Lo sputo assassino del pulcino più pericoloso della scogliera

Nel piccolo ecosistema aviario di una città, è il gabbiano a regnare incontrastato: 40 cm di lunghezza per 105 di apertura alare, con quel crudele becco lievemente uncinato usato per uccidere, e conseguentemente fagocitare, passeri, piccioni, merli e chiunque altro sia abbastanza incauto da posarsi nel suo territorio. Ma chiunque abbia mai frequentato le fredde distese dei mari del Nord, o quelle altrettanto remote e agli antipodi del grande Pacifico meridionale, ben conoscono l’esistenza di creature volatili esteriormente simili benché ancor più pericolose per i loro colleghi: sono le circa sette specie del appartenenti alla famiglia carnivora degli Stercorariidae, comunemente detti skua. I quali, contrariamente a quanto potrebbe lasciar pensare il nome latino, hanno ben poco a che vedere con gli escrementi che furono piuttosto associati per errore a loro in funzione del cibo rigurgitato, spesse volte, dalle prede pennute inseguite da questi mostri del peso anche superiore a 1,5/1,6 Kg. Con effetti decisamente trascurabili sulle loro possibilità di sopravvivenza, fatta eccezione per quella di un singolo, speciale caso. Sto parlando del pulcino di Fulmarus o più semplicemente Fulmar (fam. Procellariidae) la cui necessità di restare incustodito per lunghe ore mentre i suoi due genitori si recano in caccia sembra averlo portato, attraverso il rincorrersi secolare delle generazioni, a dotarsi di una particolare e terribile arma d’autodifesa. Che parte dal proventricolo situato all’estremità inferiore dell’esofago, percorrendo all’inverso un simile condotto digerente prima di essere espulso alla velocità di svariati metri al secondo, all’indirizzo di chiunque sia stato tanto incauto da fare ingresso con prepotenza nello spazio del suo campo visivo. Messe in tavola le pedine, quindi, passiamo a descrivere la scena: di una scogliera essenzialmente deserta e del tutto priva di pericoli evidenti. Sulla quale atterra, zampettando, un fiero esemplare di quel drago cacciatore dei vasti oceani, lo skua. Ben sapendo grazie all’intuito, che qui avrebbe trovato un pigolante tesoro, pronto a trasformarsi istantaneamente nel suo più gradito snack. Ed infatti più che mai puntualmente, eccolo lì: è bianco, candido e in bella vista nel mezzo di un’isolata chiazza erbosa, con l’unico rudimentale nido di una buchetta scavata coi piedi palmati dei suoi genitori. “Patetico” pensa tra se e se l’uccello assassino: “Ormai non si preoccupano neppure di nasconderli, mentre inizia ad avvicinarsi con fare baldanzoso. Ed è proprio allora, che gli eventi prendono una piega inaspettata. Poiché piuttosto che tentare una tardiva ed inutile fuga, il pulcino di Fulmar alza la testa e spalanca il becco, prendendo molto bene la mira. Quindi espelle quella sostanza appiccicosa e maleodorante che costituisce la sua invalicabile prerogativa difensiva, colpendo in pieno le piume marroni del suo nemico. Che disgustato, spicca istantaneamente il volo, per andarsi a dare una lavata nell’acqua di mare, mentre imprecando nell’idioma oceanico chioccia sottovoce qualcosa sulla falsariga “Potrò sempre tornare più tardi a finire il lavoro”. Ma la realtà è che non potrà farlo. Perché nei fatti è già condannato a una morte orribile, anche se ancora non lo sa.

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Il paesaggio ultramondano di un diverso golfo della California

È una tipica sequenza cardine di ogni racconto di fantascienza che si rispetti, quella in cui l’esploratore cosmico sbarcato dalla sua astronave mette piede sul suolo alieno di un distante pianeta, poco prima di guardare verso l’alto e… Segue descrizione di un diverso cielo: spesse volte, caratterizzato dalla presenza di astri multipli, come una pluralità di lune o soli. In casi estremi impreziosito dall’inesplicabile presenza di macigni o veri e propri monti fluttuanti, come quelli del film Avatar da cui decollavano creature simili ad uccelli o draghi. E poi ogni volta, inevitabilmente, connotato da una tonalità atmosferica supremamente insolita, col che intendo una colorazione dalle tinte elettriche o pastello, tendente ad un qualsiasi punto dello spettro che sia sufficientemente diverso dall’azzurro che ci è maggiormente familiare. Un cielo viola, verde, color rosso scuro. Qualche volta, un cielo rosa? E quali gas potrebbero comporre una così insolita miscela? Metano. Lo sappiamo molto bene, in quanto ciò succede, a quanto ci è permesso di sapere oggi, almeno in un particolare luogo sulla Terra. O forse sarebbe più corretto dire, sotto la superficie degli oceani che circondano le nazioni…
Esistono essenzialmente due tipi distinti di spedizioni scientifiche: quelle che partono con una meta già conosciuta, al fine di analizzarla in maniera più approfondita e tramite l’impiego di strumenti migliori. E poi c’è il caso messo ulteriormente in pratica dalla nave RV Falkor a partire dalla fine di febbraio del 2019, vascello facente parte della dotazione dell’Istituto oceanografico californiano Schmidt, di un intero team di biologi, geologi e altre figure interdisciplinari con il fine di dirigere lo scafo verso particolari sezioni del territorio che nessuno, prima di allora, si sarebbe mai sognato di analizzare. Perché è proprio quello il caso in cui si scopre, indipendentemente dalle aspettative precedentemente acquisite, che i paesaggi descritti da Arthur C. Clarke ed Isaac Asimov non erano poi così lontani dalla verità. Soltanto, avevano sbagliato nel puntare i telescopi della loro fervida fantasia verso l’alto, piuttosto che in direzione delle occulte profondità marine. Immaginate dunque la sorpresa della Dott.sa
Mandy Joye dell’Università della Georgia, una delle figure in capo all’operazione, quando accendendo gli schermi connessi alle telecamere in alta definizione del ROV (sottomarino a controllo remoto) SuBastian presso un particolare hotspot vulcanico del Mare di Cortez, segnato sulle mappe in via meramente preliminare, vide la cabina della nave illuminarsi del colore dei fiori di ciliegio, mentre veniva a patti con una serie di sagome vagamente riconoscibili a pagode giapponesi. Ed è proprio questo il luogo, rimasto senza nome e una collocazione geografica precisa probabilmente al fine di prevenire (o almeno ritardare) l’inevitabile assalto da parte dei turisti, che compare in alcuni video di supporto pubblicati sul canale ufficiale dell’Istituto, dimostratosi nelle scorse settimane in grado di stimolare più di una descrizione poetica con tanto di metafore sui razionali blog e testate di argomento scientifico. A tal punto, quei colori e quelle forme sembravano fuoriuscire dalle usuali aspettative del caso…

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Niente rane in mezzo ai rami: questo è il verso della scimmia di Siamang

Avete mai incontrato una persona la cui voce sembrasse istintivamente quella di qualcun altro? Individui bassi con un tono da baritono, giganti che si esprimono in falsetto, anziani che si esprimono col tono, e qualche volta le preferenze lessicali, di un alunno di terza liceo? In un certo senso, avventurarsi nelle giungle di Malesia, Indonesia e Thailandia può dar adito ad un esperienza di questo tipo. Che si prefigura molto spesso grazie all’insistente ripetersi di un suono distante. Un canto, un lamento e a voler essere precisi, l’espressione in rima di una sorta di poesia. Che oscilla sopra e sotto, sopra e sotto quella nota inesplicabile che potremmo definire la frequenza di un possente gracidio. “Espressione generica di fastidio!” potrebbe a questo punto rendere palese l’ipotetico turista impreparato, subito aggiungendo “Apprezzamento generico sul valore del silenzio” mentre la sua guida, spalancando leggermente gli occhi, estende il dito della mano ad indicare verso l’alto. Un’ombra nera si fa largo in mezzo agli alberi. Non è un aereo, né un uccello, anche se si muove alla velocità di Superman: circa 40-50 Km/h; adesso 30; adesso 20, grazie al supremo sistema di frenata concesso al metodo della brachiazione (salto di ramo in ramo); ora si trasforma, da una sagoma sfocata, in quello che realmente è. L’essere peloso alto all’incirca un metro, senza coda, dal peso di 14-17 Kg, con le braccia lunghe molto più del corpo e un’espressione pensierosa. Grande o media scimmia, potrebbero chiamarla i non iniziati. Mentre gli esperti sanno molto bene, che si tratta del gibbone di Siamang (Symphalangus syndactylus) un tipico abitante (quasi) a rischio di estinzione di questi luoghi. Che apre lentamente la sua bocca, mentre lo strano palloncino grigiastro che si trova incorporato sotto il mento assume proporzioni comparabili a quelle della testa di un bambino. Ed è allora, senza saper leggere ne scrivere, che lo spettatore medio tende portare istintivamente le proprie mani in corrispondenza dei padiglioni auricolari…
Il verso di quello che viene comunemente italianizzato in siamango, da un appellativo in lingua malese di etimologia incerta, è stato decritto in molti modi: stridulo, enfatico, ansiogeno, penetrante. Il che permette di comprendere istantaneamente il suo scopo, di essere udito a svariate centinaia di metri di distanza, trattandosi essenzialmente di un metodo efficace nella marcatura del territorio. Quello spazio, o terreno di foraggiamento primariamente erbivoro che dir si voglia, a cui ciascuna famiglia di queste creature sceglie di affidarsi per definire i confini effettivi della propria esistenza. Diversamente da altri primati più famosi in Occidente, infatti, il siamango non vive in grandi comunità ma piccoli e più dinamici gruppi di quattro elementi al massimo, tra cui maschio e femmina dominante, accompagnati dai loro eventuali cuccioli o talvolta uno/due esemplari sub-adulti. Eppur nonostante questo, riescono a vivere una vita sociale piuttosto intensa e sofisticata, grazie al telefono senza fili della loro voce, in grado di trasmettere una straordinaria varietà di segnali, quasi paragonabili a quelli di un rudimentale linguaggio umano.

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Il triste fato del castello più inutile degli Stati Uniti

Fucili spianati, picche acuminate, tizzoni ardenti. Quale, tra i due popoli non propriamente nativi che occupano i più vasti territori del continente nordamericano sareste maggiormente inclini ad associare a simili implementi di guerra? Ebbene, se aveste rivolto una simile domanda a James Madison, rifugiatosi nel villaggio di Brookeville dopo la sconfitta delle sue truppe a Bladensburg nel 1814, egli non avrebbe esitato neanche l’alito di un singolo istante: “Quello a cui appartengono le truppe che, sotto la guida di un feroce generale, stanno facendo del loro meglio per radere al suolo Washington e la stessa Casa Bianca.” Già perché erano in molti a dimenticare, persino allora, come il Canada facesse ancora parte ufficialmente dei possedimenti di re Giorgio III del Regno Unito, e in funzione di ciò, presidiato da soldati inglesi, cannoni inglesi e i fedeli benché naturalizzati militi profondamente avversi alla rivolta più eclatante nella storia del colonialismo europeo. Caso volle che la notte di quel fatidico 24 agosto, ad ogni modo, una tempesta estiva imprevista avrebbe scatenato ettoliti infiniti sulla città messa a ferro e fuoco, spegnendo gli incendi e calmando gli animi col flusso purificatore dei rovesci. Così mentre l’acqua ancora scorreva assieme alle copiose lacrime, l’uomo più potente del suo paese si prese la briga di formulare un giuramento: “Mai più, mai più dovrà succedere qualcosa di simile!”
Ci sarebbe stato, dopo tutto, un seguito: la famosa battaglia del lago Chaplain, vero e proprio portale d’accesso verso il fiume Hudson e attraverso quello, il cuore stesso della nazione, combattuta soltanto due settimane dopo, nel corso di quel grave conflitto destinato a passare alla storia come “guerra del 1812” e considerato dal punto di vista europeo come un mero teatro secondario delle guerre napoleoniche. E sebbene gli americani avrebbero, almeno in quel caso, conseguito il loro trionfo ed ottenuto il favorevole trattato di Ghent, loro massima preoccupazione fu assicurarsi che i nuovi possedimenti stessero al sicuro da eventuali eventi di una comparabile gravità. Ragion per cui, il presidente giunto quasi al termine del suo mandato nel 1817 diede l’ordine che lì venisse costruito un forte inespugnabile, dotato delle ultime tecnologie e soluzioni difensive. Ad occuparsi della sua messa in opera sarebbe stato niente meno che Joseph Totten, uno dei pochi genieri militari ad aver raggiunto il rango informale di eroe della Repubblica, grazie al successo conseguito dalle sue fortificazioni proprio durante i recenti conflitti con il Canada inglese, mentre il nome attribuito all’edificio avrebbe dovuto richiamarsi a niente meno che Richard Montgomery, il fiero generale di origini irlandesi in grado di dare inizio, quasi 60 anni prima, al difficile progetto di espugnare e conquistare l’intero Canada, soltanto per perire coraggiosamente nel corso dell’assedio di Québec City assieme al sogno di una così remota idea. Ma il possente forte dalla pianta a stella sarebbe stato destinato a passare alla storia con un diverso e ben meno lusinghiero nome: “Forte Cantonata”, principalmente per il fatto che, come si scoprì soltanto troppo tardi, l’isola artificiale sopra cui sarebbe sorto era stata costruita, per un “piccolo” errore, al di sopra del 45° parallelo. Il che ne faceva, per tutte le leggi ed i trattati vigenti, un possedimento legittimo del Canada e dei suoi soldati. Il cantiere venne dunque abbandonato immediatamente, mentre l’amministrazione dei presidenti successivi a Madison fece la promessa implicita di non parlarne mai più. Ma la storia, si sa bene, è una creatura fluida e imprevedibile, ragion per cui trent’anni dopo, alla stipula del nuovo trattato di Webster–Ashburton del 1842 grazie alle argute manovre diplomatiche di John Tyler, decima persona a ricoprire quell’ambita carica, la parte settentrionale del lago Chaplain sarebbe ritornata sotto il controllo americano. E con essa, l’isola costruita come unico bastione nella parte settentrionale di quel territorio vasto e incontaminato. Al che venne deciso che il mai dimenticato Montgomery avrebbe ricevuto, finalmente, il suo castello. E così fu.

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