impreparati, indipendentemente dalla quantità di munizioni argentee che questi ultimi abbiano portato con se all’avventura. Non proprio il tipo di suggestioni considerate desiderabili in un gatto, se è vero che ancora esistono persone che cambiano strada, qualora un felino di colore nero dovesse azzardargli a transitargli davanti in senso perpendicolare alla marcia. Eppure non è forse vero che qualsiasi animale, indipendentemente dal suo aspetto o caratteristiche ereditarie, dovrebbe avere diritto a una seconda possibilità? E chi ha detto che il brutto anatroccolo debba necessariamente diventare un cigno, per assumere un ruolo di primo piano tra il consorzio più o meno pennuto del vasto stagno attraverso il procedere delle Ere…