La città che regola l’orologio in base alla direzione in cui scorre il fiume

La piccola comunità urbana di St. John, nella regione del Nuovo Brunswick, presso la punta occidentale del Canada e a ridosso dell’isola di Nuova Scozia, è tagliata letteralmente in due da una profonda gola. Scavata nel suolo roccioso dalle acque del fiume omonimo, che sorge in Maine per poi estendersi verso settentrione e poi puntare nuovamente verso meridione, passando per questo tratto vorticoso particolarmente celebre per la sua capacità di attirare le foche. Che nei periodi di alta marea si spingono nell’entroterra, risalendo energicamente il canale naturale, per poi attendere qualche ora mentre si rilassano e catturano i pesci che transitano da quelle parti. Finché verso la metà del pomeriggio, gradualmente, il flusso del fiume inizia a rallentare e poi si arresta del tutto. E dopo il passaggio di qualche minuto di pregna aspettativa, inizia a scorrere nel senso diametralmente opposto. Vortici si formano tra le diverse insenature, gorghi e rapide insensate. Mentre i pinnipedi, venendo trascinati in una sorta di appassionante Luna Park, compaiono e scompaiono, s’inabissano per poi tornare a galla più entusiaste di prima. A dire il vero, potrebbero pensare eventuali osservatori dal ponte sospeso posto a 41 metri d’altezza, sembra proprio che si stiano divertendo. D’altra parte, chi potrebbe mai riuscire a dargli torto? Di luoghi come questo, ce ne sono pochissimi al mondo. Senza neppure avventurarsi ed entrare nel merito di come, nel complesso, nessuno possa evidenziare la portata del fenomeno nella stessa misura delle appropriatamente denominate Reversing Falls. L’idraulica effettiva conseguenza di una quantità d’acqua stimata attorno ai 100 miliardi di litri, che ogni giorno abbandonano temporaneamente l’Oceano Atlantico per fare il loro ingresso in questo golfo totalmente al di fuori dell’influsso delle grandi correnti. Poi tornando, senza falla, di la da dove erano venute. Il che tende a fare un certo effetto sulle naturale aspettative della fisica, inclusa quella largamente nota secondo cui le cose fluide dovrebbero tendere a scorrere in direzione del mare, almeno per la maggior parte del tempo. Mentre vige qui la regola per cui ciò avvenga, in modo sostanziale, esattamente il 50% delle volte, mentre per il rimanente segmento dell’arco quotidiano tende a verificarsi l’opposto; un fenomeno già noto agli abitanti ancestrali di questi luoghi, le tribù indigene dei Mi’kmaq, molto prima della venuta dei coloni europei. Che qui collocavano una delle avventure più memorabili del loro Dio e Creatore Glooscap, il quale si trovò a combattere in mezzo ai flutti il castoro gigante che aveva bloccato il fiume. Riuscendo infine a scacciarlo, per poi colpire con una grande mazza la diga che aveva orgogliosamente costruito e lanciarla a molti chilometri di distanza fino alla baia antistante, dove si sarebbe trasformata nell’isola di Partridge. Dando inizio alla vendetta di questa versione nordamericana del mostro di Scilla, antico divoratore delle navi. Ma sarebbe stato l’esploratore francese Samuel de Champlain, all’inizio del XVII secolo, a dare per primo una spiegazione ragionevolmente scientifica del flusso diseguale delle rapide, coniando per riferirsi ad esse il toponimo francese di Chutes réversibles. Ora esiste una teoria effettiva secondo cui un tempo, quando il ghiaccio resisteva in quantità maggiore sulla cima delle montagne a causa di temperature in media più fredde, questo segmento del fiume ospitasse effettivamente una cascata. Grazie al complicato sistema di mensole e declivi che si trova nascosto sotto le acque spumeggianti, tale da incrementare ulteriormente il comportamento erratico della corrente. Persino quando, nei mesi primaverili ed a causa del grande afflusso del freshet (ghiaccio liquefatto) la corrente smette d’invertirsi due volte al giorno. Costringendo gli abitanti di St. John, finalmente, a studiare più frequentemente le lancette dell’orologio…

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Lo strano verme rosso che s’insinua per riuscire a riparare il tubo

“E quindi scaveremo una profonda buca, dentro cui calare l’oblunga conduttura in plumbum” Disse l’idraulico, parlando nella lingua dei Romani: “Al suo interno, scorrerà dell’acqua…” Pura fantascienza. Se nel mondo antecedente all’invenzione delle tubature urbane, qualcuno avesse tentato di teorizzare il trasferimento di grandi quantità di liquidi soltanto grazie al mezzo della pressione indotta, giù dalle alte arcate degli acquedotti e in dentro le insulae e le villae repubblicane, in molti avrebbero immediatamente dubitato della sua sanità mentale. Eventuali personalità membri della classe dirigente, temendo un tentativo di truffa, avrebbero tentato di farlo arrestare! Ma le cose cambiano in base ai bisogni delle persone. E quindi eccoci qui, un paio di millenni dopo quel punto di svolta nella storia, del tutto incapaci di concepire la vita quotidiana senza l’ausilio di semplici comodità come l’igiene pubblica, la vasca da bagno o lo sciacquone del WC. Un mondo asservito, ed al tempo stesso sostenuto, da una fitta e imprescindibile ragnatela di tubi. Eppure strutture come queste, non importa il materiale in cui siano state costruite (un bel giorno si sarebbe passati addirittura a metalli privi d’effetti nocivi sul sistema nervoso e sui reni!) richiedono un certo livello di manutenzione. Giungendo al punto di sostituirli quando anni d’ossidazione, accumulo di calcare, infiltrazioni di terra e radici, li avranno resi ancor meno scorrevoli della tana di un castoro di lago. Salvo l’applicazione di particolari… Metodi. E un certo canale d’applicazione della risolutiva tecnologia moderna.
Il tipo di video relativo alla questione appare semplice nel suo svolgimento, per quanto arduo da interpretare ad opera dei non iniziati. Un addetto fuori dall’inquadratura avvicina quello che appare a tutti gli effetti come un cannone ad aria compressa all’evidente ingresso di un cilindrico pertugio. Da cui fuoriesce, al volgere di pochi fatidici secondi, una sorta di camera d’aria rossa, azzurra o d’altri colori, che senza neanche l’accenno di una deviazione s’insinua nella tondeggiante apertura. Pazientemente, allora, egli attende, prima di dirigersi, come al suono di un segnale inaudibile, all’altro capo della longilinea faccenda. Ove un’altra volta, il biscione lentamente emerge, ma stavolta accompagnato da qualcosa di… Diverso. È come una calotta rigida, una sorta di scorza dura. Situata in evidente corrispondenza con l’involucro convesso del tubo. Visibile soltanto per pochi secondi appena, prima che l’oggetto all’interno cresca ancora in modo esponenziale fino all’inversione di una tendenza che potremmo definire del tutto imprescindibile e inerente. Qualche volta, prima di procedere alla rimozione, può servire del tempo. Fino a uno o due giorni, che risultano del resto assai migliori dell’alternativa. Poiché ciò che abbiamo visto in questo breve documentario della Natura in azione, altro non è che l’applicazione del metodo chiamato con anglofono acronimo CIPP – Cured in Place Pipe Lining, capace di sostituire in determinate circostanze l’effettiva e laboriosa opera di scavo, rimozione e sostituzione dell’intera conduttura pre-esistente. Qualcosa di semplicemente rivoluzionario, nell’approccio a particolari imprese di riparazione idrauliche all’interno di aree fortemente trafficate, magari sotto l’asfalto o altre superfici che necessiterebbero di essere preservate.
Si tratta, in buona sostanza, di un’evoluzione del processo (slip lining) praticato per la prima volta negli anni ’40 dello scorso secolo, quando si scoprì una vasta gamma di situazioni in cui risultava preferibile inserire un tubo più piccolo e stuccarlo all’interno delle fognature ormai non più funzionali, recuperandone il funzionamento senza dover necessariamente rifare tutto da capo. Tutto questo al costo di una perdita di capienza e conseguente flusso laminare abbastanza significativi. E se ora vi dicessi che il processo precedentemente descritto può ottenere lo stesso risultato con una perdita di funzionalità decisamente inferiore, ed un risultato finale persino più resistente del tubo di partenza il giorno stesso in cui era stato installato?

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Sfera magica delle mie brame, come riescono a fluttuare le fontane?

“Io Galileo Galilei sodetto ho giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; et in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiuratione.” Eppur… Sentite queste mie parole… Essa poteva muoversi, volendo! Dietro un Obelisco, in fondo alla diritta strada che conduce all’alto Stadio, ove si compiono i destini d’ardue contese, un grosso globo planetario bianco come l’osso, 42 tonnellate di perfetto marmo in equilibrio sopra un plinto grandangolare. In una vasca spesso vuota in questi giorni, circondata dai mosaici di acquatiche o mitologiche creature. É una delle opere più affascinanti nel Foro Italico (o foro mussoliniano) a Roma, firmata dagli architetti Paniconi & Pediconi nel 1935, i quali tralasciarono di dargli un nome e che detiene, ancora oggi, il record mondiale di singola sfera di marmo più grande al mondo. Ma se le dimensioni contano, e su questo non c’è dubbio alcuno, tale arredo può essere considerato ad oggi una visione al tempo stesso profetica e altrettanto priva di quella caratteristica capace, più di ogni altra, di attirare l’attenzione degli spettatori. Poiché allora non riuscirono a vedere, tra le pieghe inarrivabili del cosmo, l’effettivo instradamento dell’acqua che sarebbe servito per donargli la vita.
Peccato. Perché in fondo la parte difficile, di procurarsi un blocco sufficientemente grande, per poi lavorarlo con la massima attenzione ricavandone la forma geometrica dell’assoluta perfezione, era già stata portata a termine in maniera. E tutto quello che serviva, come il fulmine caduto nel laboratorio del Dr. Frankenstein, sarebbe stato un appropriato ugello, collocato ad arte in posizione centrale sotto il logico sostegno della situazione. Il concetto linguisticamente pleonastico di sfera kugel (dal tedesco che vuol dire sfera, creando quindi l’espressione “sfera-sfera”) nasce infatti dal bisogno percepito, per quanto mai del tutto analizzato, di poter disporre di un’enorme cosa tonda che galleggia, per così dire, sopra un sottile velo d’acqua, roteando in modo regolare almeno finché qualcuno, in un’esempio affascinante d’opera d’arte interattiva, non l’afferri con le proprie mani per deviarne il corso predeterminato. Applicando la forza trascurabile di un bambino! Amata particolarmente in luoghi pubblici, centri commerciali, musei americani della scienza e qualche volta piazze cittadine, la kugel in senso moderno nasce dunque svariate decadi più tardi, nel 1986 ad opera della compagnia tedesca Kusser Granitwerke, benché sia possibile che qualcuno avesse costruito privatamente oggetti simili in precedenza, su scala più ridotta. Il concetto di una sfera rotolante interattiva, che non cade e non si blocca pur avendo un peso complessivo di parecchie tonnellate non sarebbe stato possibile prima dell’invenzione delle macchine di taglio CNC, dato il bassissimo margine di tolleranza possibile tra l’oggetto e la sua base, affinché tutto funzioni correttamente e sia del tutto scongiurato il verificarsi d’indescrivibili incidenti. La prima kugel famosa avrebbe trovato collocazione, quindi, nel 1984 presso la città di Zurigo, durante la mostra Phenomena ideata dal celebre divulgatore scientifico Dr.Georg Müller, per poi diffondersi a letterale macchia d’olio nelle diverse nazioni della Terra senza mai diventare, a dire il vero, eccessivamente comuni. Tanto che la pagina rilevante di Wikipedia, ad oggi, tenta d’elencarne la totale quantità esistente non superando le poche dozzine d’elementi, realizzati in ogni sorta di materiale come il marmo, il granito e in rari casi (e su scala più ridotta) persino pietre semi-preziose, quali l’onice e la malachite. Leggenda vuole, tuttavia, che tali sfere rotolanti possano essere MOLTE di più…

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Il nuovo sistema austriaco per costruire ponti “ad ombrello”

Nella maggior parte delle casistiche in cui un’impresa ingegneristica appare finalizzata all’immagazzinamento d’energia potenziale, l’obiettivo finale consiste normalmente nel re-impiego futuro di tali risorse, al fine di risolvere, concludere o restituire al mondo una situazione di quiete esistenziale. Unica eccezione a tale assioma, d’altra parte, risulta essere la costruzione di un ponte: criticità continuativa, precaria per definizione, mirata ad installare una struttura costruita dagli umani in quel particolare stato in essere, dell’aria priva di un appoggio, in cui normalmente non potremmo certamente camminare; figuriamoci, del resto, far passare le automobili del nostro spostamento quotidiano. Luoghi non dissimili, nei loro presupposti, dal particolare transito asfaltato della superstrada Fürstenfelder S7, recentemente (2018) costruita tra Graz e Budapest ma fino all’altro giorno priva, per grande sfortuna di ogni suo utilizzatore, di un punto di passaggio in asse sopra il fiume dell’omonima riserva naturale Lafniz, costringendo a fastidiose lungaggini e deviazioni. Almeno fino al coinvolgimento nel progetto del Prof. Dr.‐Ing. Johann Kollegger dell’Institut für Tragkonstruktionen (Istituto Strutture di Supporto) dell’Università tecnica di Vienna, a fronte dell’idea lungamente proposta e dimostrata dal suo dipartimento: la messa in opera, sostanzialmente verticale, di un ponte. Risposta ad un problema certamente noto agli ingegneri dei nostri tempi: come porre in essere qualsivoglia struttura di una certa ambizione quando mancano i presupposti, o come in questo caso i permessi ambientali, di disporre l’ingombrante supporto provvisorio della centina? Ovvero quel supporto o impalcatura, in uso almeno fin dal tempo dei Romani, usato per mantenere in stato di essere una trave a mensola prima che il pilone successivo possa dirsi, a tutti gli effetti, completato. Una domanda la cui risposta sembrerebbe scaturire dal mondo di uno degli oggetti di uso comune tra i più utili, da noi usato per deflettere le precipitazioni provenienti dagli strati superiori dell’atmosfera: ombrello che protegge, ombrello che sovrasta e ombrello, soprattutto, in grado di richiudersi ed aprirsi nuovamente in caso di necessità. Un movimento frutto di un principio meccanico, quest’ultimo, inerentemente capace di essere applicato su una scala superiore, fino a quella qui impiegata di 72 metri per 54 tonnellate, sostanzialmente il peso unitario delle due metà di una delle travi di sostegno per la costruzione dell’utile viadotto fluviale. Unite tra di loro nella sommità, ai fini architettonici preposti, da una giunzione flessibile al vertice di quella che potremmo associare, idealmente, alla perfetta rampa di lancio di un missile puntato verso il cosmo siderale. Almeno fino a che, un poco alla volta, gli elementi idraulici di sollevamento non vengono inclinati verso l’esterno, portando all’apertura, perfettamente metaforica, di quanto avrà il compito di sostenere, tanto a lungo, la viabilità locale. Und es ist einfach herzustellen: ponte pronto in poche ore. Sulle note stranamente adatte della celebre canzone Singing in the Rain

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