L’aereo con più di 100 anni e il doppio esatto delle ali

Dal momento in cui nel 1903 i fratelli Wright avevano effettuato il loro primo storico volo a motore presso il colle Kill Devil, 6,4 Km a sud di Kitty Hawk, l’istituzione del museo dello Smithsonian tardò a riconoscere tale fondamentale traguardo. Insistendo nell’affermare che pochi mesi prima l’inventore Samuel Pierpont Langley, amico personale dell’allora segretario Charles Walcot, avesse già conseguito risultati pioneristici col suo Aerodrome, bizzarra macchina volante a quattro ali. Dibattiti simili, nel resto, mai ebbero modo di verificarsi in Inghilterra, dove l’unico personaggio di Horatio Frederick Phillips (1845-1912) fu riconosciuto, fin da subito, come primo realizzatore del sogno di volare con oggetti più pesanti dell’aria. Era già il 1907, del resto, quando la sua Flying Machine si staccò da terra a Statham, presso il suo stesso quartiere natìo di Londra. Ben pochi osservatori moderni, tornati a quel secolo mediante l’uso di una macchina del tempo, sarebbero stati tuttavia pronti a riconoscere un aereo in tale straordinario implemento in legno dalla forma poligonale, con oltre cinquanta ordini di ali ripetuti due volte per lato. E un propulsore ad elica da 2,6 metri di diametro, tirato innanzi da un motore in linea a sei cilindri in maniera non dissimile dalla maggior parte degli avveniristici velivoli di quei giorni.
Chi fosse esattamente costui, del resto, la storia sembrerebbe ricordarlo solo in parte, con il padre armaiolo e una passione per l’aeronautica che l’avrebbe condotto, pur in assenza di educazione formale, presso la Reale Società Aeronautica di Londra all’età di soli 27 anni, con in mente un’idea capace di cambiare i presupposti di questo nascente campo dell’ingegneria e ricerca. Phillips credeva fermamente, infatti, che il sistema allora in uso per lo studio dell’aerodinamica, consistente di rudimentali stanze con ventilazione indotta e il sistema ancor più approssimativo del twirling arm, nient’altro che un elemento girevole con attaccato un modello “volante” a una sorta di lancetta orizzontale, non potesse in alcun modo fornire un quadro generale degno di essere impiegato a fini di studio. Così egli chiese, e in qualche modo straordinario ottenne, i fondi necessari per costruire un nuovo modello di tunnel vento basato sulla forza del vapore, che risucchiando l’aria consentiva per la prima volta di controllare l’intensità della pressione necessario a studiare il movimento dei corpi usati come modello. Strumento grazie al quale, in breve tempo, scoprì un qualcosa che avrebbe cambiato la storia: la maniera in cui il tipo di ali considerate ideali a quel tempo grazie alle ricerche del membro fondatore Francis Wenham, piatte e larghe, non rappresentassero in alcun modo la soluzione ideale per incrementare la portanza del mezzo di trasporto tanto lungamente auspicato. Riuscendo a raggiungere dei risultati sensibilmente migliori tramite l’impiego di superfici convesse al di sopra del profilo di tali componenti, che aumentando la velocità del flusso corrispondente (vedi principio di Bernoulli) ne diminuivano la pressione. Il che a sua volta generava il vortice proficuo, capace di spingere l’aria sotto l’ala verso l’alto e sollevandola, auspicabilmente, assieme all’ipotetica figura dell’aviatore. Gradualmente un simile concetto, attraverso l’innata capacità intuitiva degli ingegneri, venne ripreso in giro per il mondo diventando lo standard di fatto del sistema ideale per agevolare la progressione di una qualsivoglia tipologia di macchina volante. Non soddisfatto di ottenere unicamente tale riconoscimento, tuttavia, Phillips aveva deciso che avrebbe creato una sua personale macchina volante, intraprendendo un percorso che lo avrebbe portato straordinariamente lontano…

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L’incredibile micro aeroporto dell’isola caraibica di Saba

400 metri, in termini generali, non sono pochi. Ma 400 metri per far fermare due o tre tonnellate di alluminio, dotate di un carrello retrattile ed un paio di potenti motori a turboelica, ecco…. “Nessun aereo potrà mai atterrare all’ombra del vulcano Mount Scenery, punto più alto dell’intero territorio d’Olanda” era l’opinione diffusa a quei tempi, benché, 1 – L’Olanda sia piuttosto piatta e in genere, anche per questo, piena d’aeroporti e 2 – Essa risulti generalmente priva di attività freatico-magmatica capace di minacciare le condizioni per la messa in pratica del volo a motore. Punto di vista destinato a trovare una smentita, indiscutibile da chicchessia, quando l’aviatore inglese Rémy de Haenen nato da madre francese e padre olandese fece una trionfale apparizione dall’abitacolo del suo idroplano Vought-Sikorsky OS2U, appena atterrato presso la laguna di Fort Bay in quel fatidico giorno del 1946. Il che ci lascia l’opportunità di fare caso, d’altra parte, a come questa specifica parte dei Paesi Bassi non si trovi affatto in Europa, costituendo piuttosto l’isola di 13 chilometri quadrati posizionata tra le Piccole Antille e il territorio non incorporato di Puerto Rico, là dove i pirati dei Caraibi, un tempo, imperversavano dettando la loro personale interpretazione delle leggi del mare. Ma l’acqua cessa di gravare con il proprio peso e i limiti circostanziali sopra l’uomo, nel momento in cui quest’ultimo, librandosi, riesce a sollevarsi verso l’obiettivo di una meta chiaramente determinata, all’altro capo di un tragitto chiaro e funzionale allo scopo.
Un’opinione almeno in apparenza condivisa, di lì a poco, dagli stessi membri del concilio dell’isola con potere decisionale, convinti dallo stesso Haenen e l’appaltatore Jacques Deldevert che una pista d’atterraggio avrebbe potuto trovare collocazione, grazie a un ragionevole intervento paesaggistico, presso il sito di Flat Point, solida e pianeggiante sezione del territorio costituita dalla lava solidificata di una qualche eruzione in epoca non sospetta, ben presto livellata e ripulita dalla vegetazione. Così che proprio qui, entro il 9 febbraio del 1959, l’eroe straniero potesse atterrare di nuovo, questa volta a bordo di un aereo di tipo convenzionale e di fronte alla testimonianza appassionata di una parte significativa di tutti degli abitanti dell’isola di Saba. Ma l’impresa venne giudicata dal consenso pubblico, sostanzialmente, come pericolosa e inutile, portando i politici a vietarne qualsivoglia ripetizione fino al 1962. Mutevole è del resto la morale pubblica, come il soffio di quel vento che spostava innanzi le navi, così che in quell’anno fondamentale, con l’avvicinarsi delle elezioni alla carica di governatore, la questione di fornire una pista d’atterraggio per il popolo in presunta attesa diventò una questione di primo piano, entrando a far parte del programma politico di Juancho E. Irausquin, in quell’epoca ministro delle finanze delle Antille Olandesi. Così che quando il governo situato all’altro capo dell’Atlantico decise, come parte di un programma di rinnovamento per il proprio intero territorio caraibico, di stanziare la cifra non indifferente 600.000 guilders, Irasquin non poté fare altro che investire la sua parte per l’ampliamento e il perfezionamento della pista “inutile” di Flat Point. La quale ricevette, nell’ordine: un manto asfaltato totalmente pianeggiante, una piazza di parcheggio e manovra con tanto di taxiway, un eliporto e una torre di controllo in realtà facente funzioni più che altro di punto di osservazione elevato e persino un vero e proprio terminal, destinato a ricevere il nome dello stesso visionario che per primo aveva creduto in questa possibilità, l’aviatore Haenen. Fatto ironico e inaspettato, tuttavia, fu che in tutti i documenti ufficiali e i testi di decreto, a causa di un errore di battitura, tale infrastruttura fosse ad essere identificata nella sua totalità sulla base del committente Yrausquin con la lettera “Y” al posto della “I”, appellativo erroneo che porta tutt’ora. Benché nessuno abbia dimenticato, di contro, l’eccezionale contributo dato da quest’ultimo a vantaggio della vita e del turismo locale, nonostante a seguito della sua dipartita, nel 1962, sarebbe stata sua moglie a tagliare il nastro dell’aeroporto…

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L’unica ragione per cui non esistono i pancake volanti

Durante il primo terzo degli anni ’30, il giovane ingegnere elettrico del Kansas Charles H. Zimmerman con già una carriera alle spalle nella progettazione di tunnel del vento per il National Advisory Committee for Aeronautics (quella che sarebbe diventata, un giorno, la NASA) era un uomo con una visione ben precisa, e questa visione era rappresentata dal prototipico disco volante. Non che fosse provenuto da un diverso pianeta, tuttavia, bensì controllato da un pilota di nazionalità rigorosamente americana, intento a proteggere, o in qualche modo espandere, i confini del possibile immanente. E sebbene tale oggetto del pensiero fosse destinato ad attirare qualche sguardo di perplessità, giungendo a guadagnarsi l’appellativo di pancake (frittella) o flapjack (barretta/galletta ai cereali) volante, tale insolito aeromobile sarebbe stato un giorno non troppo distante realmente costruito, complice l’inasprirsi di un conflitto globale che avrebbe reso i più alti vertici militari aperti ad ogni idea & suggerimento, non importa quanto folli potessero sembrare inizialmente. Ed almeno sulla carta, il futuro Vought V-173, inserito non a caso nel sistema di numerazione della stessa compagnia responsabile per il caccia di grande successo F4U Corsair, di stranezze ne aveva molte: prima fra tutte, la completa assenza di ali in senso letterale, dato che nei fatti, l’intera struttura del velivolo sarebbe stata responsabile di generare l’essenziale portanza. Grazie a un’intuizione assolutamente geniale, avuta probabilmente da Zimmerman durante i suoi studi approfonditi del flusso aerodinamico latente, relativa al fatto che quest’ultimo venisse costantemente modificato, e di frequente compromesso, dall’inevitabile generarsi di vortici al di sotto delle carlinghe di tipo convenzionale. Che cosa sarebbe successo, dunque, egli si chiese, se la coppia di eliche di un aereo bimotore fosse stata disposta in maniera tale da spingere via un simile orpello, liberando in questo modo le più segrete potenzialità del mezzo? Giungere a scoprirlo e dimostrarlo, naturalmente, non fu facile e l’avrebbe infine condotto, nel 1937, a lasciare il suo posto sicuro nei laboratori di Langley per spostarsi a Long Island presso gli uffici della Vought Aircraft Division, dove finalmente, gradualmente, il suo sogno si sarebbe trasformato in incredibile realtà. Non prima di aver dimostrato, tuttavia, tramite la costruzione di un modellino a propulsione elettrica, come il fattore d’efficienza del suo velivolo potesse trarre un improbabile beneficio dal valore d’attrito sviluppato contro il passaggio dell’aria, dimostrato nelle prove matematiche come proporzionale al coefficiente di portanza e direttamente inverso alle proporzioni delle ali. Tale fattore venne quindi definito in gergo “FOO” ed avrebbe confermato come, in ultima analisi, l’assenza del più grande elemento ingegneristico ispirato dalla natura (degli uccelli) fosse dopotutto sopravvalutato, e addirittura superabile mediante l’applicazione di particolari artifici…

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DC-X, l’archetipo del razzo capace di fare marcia indietro

Oramai è cosa nota: le astronavi partono sempre con la punta rivolta verso il cielo. Una disposizione operativa semplicemente troppo pratica, vista la direzione della loro marcia considerata desiderabile, perché il decollo con modalità comparabili a quelle di un aereo possa in effetti sostituirla. Specie quando si considera come il carburante a bordo sia una variabile tanto problematica in termini di durata e peso. Ciò che appare meno standardizzata, d’altra parte, è la modalità del loro metodo di ritorno a portata fisica del controllo di missione: abbiamo avuto, in origine, velivoli come i grandi razzi a più stadi, che una volta liberatisi di serbatoi e motori, e lasciato il carico in orbita, rispedivano soltanto lo stretto indispensabile verso Terra, a bordo di una semplice capsula dotata di paracadute. Metodologia sostituita, quindi, dall’approccio maggiormente “economico” dello Space Shuttle, versione più sofisticata dello stesso metodo in cui la parte riutilizzabile era l’intero Orbiter, apparecchio alato e ricoperto da uno strato di mattoni super-refrattari, dotato di un carrello per l’atterraggio sulla convenzionale serie di ruote a noi maggiormente familiari. Mentre in epoca ancora più recente, soprattutto grazie al programma portato avanti dall’azienda americana di Elon Musk, SpaceX abbiamo fatto la conoscenza attraverso innumerevoli video su Internet con il terzo approccio, ragionevolmente considerato quello dotato di maggiori presupposti di efficienza. Il dato che potrebbe esservi sfuggito tuttavia, a tal proposito, è che l’atterraggio di un’astronave in posizione diritta, come una versione fatta andare al contrario di un video del suo stesso decollo, ha in realtà un’origine relativamente remota, rintracciabile fino al 1991. Ispirata alla penna di un autore di fantascienza e messa in opera, dai massimi vertici del governo statunitense, per uno dei bisogni più essenziali immaginabili: garantire, attraverso acque particolarmente turbolente, la propria stessa sopravvivenza.
É ricorrente nella storiografia moderna il concetto secondo cui la creazione della bomba all’idrogeno nel 1952 abbia contribuito sensibilmente alla creazione dello stato d’equilibrio identificato on l’acronimo MAD (Distruzione Mutua Assicurata) garantendo de facto l’impossibilità di muoversi militarmente contro i propri rivali nazionali più forti, pena l’innesco di una situazione di conflitto a seguito della quale, con la massima probabilità, sarebbe stata obliterata la maggior percentuale della popolazione umana. Il che deriva in effetti dalla cognizione ottimistica, sostanzialmente corretta, secondo cui i potenti del mondo siano maggiormente inclini a preservare piuttosto che distruggere, difendere piuttosto che dimostrare a tutti la propria superiorità, indipendentemente dalle conseguenze a cui ciò potrebbe portare. In tale ottica interpretativa, ergo, non soltanto il conseguimento di una difesa perfetta potrebbe costituire il primo passo verso il sovvertimento di uno stato di equilibrio, bensì l’effettivo gesto ostile verso tutti coloro che dall’altra parte del “muro” (per non parlare del vero e proprio Muro) erano intenti a contare le proprie testate come fossero pillole contro una malattia impossibile da guarire. E fu proprio quella l’idea di partenza che avrebbe portato Ronald Reagan, il 23 marzo del 1983, a dare inizio al programma SDIO (Strategic Defense Initiative) passato alla storia maggiormente con il termine derogatorio del senatore democratico Ted Kenney, progetto “Guerre Stellari”. Nient’altro che un sogno comparabile a quello attuale di Donald Trump, che avrebbe creato su carta “il quarto comando delle Forze Armate” per difendere lo spazio da eventuali attacchi portati dalle altre superpotenze globali; finalizzato principalmente al tempo, così come adesso, all’eventuale intercettazione di missili lanciati dall’arbitraria parte orientale del mondo. Un qualcosa che avrebbe richiesto, imprescindibilmente, la versione maggiormente pratica di una porta d’accesso alle alterne strade delle orbite soprastanti…

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