Il mancato trionfo dell’imponente Tucker, auto sperduta sul sentiero di un futuro passato

Certe figure menzionate sull’incedere della storia sembrano aver posseduto una missione, in grado di costituire un’importante ed incondizionata parte della loro partecipazione al progresso umano. Non sempre il loro potenziale riesce ad essere del tutto espresso, tuttavia, per il peso della situazione coéva e le circostanze di contesto capaci di costituire ostacoli e imprevisti. Eppure Preston Tucker, grande appassionato di motori fin dalla tenera età, già progettista di un blindato rifiutato dall’Esercito Americano durante la grande guerra perché giudicato “troppo veloce”, non era tipo da perdersi d’animo, neppure quando gli ispettori della SEC (Commissione per i Titoli e gli Scambi) i procuratori pubblici e persino un rappresentante nella camera dei deputati si schierarono compatti sul fronte No. Rivolto a quella che potremmo definire al tempo stesso la sua creazione maggiormente distintiva ed un diamante grezzo nel settore della funzionalità. L’auto, ultimata e mostrata al pubblico nel 1947, che aveva la capacità in fieri di cambiare le regole del gioco. Ci vuole coraggio, d’altra parte, per esprimere dei crismi progettuali totalmente disallineati con la convenzione. E ne occorre ancor di più per farlo in modo tale da rendere obsoleto un intero settore di prodotti per il pubblico, per di più dall’alto valore unitario come le automobili di metà secolo costruite dai Big Three: Ford, GM e Chrysler. Ed era un effettivo triumvirato quello che il dinamico quarantenne, scaltro uomo d’affari e grande promoter delle sue idee, si ritrovò ad affrontare nella Chicago dell’immediato dopoguerra, dove raccogliendo un significativo apporto di finanziamenti assieme al socio Abe Karatz, riuscì a mettere in piedi la struttura di una venture aziendale del tutto superiore alle aspettative. Con due passi, l’uno più incredibile dell’altro: in primo luogo reclutare il rinomato designer Alex Tremulis, della carrozzeria locale Tammen & Denison, convincendolo a produrre nel giro di una settimana i progetti per un’automobile che fosse al tempo stesso futuristica ed accattivante; in un certo senso pronta per quell’epoca spaziale che figurava unicamente nella fantasia irraggiungibile dei romanzi e del cinema da poco diventato a colori. E quasi un anno prima del fatidico momento, ottenere a un prezzo ragionevole il noleggio della Chicago Dodge Plant, il più grande stabilimento industriale al mondo, ove per anni erano stati costruiti i motori dei bombardieri B-29, le possenti Fortezze Volanti della seconda guerra mondiale. Ottimi presupposti stavano venendo implementati per l’esportazione globale. Lo scenario era ormai pronto dunque, e previa l’assunzione di oltre un migliaio di dipendenti, l’impossibile sembrava stesse per palesarsi: che un singolo individuo, realizzando a pieno titolo i fondamentali crismi del sogno statunitense, stesse per assurgere al difficile Olimpo dei pesi massimi della finanza e del commercio contemporaneo. Se non che il destino, e nell’opinione degli storici una formidabile squadra di detrattori con un chiaro secondo fine, cominciarono a girare dalla parte avversa già diverse settimane, o mesi, prima della teatrale presentazione messa in atto in quel fatidico 19 giugno 1947…

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L’impresa del francese che tentò di avvicinare il volo dei paleotteri ai disegni di Leonardo da Vinci

Maestoso, rigido, elegante, l’aereo progettato dagli umani procede sulla rotta attentamente tratteggiata in linea retta, ragionevolmente indisturbato dalle condizioni climatiche, il vento avverso (che in effetti, lo aiuta a sollevarsi!) E abbassa le sue ruote soltanto una volta che ha raggiunto la destinazione opportuna. L’aereo progettato dalla natura, di contro, è imprevedibile ed erratico. Esso compie il suo decollo senza un obiettivo chiaramente definito, ma piuttosto si aggira in linee intersecantisi tra un fiore e l’altro, posandosi ora qui, ora lì. Prima della metà del giorno, il suo addome è già coperto di polline. Mentre dà sfoggio di un eccezionale maneggevolezza in base alle opportune condizioni vigenti. Esso è anche, nella maggior parte dei casi, non più lungo di qualche centimetro. Conveniente, nevvero? È tutta una questione di obiettivi, chiaramente. Eppure non si può affermare che dal punto di vista cosmico, una soluzione sia superiore all’altra. Ed è chiaro che costituirebbe un valore aggiunto di notevole entità, riuscire a coniugare in qualche modo gli aspetti migliori di entrambi i mondi. D’altra parte fin dai primi timidi approcci al distacco controllato da terra, gli antenati degli odierni scienziati ed ingegneri tentarono più volte d’imitare il volo con ali battenti. Vedi l’opera dei medievali Elmer di Malmesbury ed Abbas Ibn Fabbas attorno all’anno Mille, ma senz’altro più famosamente e con importanti strascichi nella cultura popolare Leonardo da Vinci nel 1485, che disegnò e presumibilmente realizzò un efficiente dispositivo rispondente alla definizione di ornitottero, realisticamente in grado di andare molto vicino all’evidente obiettivo di partenza. Tanto che affinché qualcuno riuscisse, effettivamente, a ri-creare un qualcosa paragonabile ci sarebbero voluti altri quattro secoli e venti anni, grazie all’opera di qualcuno che aveva studiato a lungo i presupposti. Prima di approntare, attrezzi e materiali adatti alla mano, il dispositivo più vicino a una libellula mai creato da mani pensanti. Sto parlando in questo caso del modello Dubois-Riout, monoplano svolazzante a creato dalla mente di René Louis Riout, ingegnere francese con l’aiuto del connazionale celebrato con la prima parte del nome. Forse uno sponsor? Chi può dirlo. Fatto sta che tale modello preliminare, dotato di un singolo paio di ali e in grado di spingersi in avanti già nel 1909 in forma di modellino grazie alla deformazione autonoma delle sue ali, fu giudicato degno di ricevere il prestigioso premio attribuito dalla commissione Lépine, creato soltanto 8 anni prima per ricompensare i maggiori inventori e creativi di tutta la Francia. Benché la versione a dimensioni reali dell’apparecchio sarebbe andata distrutta durante una prova di volo nel 1916, d’altronde, ciò non fu giudicato sufficiente a perdersi d’animo da parte del suo creatore, che con il concludersi della grande guerra decise di tentare nuovamente, facendo questa volta le cose più in grande. Il che avrebbe incluso, caso vuole, l’aggiunta di un secondo paio d’ali in parallelo lungo l’estendersi della fusoliera. Ed una coda lunga e sottile, del tutto paragonabile a quella tipicamente mostrata dagli antichi insetti appartenenti all’ordine degli Odonati…

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Il principio della nave che avrebbe attraversato l’Atlantico con sei ruote motrici

Il problema del metodo scientifico ed il motivo per cui, ancora oggi, non piace a molti è che applicarlo significa spesso gettare da parte i propri sogni e le relative speranze, sostituendoli con la glaciale realizzazione che il mondo opera in base a delle regole precise. Non sempre o quasi mai allineati a ciò che apparirebbe “logico” nella purezza operativa del pensiero basato su considerazioni pregresse. Così macchine volanti, le prime automobili e i battelli in grado di sommergere se stessi senza affondare dovettero fare i conti, nel corso dello scorso secolo, con accorgimenti ingegneristici essenzialmente contrari alle metodologie di superiore estetica ed efficienza. Ed in questo modo l’inventore francese Ernest Bazin, già creatore dell’aratro elettrico, un taglia-verdure, una macchina idrostatica per fare il caffè, nel 1891 cominciò ad armeggiare con un singolare modellino in legno di forma rettangolare integrato con sei galleggianti rotativi dalla forma lenticolare. Un’imbarcazione, nonostante le apparenze, almeno parzialmente basata sui dieci anni trascorsi a partire dall’età di 15 per volere del padre, che l’aveva fatto imbarcare come mozzo su un vascello destinato a girare il mondo. Esperienza destinata a farne un pensatore eclettico, ma anche un avventuriero e soprattutto la persona dotata dell’insolita commistione di capacità opportune a rivoluzionare, un giorno, l’intera industria dei trasporti navali. Dovete considerare, a tal proposito, come al ritorno in Francia dopo il 1855 egli ebbe modo di recarsi a corte incontrando personalmente Napoleone III, il re del Belgio e il Granduca di Russia. Così che non gli sarebbe stato difficile, col progredire degli anni, trovare investitori pronti a rendere possibili e sostenere le proprie idee fino alla fondazione assieme al fratello Marcel nel 1893 della società per azioni parigina Navire-express-rouleur-Bazin. Nessuno si sarebbe d’altronde sognato di mettere in dubbio in quel momento il balzo quantistico offerto dall’avveniristica bateau rouleur o “nave rotolante” che avrebbe condizionato, di fronte ai posteri, l’apice finale della sua lunga carriera. Un sistema di massimizzare la velocità e minimizzare i consumi che traevano l’ispirazione, sotto ogni punto di vista ragionevole, da preconcetti che nessuno avrebbe potuto confutare empiricamente all’epoca. Non era forse vero, d’altronde, che i catamarani riuscivano a spostarsi più velocemente di qualsiasi altra nave da crociera esistente? E ciò non avveniva, forse, per il fatto che la superficie dello scafo posta a contatto l’acqua risultava quantitativamente inferiore ad altri tipi di soluzioni convenzionali? “Dunque immaginate se l’intera parte della nave a contatto con i flutti marini cominciasse, adesso, ad assecondarne i movimenti.” Avrebbe esordito nella propria conferenza esplicativa “Scorrendo via letteralmente sotto il battello, in maniera analoga agli efficaci e paralleli semiassi di un vagone ferroviario…”

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La casa costruita come una conchiglia per massimizzare l’energia delle stagioni

Molti sono i soprannomi utilizzati in questi ultimi anni nella parte settentrionale dell’Alsazia, per riferirsi a quello che costituisce probabilmente il più insolito edificio a essere stato mai costruito nel comune di Cosswiller. Una ridente cittadina circondata di frutteti, situata nel profondo entroterra francese a soli 26 Km da Strasburgo. E finemente connotata, a partire dal 2003, dalla presenza di un chiaro esempio di disco volante proveniente da lontano, che ha finito per precipitare a terra infiggendo uno dei lati a una precisa angolazione di un prato erboso. O forse si tratta di una conchiglia, un mitile che emerge dalle viscere del mondo, intento a catturare quella quantità di luce necessaria a entrare nella prossima fase del proprio ciclo vitale? O perché no, l’arma proiettata dal discobolo gigante, dalla cima non visibile di un monte antistante, che ha finito per mancare di gran lunga il proprio bersaglio desiderato. Affinché nelle decadi o nei secoli a venire, i piccoli abitanti dalla vita effimera e le ancor meno significative aspirazioni potessero eleggerla a propria degna dimora, con tutti i vantaggi che potevano inerentemente tendere a derivarne. Questo perché l’Eliodome, nella realtà dei fatti immaginato e fatto costruire dall’ebanista e designer di mobili francese Éric Wasser a partire da un suo sogno del 2001, risponde ad esigenze specifiche e risolve dei problemi quotidiani della vita civilizzata contemporanea, anche se i suoi protagonisti non possono dire di averne mai effettivamente percepito il bisogno. Questioni come la necessità percepita di utilizzare nella zona Paleartica, dove si trova concentrata una percentuale importante della popolazione globale, impianti di climatizzazione pressoché costanti al fine di mitigare i caldi estivi ed i terribili freddi d’inverno. Laddove la nostra familiare stella diurna, attraverso i secoli e i millenni, si era dimostrata in grado di riuscire a fare esattamente lo stesso. Questo perché il tipico edificio residenziale dei nostri giorni, nonostante la nascente sensibilità alla questione ambientale, è concettualmente poco più che un cubo con alcune aperture, chiamate gergalmente finestre, ed una o due aperture per il ricircolo dell’aria. Troppo poco, troppo tardi? Dipende. Di sicuro, a nessuno verrebbe in mente di poter vivere a determinate latitudini o altitudini senza un investimento commisurato in termini di riscaldamento. A meno di aver plasmato in base alla natura delle proprie necessità la stessa identica idea impiegata nel caso del prototipo in oggetto. I cui materiali, la cui disposizione in relazione ai punti cardinali, e soprattutto l’inclinazione attentamente calibrata del tetto, alludono alla finalità specifica di assolvere alla più degna delle mansioni: lasciar passare, stagionalmente, una quantità del tutto specifico della radiazione riscaldante dei raggi luminosi provenienti dal cuore incandescente del nostro sistema stellare. E dire che la soluzione era stata sempre innanzi alla superficie specchiata dei nostri irrinunciabili occhiali da Sole…

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