L’occhio di Buddha sull’aeroporto più pericoloso al mondo

Per quanto i desideri ed il rapporto con la realtà dei popoli possa tendere ad assomigliarsi, vi sono delle differenze molto significative che vengono dettate, nella maggior parte dei casi, dai dogmi assunti delle rispettive religioni. Per chi crede nel destino umano di un continuativo ciclo di reincarnazioni fino al raggiungimento dell’auspicabile non-esistenza, ad esempio, non esiste nulla che possa ricondursi al concetto cristiano di divina Provvidenza. Il che significa, in altri termini, che il destino di ciascuno è la conseguenza esclusiva delle proprie azioni, secondo la legge universale e ineluttabile del karma. Ed è proprio questo che dovrebbe idealmente ricordare, ai piloti impegnati nel difficile atterraggio presso l’aeroporto nepalese Tenzing–Hillary del villaggio di Lukla, il piccolo tempio buddhista che si trova in cima alla singola pista d’atterraggio lunga poco più di 500 metri, caratterizzata da una pendenza in salita che sarebbe sufficiente a correre mediante l’utilizzo di un longboard. Non che qualcuno, chiunque, potrebbe mai pensare di affrontarla in tal modo, vista la presenza, ad un’estremità della stessa, di un baratro profondo svariate centinaia di metri. Mentre all’altro lato campeggia un muro alto e scosceso, senza nessun tipo di protezione a vantaggio dell’aeroplano che dovesse essere tanto sfortunato, o sconsiderato, da non riuscire a frenare in tempo. Ecco perché, prima di essere certificati per effettuare l’impresa, ai piloti della più prototipica nazione d’alta quota vengono richieste almeno 100 missioni nazionali di tipo STOL (Short take-off and landing) e 10 atterraggi proprio in questo luogo con istruttore al seguito, con uno standard di requisiti così eccezionalmente elevato da riuscire ricordare, fatte le dovute proporzioni, quello di una moderna portaerei da guerra. Il che permette di poter contare su una quantità d’incidenti effettivamente piuttosto bassa, vista la complessità dei fattori in gioco. Per un totale di sette a partire dal 1973, di cui soltanto tre fatali (ed uno costato la vita a 18 persone nel 2008) nonostante l’alta quantità di passeggeri, nei fatti superiori ai 100.000 annui, che da multiple generazioni scelgono attualmente di posare piede su questa pista, asfaltata soltanto a partire dal 2001. Al che sarebbe lecito chiedersi che cosa, esattamente, conduca tante persone ad abbandonare ogni scampolo residuo di prudenza, accettando rischi tanto espliciti soltanto al fine di recarsi presso un paesino tanto remoto e per quanto ricco di fascino, visitabile nel giro di una mezza mattinata. Un quesito, questo, la cui risposta può essere acquisita soltanto guardando verso l’alto: Lukla stessa ha sempre costituito nei fatti, sin dall’inizio del secolo scorso, la sola ed unica “porta” civilizzata verso il più importante pellegrinaggio di un qualsiasi alpinista rispettoso del proprio nome. Il remoto e semi-leggendario tetto del mondo, altrimenti chiamato dai nativi Chomolungma (Madre dell’Universo) o Sagaramāthā (Dio del Cielo) ma che voi probabilmente assocerete al termine d’uso internazionale, attribuito dal governatore inglese dell’India nel 1865, monte Everest. Un aspetto, quest’ultimo, che si riflette chiaramente nel nome e nella storia del suo improbabile aeroporto…

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BD-5: il lungo decollo di un micro-aereo a reazione

Per tutte le trappole in cui si rischia d’incorrere a causa del moderno approccio all’acquisto anticipato, mediante iniziative come il finanziamento sul web, la prenotazione, il preordine di un pezzo tecnologico dalle caratteristiche non chiare, c’è una ragionevole certezza in grado di offrire stabilità ai nostri cuori: quando finalmente il corriere consegnerà il pacco e noi ci metteremo ad aprirlo, con taglierino alla mano, almeno non staremo firmando il primo capitolo di una nostra possibile condanna a morte. Il che non poteva forse essere detto con comparabile certezza di tutti coloro che nel febbraio del 1971, dopo una spietata campagna pubblicitaria sulle principali riviste statunitensi del settore scientifico e ingegneristico con vivaci ed attraenti illustrazioni, inviarono il proprio acconto di 200 dollari affinché il proprio nome venisse messo in cima alla lista, gelosamente custodita dalla più nuova compagnia produttrice d’aerei iscritta nel lungo elenco delle Pagine Gialle. Frutto di un sogno e una visione, certamente disallineata dal diffuso sentire del vivere comune: che tutti coloro che ne avevano desiderio, per interesse o predisposizione personale, potessero spendere una cifra ragionevole per mettere un aereo dalle prestazioni più o meno “militari” nel proprio garage. Il che costituiva il sogno, e che sogno, di niente meno che l’eponimo Jim Bede (1933-2015) progettista aeronautico laureato all’Università di Wichita, il quale aveva saputo individuare, non senza un rilevante volo pindarico d’occasione, una delle spese maggiormente significative nel pagamento inerente della considerevole manodopera, messa in campo dalle fabbriche nell’assemblaggio finale di due ali, una coda, un motore… Laddove chiunque ne possedesse l’inclinazione poteva, almeno in teoria, occuparsi personalmente di un tale passaggio procedurale dalla complessità molto spesso sopravvalutata. Purché l’oggetto del desiderio venisse fornito completo di tutti i componenti, chiare istruzioni e una metodologia testata, ovvero appartenesse, in altri termini, all’eclettica categoria dei kit planes.
Costruirsi un aereo in casa: un proposito capace di affascinare molti di noi purché successivamente, come inquietante conseguenza del tutto, non ci si ritrovi anche a pilotarlo, magari a un qualche centinaio di metri dal suolo. Eppure notevole era stato il successo a partire dal 1961, di vendite, recensioni e affidabilità, dell’ormai leggendario BD-1, aeroplano in scatola di montaggio dall’ala alta (come un Cessna) e il design estetico convenzionale, prima che gli azionisti della sua compagnia votassero per espellerne il fondatore, con il più tipico dei tradimenti nel mondo spietato degli affari. Così già mentre la Bede Aviation cambiava nome in un più generico American Aviation, egli fu costretto a fondare una diversa e rinnovata Bede Aircraft, dalla cui cabina metaforica di pilotaggio avrebbe donato al mondo il BD-4 nel 1968, una versione perfezionata della stessa idea di base. Già iniziando a delineare allo stesso tempo, dentro i meandri della sua stessa fervida mente, le caratteristiche di quello che avrebbe costituito a detta di molti il suo più innegabile capolavoro: il fenomenale BD-5, un aereo a spinta dal peso unitario di appena 160 Kg, praticamente poco più del doppio del pilota contenuto al suo interno. O forse sarebbe meglio dire “compresso” in quell’incredibile cabina protetta da una bolla aerodinamica trasparente, non dissimile dal tipo di soluzione utilizzata in tanti aerei da combattimento della seconda guerra mondiale. Ma i punti forti elencati nelle stravaganti pagine pubblicitarie non finivano certo qui, data l’insolita configurazione con elica a spinta, generalmente riservata ai più irraggiungibili e costosissimi tra i prototipi, il tutto consegnato a casa in pratica scatola di montaggio per la ragionevole cifra di poco meno di 3.000 dollari dei primi anni ’70, ovvero circa 17.000 una volta adattati per l’inflazione corrente. Aprendo una strada, inoltre, a un qualcosa di straordinariamente inaspettato e privo di termini di paragone nel settore per così dire “casalingo”: l’iniziativa collaterale di sostituire, in una fase successiva, un simile motore retroattivo con un vero e proprio jet. Per sentirsi un po’ tutti, alla stregua di veri e propri Chuck Yeager delle supersoniche circostanze…

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La folle idea del pilota di caccia sdraiato in avanti

Sopra i cieli della Corea in fiamme, il grido silenzioso di un cranio volante. Compiendo evoluzioni dalla tecnica perfetta, esso insegue i suoi nemici, li raggiunge quando sembra troppo tardi, quindi allineandoli perfettamente al centro delle orbite oculari, lascia scaturire l’energia delle mitragliatrici. Attorno al cranio c’è un casco. Dietro ad esso, ben nascosto, un corpo umano! E a proteggerli, un aereo, anche se il suo stesso pilota non riesce a vederlo vederlo. Così terribile il suo strale, spaventosa la furia: nel corridoio aereo storicamente noto come il Mig Alley, dove i russi combattevano ferocemente gli americani ed alleati nei rudimentali primi jet da guerra con la loro straordinaria varietà di forme e soluzioni aerodinamiche, tale “mostro” avrebbe disegnato la leggenda di un eroe.
O almeno, ciò costituiva il sentimento di partenza in quel remoto 1950, quando ai vertici della RAF britannica qualcuno, oggi rimasto privo di un nome nelle cronache, iniziò a pensare che i piloti addestrati a difendere i confini più importanti dell’Impero decaduto non riuscissero a virare in modo sufficientemente stretto, a salire abbastanza rapidi, per quel fastidioso limite costituito dal cosiddetto G-LOC. Avete presente? Quel momento in cui superi i 4-5 g di accelerazione trasversale (ovviamente, i limiti variano da caso a caso) e tutto il sangue dal cervello tende a scendere giù, giù verso i piedi. Facendo perdere qualsivoglia pretesa di controllo dell’aereo. Problema trascurabile con la tecnologia moderna, che permette d’indossare le speciali tute di volo con calzoni gonfiabili, che permettono di limitare l’occorrenza del fenomeno. Ma verso la metà dello scorso secolo benché esistessero alcuni modelli, proprio ciò costituiva il condizionamento più stringente per la performance dei guerrieri dei cieli, ancora restii ad adottare su larga scala un sistema tanto contro-intuitivo. Ecco dunque, una possibile soluzione: se tirare verso di se la cloche causava svenimenti e l’occasionale impatto rovinoso col suolo, perché non mettere l’addetto a manovrarla in posizione perpendicolare all’asse di virata, ovvero in altri termini, in posizione prona? Certo, un’idea non facilissima da realizzare. Tanto che una volta coinvolto l’Istituto di Medicina Aeronautica della RAF attorno al 1951 per confermare la teoria, ingegneri consumati vennero messi al lavoro su un vecchio modello di Reid and Sigrist R.S.3 con il suo doppio motore a pistoni, per il quale venne elaborato un complesso letto regolabile, capace di mantenere il fortunato collaudatore in posizione adatta al volo, anche nel corso delle più vertiginose ed improbabili manovre. E venne anche effettuato qualche prova pratica, benché fosse evidente che nell’epoca contemporanea, un velivolo siffatto potesse servire a ben poco nel corso di un combattimento aereo. E fu così che nel giro di un paio d’anni circa, i capi del progetto sostituirono la vecchia carretta con uno sfavillante & spaventoso jet Gloster Meteor F8, esattamente l’ultimo ad essere stato prodotto, per essere precisi, dai vasti stabilimenti della Armstrong-Whitworth in quel di Elswick, Newcastle sul Tyne. Passaggio a seguito del quale ci si rese ben presto conto di come a conti fatti, nessun abitacolo orizzontale avrebbe potuto trovare posto nell’affusolato e stretto muso dell’aereo. Fortuna che era sempre percorribile la strada dell’allungamento…

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Da BOR a Dream Chaser: il lungo viaggio di una “scarpa” spaziale

La notizia risale a circa una settimana fa, benché abbia avuto una risonanza non propriamente altissima tra i diversi canali dell’informazione generalista: il progetto per un nuovo velivolo prodotto interamente negli Stati Uniti dalla compagnia privata Sierra Nevada Corporation, da usare per portare personale o rifornimenti alla meta distante della Stazione Spaziale Internazionale che orbita sopra le nostre teste, ha finalmente passato lo stadio progettuale identificato dalla NASA con la dicitura arbitraria di IR5. Il che significa che completato il piano di fattibilità, i primi test di volo controllato e le ultime revisioni dei sistemi di supporto, potrebbe entrare ben presto nella fase finale di prototipazione, aprendo la strada verso una futura quanto imminente entrata in servizio operativa. Certo, nella lunga e arzigogolata storia dell’ente nato come National Advisory Committee for Aeronautics (NACA) nell’ormai remoto 1958 ci sono stati progetti fermati anche successivamente a una fase così relativamente avanzata. Detto ciò parrebbe comunque ragionevole affermare, giunti a questo punto, che ben presto qualcosa di nuovo solcherà il distante cielo notturno delle nostre più cosmiche aspirazioni. Ma siamo davvero sicuri, che questo concetto possa essere definito del tutto “nuovo”?
Esiste una leggenda ripetuta occasionalmente, in determinati ambienti vicini al complicato proposito dell’esplorazione spaziale, secondo cui l’ambasciatore russo, durante un ricevimento negli Stati Uniti verso la prima metà degli anni ’80, sarebbe stato posto di fronte alla questione del recente aereo spaziale Buran da un membro della commissione politica incaricata di supervisionare il lavoro della NASA. In merito alla questione, ormai largamente di dominio pubblico, per cui il nuovo aereo orbitale dell’Unione Sovietica, nome in codice Buran (come il terribile vento del Settentrione) fosse straordinariamente simile, nell’aspetto ed assai probabilmente anche nel funzionamento, alla linea del già iconico Space Shuttle, recentemente presentato alla stampa e prossimo a spiccare per la prima volta pubblicamente il volo. Al che l’uomo venuto dal freddo avrebbe risposto, o almeno così racconta l’aneddoto: “Mio caro amico, se anche il mio paese stesse producendo qualcosa di simile, davvero non riesco a capire che cosa possa esservi di tanto sorprendente. È la pura e semplice realtà dei fatti, che le leggi della fisica siano essenzialmente le stesse per tutti noi.”
Aspetto, aerodinamica, funzione. Così come l’evoluzione delle forme di vita su questo pianeta tende a convergere verso particolari configurazioni e sistemi biologici, perseguiti in maniera variabile da specie anche notevolmente diverse tra loro, esistono effettivamente determinate linee guida nel mondo della tecnologia, che indipendentemente dai (certamente legittimi) sospetti di attività spionistica di settore, tendono a instradare ed incapsulare l’intento creativo delle distanti equipe scientifiche ed ingegneristiche, indipendentemente dalla distanza geografica che le separa. E ciò risulta nei fatti tanto più vero, quanto difficile, e al tempo stesso remoto, può essere definito l’obiettivo bersaglio alla fine dell’ideale tragitto che ci si propone di perseguire. Così non fuoriesce del tutto dall’inclusivo ventaglio degli scenari alternativi, una risposta da parte dell’ambasciatore, indispettito dalle sottintese accuse non del tutto prive di fondamento, sulla falsariga di: “E invece voi?”
Il che non dovrebbe idealmente rappresentare in alcun modo una sorta di fanciullesca ripicca ai nostri occhi ed orecchie potenzialmente disinformati, quando si considera il modo in cui un altro paese del Blocco Occidentale, con innegabile e fondamentale mandato statunitense, era stato colto in flagrante mentre fotografava nel 1982 con un aereo spia P-3 Orion le delicate operazioni di recupero nell’Oceano Pacifico di un vero e proprio oggetto volante non identificato, dotato di grossi galleggianti dalla colorazione arancione che sembravano riconfermare il più preoccupante di tutti i possibili sospetti: quello che fosse appena rientrato nell’orbita, dimostrando un’almeno momentanea superiorità (di nuovo) della tecnologia Sovietica finalizzata ad acquisire la temutissima superiorità spaziale. Mentre ciò che i fotografi stratosferici effettivamente non potevano ancora sapere, era che il velivolo momentaneamente soggetto a uno stato continuativo di galleggiamento non costituiva altro che un mero prototipo in scala ridotta, di quello che doveva diventare in seguito il Mikoyan-Gurevich MiG-105, correntemente ancora allo stato primordiale di BOR (БОР, ovvero: Aerorazzo Orbitale Senza Pilota) forse il più imponente, e costoso aereo radiocomandato mai costruito fino a quel drammatico e significativo momento. Un letterale predecessore, di un periodo di oltre 10 anni, rispetto al progetto portato fino alle più estreme conseguenze da parte degli americani a partire dall’aereo X-15, per quel letterale “autobus” o “traghetto” ricoperto di mattonelle refrattarie (lo Shuttle) che potesse raggiungere le più alte vette dell’orbita planetaria per poi atterrare di nuovo, senza la benché minima difficoltà, presso un qualsiasi comune aeroporto di questa Terra. Ora ovviamente, come esemplificato dalla situazione descritta poco fa, quest’ultimo passaggio necessitava ancora di qualche piccolo perfezionamento. Ma la natura considerata essenziale di quello che i russi chiamavano “Progetto Spiral” non poteva che essere ulteriormente esemplificata dal curioso nomignolo che si era diffuso tra gli ampi strati di tecnici e commissari incaricati di supervisionare l’ampia e complicata faccenda: Lapot (лапоть) ovvero un particolare tipo di scarpa nazionale, ricavata dagli esterni della corteccia di un albero di betulla. Giudicate un po’ voi, il perché…

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