Quei mattoni dell’industria dei colori dentro il tempio laico costruito a Francoforte sul Meno

Oltre la necessità di presentarsi al pubblico, scevre di un’immagine aziendale persistente. Immuni alle conseguenze di una cattiva reputazione, tranne che per brevi periodi ed in casi eclatanti collegati ad eventuali decessi imprevisti. È interessante notare, nonché lievemente preoccupante, come l’approssimazione più calzante nell’odierna globalizzazione alle incombenti mega-corporation dell’iconografia cyberpunk/anarco-capitalista possa essere individuata nelle compagnie farmaceutiche. Molte delle quali sorte, negli anni di transizione verso l’epoca contemporanea, da realtà aziendali altamente specifiche, spesso operative nel campo della chimica ad ampio spettro o produzione industriale di antecedente natura. Un’entità riconducibile a tale visione indubbiamente pessimistica del mondo, fondata nel 1863 come fabbrica di vernici a base di catrame, potrebbe la Hoechst AG di Francoforte, capace di estendere i propri tentacoli (nell’accezione maggiormente neutra del termine) in molteplici settori fino al 1999, quando esigenze di natura finanziaria ed amministrativa la portarono a scomparire in una fusione asimmetrica con il gruppo francese Rhône-Poulenc SA. Che ci sia d’altronde stata un’epoca in cui la comunicazione sia stata importante per questo marchio, può essere facilmente desunto da una visita nel celebre parco industriale di Höchst, l’antico punto di scambio commerciale successivamente destinato ad essere incorporato nelle periferie della città più popolosa dello stato di Hesse-Nassau, la capitale mancata di Frankfurt am Main. Cionondimeno importantissima nel quadro generale della produttività tedesca, ed in funzione di ciò ospitante innumerevoli sedi aziendali, uffici amministrativi ed altre sedi a supporto delle operazioni commerciali di molti. Nessuna, tuttavia, più distintiva e significativa del cosiddetto edificio Peter Behrens o “di amministrazione tecnica” o ancora e più semplicemente, dal numero di serie C 770. Quasi come se nella necessità di abbreviarne il chilometri appellativo in lingua agglutinante, non fosse stato trovato alcun termine capace di sostituire il nome dell’architetto, una delle figure più importanti della scena tedesca nel periodo antecedente ed in mezzo alle due guerre mondiali. Egli che, avendo già attraversato una miriade di stili contrastanti, si era affermato negli anni ’20 come uno dei pionieri dell’espressionismo del mattone, fatto di soluzioni pratiche fondate sull’impiego di tale tipologia di materiale dall’alto grado di versatilità. Assieme a mattonelle e blocchi di klinker, come quelli di colorazione uniforme utilizzati per la torre e l’arco scenografico connesso all’antistante D 706, di quello che potrebbe anche essere all’apparenza la torre campanaria di una chiesa modernista o il bastione di un bizzarro castello. Almeno finché l’ipotetico visitatore non si troverà, improvvisamente, a varcarne la svettante soglia…

Se c’è dunque una singola ragione per cui Peter Behrens (1868-1940) l’innovatore, l’anacronistico, il coraggioso viene anche considerato il creatore di fatto del design industriale ciò è anche in parte riconducibile al Technisches Verwaltungsgebäude, o per meglio dire alla stratificata e complessa iniziativa di marketing entro cui era stata collocata la sua inaugurazione. A partire dall’agosto del 1920 quando il celebre architetto berlinese, già 10 anni prima responsabile della creazione della Fabbrica di Turbine AEG a Moabit che non nascondeva più la propria esistenza dietro una facciata tradizionalista, ma piuttosto lo metteva in mostra al pubblico con gigantesche vetrate, venne contattato dai vertici della Hoechst per venire coinvolto nello spostamento e raggruppamento dei loro numerosi uffici sparpagliati per i diversi quartieri della città di Francoforte sul Meno. Dal che l’acquisto di un lotto fuori dal centro della lunghezza iniziale di 150 metri lungo l’arteria di collegamento della Mainzer Landstrasse ove la maestosità aziendale potesse finalmente essere messa in mostra al grande pubblico senza il timore di uscire dalle linee guida di uno stile urbanistico pre-esistente. Ed è sul principio di un tale presupposto che Behrens disegnò la torre squadrata con l’orologio stravagante, il ponte surrealista degno di una fiabesca fabbrica di cioccolato e soprattutto l’atrio principale dell’edificio, uno spazio molto chiaramente ispirato dallo spazio cavernoso di una basilica a tre navate priva di consacrazioni eminenti. Con le sue pareti svettanti a 15 metri d’altezza geometricamente simmetriche tra i sei pilastri squadrati, caratterizzati da armonie cromatiche blu, arancioni e gialle, sovrastate da tre lucernari ottagonali potenzialmente utili a lasciar entrare il possente bagliore della Sapienza. Mettendo in risalto, nel contempo, il pavimento dal disegno geometrico ripetuto e le finestre dai vetri anch’essi colorati, chiaramente allusive ai dipinti astratti del movimento pittorico olandese De Stijl. Mentre dai piani superiori ed il mezzanino affacciato su questo ampio spazio, raggiungibili mediante l’utilizzo del tipo d’ascensore insolito dal moto incessante chiamato in gergo paternoster, i numerosi impiegati degli uffici ai piani superiori avrebbero potuto discendere ed incontrarsi, favorendo un clima d’interscambio d’opinioni particolarmente conduttivo al tipo di organizzazione originario dell’azienda. Ciò al suono di una vera e propria campana, effettivamente mai utilizzata, che dal piano superiore della torre avrebbe dovuto suonare armonie wagneriane al cambio o il termine di ciascun turno di lavoro. Altri ambienti degni di menzione, la sala espositiva con la statua di Richard Scheibe dedicata all’operaio e l’aula magna ristrutturata negli anni ’50, dopo che i suoi pannelli in legno erano andati a fuoco durante la seconda guerra mondiale.

Che la Hoechst AG andasse particolarmente fiera del lavoro di Behrens per la sua nuova sede diventò ben presto evidente con il conseguente cambio del logo dell’azienda, destinato ad incorporare fino agli anni ’50 in varie forme più o meno astratte il riconoscibile profilo della torre dell’orologio e del ponte, mentre sfruttava a pieno gli strumenti di presentazione forniti contestualmente da quel grande autore del design dello scorso secolo, ivi inclusi un distintivo carattere tipografico, l’impaginazione dei materiali di marketing e le priorità esteriori nel modo di confezionare i prodotti. Di suo conto l’architetto, mutando ancora il proprio stile, avrebbe in seguito abbandonato l’Espressionismo del Mattone per passare al Nuovo Oggettivismo nelle creazioni successive, il cui successo continuativo, assieme alla cattedra presso l’Accademia Prussiana delle Arti, avrebbe contribuito a farlo figurare tra le personalità coinvolte da Hitler nel 1936 per l’ipotetico e drastico rinnovamento della nuova Berlino. Ma anche se la guerra fosse finita diversamente, egli non avrebbe potuto partecipare a quel progetto, causa decesso nel 1940 nella capitale, dopo essersi rifugiato in un albergo dalla propria residenza raggiunta dalle bombe degli alleati. Il suo lavoro, ivi incluso l’Edificio Tecnico, sarebbe rimasto come simbolo di un’epoca di ambizione ed ottimismo. Destinata a scontrarsi con le dure scelte irrazionali dei politici ed un’epoca consumata nelle fornaci impietose della Storia moderna. Eppure, perché mai dovrebbe smettere di suscitare un appropriato grado d’ammirazione?

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