La potenza di una portaerei da due milioni di tonnellate

È propedeutico all’analisi immaginarlo nel seguente modo, benché si tratti di un’associazione completamente inventata: mentre osserva da giovane, sul ponte del cacciatorpediniere MST Valhalla, l’andamento dell’ultimo episodio nella guerra che avrebbe posto fine a tutti i naufragi. Uno dei propositi più ambiziosi, e nel contempo inutili, mai intrapresi dai corpi militari: distruggere sistematicamente gli iceberg, come rappresaglia risolutiva per il naufragio del più famoso transatlantico di tutti i tempi, il tragico Titanic. Un’operazione effettivamente portata avanti da svariati paesi del mondo, per tutto il primo ventennio del XX secolo, tramite l’impiego di dinamite, colpi d’artiglieria, siluri, bombe aerotrasportate. Una missione utile a comprendere almeno un paio di cose; primo, che nelle calotte polari del pianeta Terra, per loro implicita prerogativa, si nascondevano fabbriche di montagne galleggianti in grado di continuare la loro opera ancora per per un po’; secondo, che la semplice acqua congelata, ovvero il nostro amico ghiaccio dei frigoriferi, non è poi così difficile da fare a pezzi, neppure utilizzando le più possenti armi a disposizione dell’uomo. E questo lui fu il primo a comprenderlo profondamente, al punto da farne il soggetto principale di uno dei progetti più importanti della sua vita. Lui, l’incredibile Geoffrey Pyke. Ebreo londinese, laureato in legge presso l’Università di Cambridge ma scienziato per professione e propensione personale, che sarebbe stato arrestato come spia in Germania durante la grande guerra salvandosi dalla fucilazione per il rotto della cuffia, che avrebbe costituito nella sua stessa casa a Cambridge, nel corso dei ruggenti anni ’20, l’istituzione scolastica della Malting House, una sorta di applicazione pratica del metodo Montessori, destinata al fallimento finanziario qualche anno dopo, con suo conseguente ricovero temporaneo presso un manicomio. Proprio così: stiamo parlando, essenzialmente, di un vero e proprio scienziato pazzo. Che dopo l’esperienza maturata durante la guerra civile spagnola (1936-39) all’interno del VIAS (Voluntary Industrial Aid for Spain) un’organizzazione di aiuto, produzione ed assistenza tecnica per i guerriglieri appoggiata dal Partito Comunista Inglese, sarebbe approdato come consulente scientifico dell’esercito di Sua Maestà, proponendo diverse applicazioni nuove di vecchi approcci tecnologici, per costruire improbabili veicoli, strane armi, strumenti di ascolto a distanza… Finché nel 1942, non ebbe l’idea più incredibile di tutta la sua vita. Costruire un’isola e mandarla in battaglia!
Non si trattava, questo è scontato, di un’idea venutagli completamente per caso. I capi di stato maggiore inglesi, assieme al resto della leadership e tutti coloro che lavorassero nel settore strategico, erano pienamente a conoscenza dei principali ostacoli che le armate si trovavano ad affrontare contro le forze disgiunte, ma egualmente terrificanti dell’Asse Berlino-Tokyo. Di come nell’Atlantico, gli U-Boat tedeschi imperversassero letteralmente indisturbati, sfuggendo facilmente ai pochi e brevi pattugliamenti effettuati da aeromobili la cui autonomia, purtroppo, non gli permetteva di allontanarsi granché dalle bianche scogliere di Dover. E del giustificato timore che avvolgeva il piano di Roosevelt, per raggiungere le coste nipponiche attraverso il Pacifico, superando il vortice di fiamme e la spropositata distruzione che potevano essere dispiegate dalle forze aeree e marittime di quel paese di samurai. Il problema fondamentale in effetti, per tutta la parte iniziale e mediana della seconda guerra mondiale, era che attaccare con il supporto dell’aviazione avrebbe necessariamente richiesto l’impiego di una o più portaerei, ma i velivoli decollati da quest’ultima classe di vascelli erano necessariamente meno potenti, manovrabili e veloci di quelli con base sulla solida terraferma. Inoltre, il progressivo ridursi delle risorse metalliche e minerarie a disposizione stava rendendo difficoltosa la produzione di nuove navi, ponendo un ulteriore ostacolo al prolungarsi fruttuoso della più terribile guerra della storia. Lo stimato, benché disallineato Pyke inviò quindi un suo progetto dagli Stati Uniti, tramite valigia diplomatica, presso il comando delle operazioni marittime inglesi (COHQ) dove era di stanza l’ammiraglio della flotta Lord Louis Mountbatten, un suo vecchio amico che lo considerava, a voler usare un eufemismo, un genio tra gli uomini di questo mondo. Il quale, una volta venuto a conoscenza del fatto che una portaerei gigantesca poteva essere costruita, almeno teoricamente, soltanto con il ghiaccio, restò talmente colpito da doverlo immediatamente portare all’attenzione di niente meno che Winston Churchill, nel quale trovò immediatamente una corrispondenza d’entusiasmo ed intenti. Habakkuk, o Abacuc per usare la pronuncia italiana, era il profeta della Bibbia e scrittore dell’omonimo libro, con riferimento al passaggio: “…E allora vedrete prodigi, in questo mondo, mai neppure immaginati prima d’ora, e quindi conoscerete la spropositata gloria di Dio.” Viste le premesse, è facile immaginare che il piano ricevette l’approvazione del governo, portando ad un suo sviluppo tramite un team di scienziati con più sedi operative, tra cui quella nascosta sotto il mercato della carne di Londra e condotta dal biologo molecolare Max Perutz, il cui lavoro con i materiali da costruzione, riprendendo gli studi una coppia di scienziati di Brooklyn, Herman Francis Mark e Hohenstein, si sarebbe dimostrato semplicemente fondamentale nello stabilire la fattibilità dell’intera questione.
Prima di descrivere, per filo e per segno, di cosa esattamente si trattasse, sarà meglio accennare al singolo aneddoto più divertente dell’intera vicenda, anch’esso probabilmente inventato, pur ricorrendo nelle cronache ufficiali ed almeno un paio di biografie. Si dice infatti che il conte di Mountbatten, ad un certo punto della fase di progettazione, avesse provato un’immediato bisogno di coinvolgere il suo capo di stato nel piano, talmente forte da raggiungerlo presso la sua residenza estiva di Chequers, ad Ellesborough. Trovandosi di fronte all’ostacolo imprevisto della domestica, che gli fece presente come il primo ministro fosse, in quel momento, immerso nella vasca da bagno. Ma egli non si fermò affatto, e raggiungendolo in tale privato momento, immerse un blocco di ghiaccio nell’acqua fumante usata dal grande capo. Per mostragli come, nonostante le aspettative, tale oggetto non si squagliava, non si squagliava per niente…

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La costruzione di un’elica da oltre 50 tonnellate

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Una scia lunga parecchi metri si estendeva ad inseguire la città. Sopra le onde dell’oceano, un mucchio di metallo pieno di petrolio, o carico di scatole, o pieno di persone in abito da sera. Questa è la natura del trasporto sovradimensionato: non dividere, ma unire con il duro ponte sopra il liscio scafo. Le terre emerse e i continenti, costruendo un filo ininterrotto che è come un viale, dove le strade non esistono e il terreno è un’ombra sul fondale, popolato da creature che non conoscono il concetto di denaro. Così com’era l’uomo, da princìpio. Perché chi aveva mai pensato che dall’Asia più orientale, uno spostamento naturale delle cose fosse fino all’altro capo dell’oceano fino in Nord America, passando per l’Europa e viceversa? Tutto è collegato, questa è una fortuna. Tutto è collegato e questa una sfortuna, qualche volta.
Eppur ciò che resta grande, non importa quali siano le preoccupazioni dell’iter globale, è il metodo scientifico che regge quel sistema, ovvero il mondo tecnologico, l’ingegneria applicata. L’opera di aziende come questa, una filiale della Maersk danese, che forgiano nel fuoco il cuore stesso della situazione. Forgiano: si fa per dire (così, del resto, c’è scritto nel titolo del video, mutuato dal programma di Science Channel “World’s Biggest Shipbuilders”) perché qui siamo di fronte a un tipo di lavorazione totalmente differente, ovvero la fusione con stampaggio, allo scopo di creare un grande oggetto che dire notevole, sarebbe poco. Niente meno che l’elica necessaria per la propulsione della nuova petroliera Tangier, dalla capacità di carico di 50.000 tonnellate. In altri termini, l’ingranaggio stesso che funziona da interfaccia con il mare, all’interno di un sistema di lavoro che si estende per letterali milioni di miglia, lungo l’intera vita operativa del vascello. E non chiedetegli quanti: gli autori del programma, assieme alla compagnia produttrice, restano pronti a garantire sui 124.000.000, essenzialmente cinque volte la distanza dalla Terra alla Luna. In altri termini, alla velocità ragionevole per una nave come questa di circa 30 Km/h, qui stiamo parlando di 800 anni come fossero dei bruscolini. Alcuni sospettano un secondo errore, mentre altri, ragionevolmente, si chiedono se questa cifra non sia quella garantita per l’integrità dell’elica soltanto, non tutta la nave; il che, visti i processi produttivi, potrebbe anche essere del tutto vero. Basta prendere in esame i materiali. O per meglio dire, l’unica e singola lega, di cui è composto il corpo di un tale dispositivo, la quale è classificabile da un punto di vista chimico nella classe dei cuprallumini, un tipo di bronzi nei quali la componente ferrosa in aggiunta al rame è stata parzialmente sostituita col tipico metallo usato in aviazione, dando al composto un’eccezionale resistenza alla ruggine e alla corrosione. Considerate che l’enorme componente, almeno stando alle scenografiche scritte fatte comparire dalla regia nel fumo emesso dal crogiolo fiameggiante, si compone per l’80% di solo rame, facendo immaginare un costo produttivo alquanto impressionante. E la cifra finale in effetti, stando a chi ha visto l’intero episodio, si colloca sull’equivalente di 250.000 dollari, una percentuale tutt’altro che indifferente dell’intero prezzo della nave. Una volta creata la lega in uno stato liquido, portando l’ammasso ad una temperatura di 980 gradi Celsius, si effettua la colata nello stampo costruito in silicati refrattari, con la precisa forma al negativo dell’elica in oggetto a questa produzione. Una progettazione estremamente dettagliata, e simulazioni pregresse, hanno permesso di contrastare la formazione di bolle d’aria, anche in forza della notevole pressione delle forze in gioco. Completata questa fase, viene il periodo di raffreddamento, che dovrà estendersi per un periodo di almeno 5 giorni. Al termine del quale…

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Il terremoto che ha ingrandito la Nuova Zelanda

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Basta osservare un atlante storico per rendersi conto di come i paesi, spesso, cambino i reciproci confini. Per un vasto ventaglio di ragioni: politiche, diplomatiche, per uno scambio di favori o addirittura in funzione di operazioni militari, le loro forme sugli atlanti sono fluide e mutevoli come quella dell’acqua spostata tra diversi recipienti. Ma c’è un tipo di nazione che, per quanto possono decidere gli umani, resta immutabile attraverso le generazioni. Stiamo parlando delle isole, circondate dalla barriera di tipo paesaggistico più invalicabile per eccellenza, ovvero il mare. Eppure nonostante le premesse, tutto ciò che può succedere in teoria, nel corso della storia si è verificato. Antica oppure, come in questo caso, assolutamente contemporanea ed attuale: difficilmente, ne avrete sentito parlare molto a lungo in Tv. I recenti eventi politici ed economici, per non parlare delle catastrofi del tipo geologico che hanno colpito i nostri stessi connazionali italiani, hanno sottratto notevole spazio nei telegiornali al drammatico terremoto di magnitudine 7,8 che ha colpito lo scorso 14 novembre l’Isola del Sud della Nuova Zelanda, causando danni per miliardi di dollari e, nonostante le terribili potenzialità distruttive, soltanto due malcapitate vittime, di cui una per attacco di cuore. Un evento distruttivo, del tipo che siamo costretti a tollerare come clausola dell’imperfetta condizione umana, ma proprio per questo, latore della stessa energia geologica della creazione. Sarebbe difficile crederlo, se non ci fossero le testimonianze: due minuti dopo la mezzanotte, gli abitanti dei territori costieri presso la cittadina di Kaikoura e da lì verso nord, fino all’estremità settentrionale di Capo Campbell, hanno iniziato a sperimentare molto da vicino gli effetti del’evento tellurico, con epicentro 15 Km sotto Culverden, nell’entroterra poco più a sud. Ma in aggiunta a questo universale terrore, ne hanno dovuto affrontare un altro, specifico delle caratteristiche del loro territorio: un boato impressionante, proveniente dalla direzione dell’oceano, che sembrava riecheggiare della furia dei Titani risvegliati. Perché in un certo senso, era proprio questo ciò che stava succedendo: nel giro di esattamente tre minuti, alla velocità di 3 Km al secondo, una spaccatura nella stessa crosta del pianeta Terra si è ampliata, lungo circa 85 Km di costa. Un lato della stessa, quindi, ha cominciato a salire.
È uno scenario assolutamente surreale, quello che ci viene presentato nel presente video del GNS Science, l’istituto geologico nazionale, in cui l’addetto visita la scena del dopo-terremoto, mostrandosi dinnanzi ad parete rocciosa che supera in diversi punti l’altezza della sua testa. Non prima di averci fatto capire, esattamente, dove si trova: ovvero in riva al mare, e rivolto verso di esso. In un luogo dove, fino a pochi giorni fa, si divertivano i bagnanti e lanciavano i surfisti. Soltanto che le onde, a partire dal giorno fatidico, erano state ricacciate indietro dalla natura stessa, di 15-20 metri. Per tutto l’intero angolo nord-occidentale dell’Isola del Sud. Chiaramente, non si tratta di un fenomeno frequente. Anche noi italiani, che ben conosciamo la furia di questo tipo di tremori, siamo maggiormente propensi a considerare le spaccature che essi possono arrecare agli edifici artificiali costruiti dall’uomo, piuttosto che al paesaggio stesso che generalmente, a meno di sconvolgimenti ancor più significativi di quello di Kaikoura, resta pressoché invariato. Tutto il contrario di quello che è capitato nel caso in oggetto, e questo per le particolari condizioni geologiche della regione. Pensate che gli scienziati della Geonet, l’ente internazionale che si occupa di studiare i terremoti, hanno definito questo evento come uno dei più complessi mai registrati sulla terra ferma. In primo luogo, perché presentava in realtà di due epicentri assolutamente distinti, incluso quello originariamente tralasciato a Waipapa Bay. Ma soprattutto per il posizionamento dell’intera Nuova Zelanda, che si trova all’estremità meridionale del temuto Anello di Fuoco del Pacifico, la concatenazione di vulcani che racchiude l’intero oceano più vasto della Terra. Ragione per cui, come avviene per le pecore, c’è un’altra cosa che qui non è mai mancata: le faglie.

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L’uomo che voleva prosciugare il Mediterraneo

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Oggi è un fatto comprovato dalla geologia: circa 5-6 milioni di anni fa, lo stretto di Gibilterra diventò invalicabile per le acque dell’Oceano Atlantico trasformando di fatto il nostro vasto Mare o “stagno”, attorno al quale secondo Platone: “Le civiltà si accalcano come formiche o rane” in un’unica distesa desertificata, percorribile dall’Africa all’Europa, a dorso di cavallo, droide semovente o diplodoco. L’archeologia, dal canto suo, non possiede prove dell’esistenza di un’umanità sufficientemente antica da aver vissuto una tale epoca, benché esistano teorie: della capitale di un vasto Impero, forse in contatto con gli alieni, costruita con i marmi e gli altri materiali provenienti da ogni angolo del mondo, che avrebbe ospitato ogni saggezza e conoscenza terrestre. Finché non fu sommersa, in forza della riapertura di quel punto di collegamento primordiale, scomparendo così come aveva fatto prima l’intero continente di Mu, nel Pacifico sull’altro lato del continente americano. Ci sono diverse ipotesi, sul perché ciò fosse accaduto: un forte terremoto, in grado di modificare l’interrelazione tra le faglie, o l’estendersi della calotta artica, in forza di una glaciazione, che avrebbe ridotto il livello delle acque del pianeta (quanto ci farebbe comodo adesso!) Il consenso universale, ad ogni modo, è che probabilmente si viveva meglio prima, e che lo spazio andato perduto, in un epoca contemporanea di grandi movimenti internazionali e pregressa ricerca di “legittimi spazi vitali” farebbe molto comodo all’attuale consorzio delle nazioni.
E fu probabilmente proprio per la concezione originale di una simile visione dei fatti che Herman Sörgel, accreditato architetto tedesco/bavarese, riuscì a fare breccia nella coscienza collettiva al termine della prima guerra mondiale, con un’idea che in altre epoche avrebbe suscitato l’immediata ironia dei potenti: unire le forze dell’Europa rimescolata, più forte e tecnologica che mai, nella ricostruzione dell’antico stato dei fatti, costruendo la grande diga che la storia avesse mai conosciuto: 14 Km di cemento con una profondità tra i 300 e 900 metri, e uno spessore impressionante dettato dal peso stesso della ciclopica struttura. L’edificio sarebbe stato coronato da un’avveniristica torre alta 400 metri, simbolo del pacifismo e dell’unione dei popoli. Ma la storia non finiva qui: per imbottigliare ulteriormente lo stagno di Platone, Sörgel avrebbe previsto la collocazione di ulteriori quattro dighe, presso i Dardanelli, tra la Sicilia e la Tunisia, nel bacino del fiume Congo e presso il canale di Suez. Non soltanto riducendo, quindi, il livello del Mediterraneo di stimati 200 metri, ma suddividendo i recessi rimasti sott’acqua in una serie di compartimenti interconnessi su diversi livelli, in grado di mantenere attive alcune delle attività pre-esistenti in queste regioni, quali la pesca ed i commerci via mare. Ciascuna diga sarebbe stata dotata di apparati per la produzione di energia idroelettrica, facendo immediatamente fronte al 30% del fabbisogno dell’intera Europa di allora. Nel frattempo, un’estensione stimata di 576,000 Km quadrati sarebbe stata sottratta ai fondali marini e ri-convertita in terra meravigliosamente fertile, come quella che permise la nascita degli Egizi presso gli argini del sacro fiume Nilo. O almeno, questo era ciò che pensava l’ideatore, che trovando immediatamente una lunga serie di finanziatori, e potendo contare anche sull’appoggio della moglie, facoltosa mercante d’opere d’arte, iniziò una campagna a 360° per promuovere la sua idea. Furono pubblicati libri, pamphlet, venne addirittura girato un breve film. Il visionario viaggiò per il mondo in una serie di conferenze, per poi tornare in patria ed acquisire una certa misura di prestigio presso l’allora fiorente repubblica di Weimar, la cui classe dirigente fece di lui un esempio da seguire di fiducia in un futuro migliore, in cui tutto fosse fattibile ed a portata di mano. Già allora erano ben pochi, assai probabilmente, a credere davvero di poter portare a termine il suo sogno. Ma negli anni ’30 l’idea piaceva, soprattutto per l’unione dei popoli contro un nemico comune (il cosiddetto “pericolo giallo”) che sembrava necessariamente implicare. Poi i venti cambiarono, e con essi il segno delle cose…

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