Per tutte le trappole in cui si rischia d’incorrere a causa del moderno approccio all’acquisto anticipato, mediante iniziative come il finanziamento sul web, la prenotazione, il preordine di un pezzo tecnologico dalle caratteristiche non chiare, c’è una ragionevole certezza in grado di offrire stabilità ai nostri cuori: quando finalmente il corriere consegnerà il pacco e noi ci metteremo ad aprirlo, con taglierino alla mano, almeno non staremo firmando il primo capitolo di una nostra possibile condanna a morte. Il che non poteva forse essere detto con comparabile certezza di tutti coloro che nel febbraio del 1971, dopo una spietata campagna pubblicitaria sulle principali riviste statunitensi del settore scientifico e ingegneristico con vivaci ed attraenti illustrazioni, inviarono il proprio acconto di 200 dollari affinché il proprio nome venisse messo in cima alla lista, gelosamente custodita dalla più nuova compagnia produttrice d’aerei iscritta nel lungo elenco delle Pagine Gialle. Frutto di un sogno e una visione, certamente disallineata dal diffuso sentire del vivere comune: che tutti coloro che ne avevano desiderio, per interesse o predisposizione personale, potessero spendere una cifra ragionevole per mettere un aereo dalle prestazioni più o meno “militari” nel proprio garage. Il che costituiva il sogno, e che sogno, di niente meno che l’eponimo Jim Bede (1933-2015) progettista aeronautico laureato all’Università di Wichita, il quale aveva saputo individuare, non senza un rilevante volo pindarico d’occasione, una delle spese maggiormente significative nel pagamento inerente della considerevole manodopera, messa in campo dalle fabbriche nell’assemblaggio finale di due ali, una coda, un motore… Laddove chiunque ne possedesse l’inclinazione poteva, almeno in teoria, occuparsi personalmente di un tale passaggio procedurale dalla complessità molto spesso sopravvalutata. Purché l’oggetto del desiderio venisse fornito completo di tutti i componenti, chiare istruzioni e una metodologia testata, ovvero appartenesse, in altri termini, all’eclettica categoria dei kit planes.
Costruirsi un aereo in casa: un proposito capace di affascinare molti di noi purché successivamente, come inquietante conseguenza del tutto, non ci si ritrovi anche a pilotarlo, magari a un qualche centinaio di metri dal suolo. Eppure notevole era stato il successo a partire dal 1961, di vendite, recensioni e affidabilità, dell’ormai leggendario BD-1, aeroplano in scatola di montaggio dall’ala alta (come un Cessna) e il design estetico convenzionale, prima che gli azionisti della sua compagnia votassero per espellerne il fondatore, con il più tipico dei tradimenti nel mondo spietato degli affari. Così già mentre la Bede Aviation cambiava nome in un più generico American Aviation, egli fu costretto a fondare una diversa e rinnovata Bede Aircraft, dalla cui cabina metaforica di pilotaggio avrebbe donato al mondo il BD-4 nel 1968, una versione perfezionata della stessa idea di base. Già iniziando a delineare allo stesso tempo, dentro i meandri della sua stessa fervida mente, le caratteristiche di quello che avrebbe costituito a detta di molti il suo più innegabile capolavoro: il fenomenale BD-5, un aereo a spinta dal peso unitario di appena 160 Kg, praticamente poco più del doppio del pilota contenuto al suo interno. O forse sarebbe meglio dire “compresso” in quell’incredibile cabina protetta da una bolla aerodinamica trasparente, non dissimile dal tipo di soluzione utilizzata in tanti aerei da combattimento della seconda guerra mondiale. Ma i punti forti elencati nelle stravaganti pagine pubblicitarie non finivano certo qui, data l’insolita configurazione con elica a spinta, generalmente riservata ai più irraggiungibili e costosissimi tra i prototipi, il tutto consegnato a casa in pratica scatola di montaggio per la ragionevole cifra di poco meno di 3.000 dollari dei primi anni ’70, ovvero circa 17.000 una volta adattati per l’inflazione corrente. Aprendo una strada, inoltre, a un qualcosa di straordinariamente inaspettato e privo di termini di paragone nel settore per così dire “casalingo”: l’iniziativa collaterale di sostituire, in una fase successiva, un simile motore retroattivo con un vero e proprio jet. Per sentirsi un po’ tutti, alla stregua di veri e propri Chuck Yeager delle supersoniche circostanze…
Il progetto originario del BD-5 andò tuttavia fin da subito, diversamente dai suoi predecessori, incontro a una lunga serie di ritardi e problematiche organizzative. In primo luogo per l’inclusione, nel suo primo prototipo, di una coda dalla caratteristica ed esteriormente appagante coda a V, in grado di causare non pochi problemi alla stabilità del velivolo in quota. Un altro problema fu, fin da subito, la difficoltà nel trovare un motore adeguato. John Bede aveva infatti, fin dal primo momento, disegnato il proprio aeroplano a partire dall’immagine ideale che ne possedeva, piuttosto che venire condizionato da mere considerazioni logistiche, il che lo ridusse dapprima ad affidarsi al know-how tecnologico della Polaris Industries, azienda produttrice di gatti delle nevi. Il loro impianto dunque, dalla potenza di appena 36 cavalli, si rivelò certamente affidabile ma tutt’altro che entusiasmante, portando nonostante la leggerezza dell’aeromobile a non pochi rischi in fase di decollo. La seconda versione del prototipo a questo punto, denominata N501BD, venne fornita di un più performante Kiekhaefer Aeromarine, quindi sostituito ancora dal più costoso Hirt Motoren da 40 hp. Venne infine prodotto una terzo prototipo, grazie al quale Bede determinò l’inadeguatezza delle ali di tipo A previste per la prima delle due versioni del kit, troppo strette ed affusolate per garantire prestazioni di volo sufficientemente sicure. Il calendario nel frattempo era andato avanti all’anno successivo, verso la fine di un 1972 di clienti ormai comprensibilmente spazientiti e in parte desiderosi di recuperare l’anticipo della somma pattuita. Entro la metà del 1973, quindi, gli aerei iniziarono ad essere consegnati in tutta fretta, benché forniti nella più larga parte delle ali e del motore originariamente previsti originariamente, dimostrandosi del tutto inadeguati. Gli incidenti, assai prevedibilmente, non tardarono ad arrivare: dei 5.100 kit venduti, si calcola che soltanto alcune centinaia vennero effettivamente completati, tra cui quattro esempi sfortunatamente dotati del motore meno potente e le ali più sottili, che finirono tutti per schiantarsi, tre dei quali uccidendo sul colpo il proprio pilota. Dei primi 25 in assoluto, altri 14 precipitarono in varie circostanze più o meno subito, con un totale di 9 vittime complessive tra gli spericolati ed a quanto sembrava, del tutto impreparati costruttori fai-da-te. Fu scoperto in seguito che molti dei ritardi subiti dal processo produttivo dei BD-5 erano stati causati dall’investimento collaterale di una parte delle somme investite dai clienti da parte del fondatore della compagnia in un progetto segreto di sua concezione. E quel progetto era per l’appunto il BD-5J (dove la J indicava, per inciso, niente meno che la parola “jet”).
L’idea sfiorava l’impossibile e direi di ammetterlo, anche la più assoluta mancanza di ragionevolezza: consegnare a domicilio, e far montare a comuni cittadini privati, una macchina volante capace di raggiungere i 480 Km/h con una potenza di 225 lbf, forniti da una turbina Sermel TRS-18-046, con ali lievemente a freccia create a partire da una soluzione ibrida tra i tipi A e B. Tali bolidi vennero quindi effettivamente prodotti, in almeno qualche decina di esemplari, venendo tuttavia riservato ad un pubblico di veterani ed esperti del volo, tra cui piloti acrobatici, performers dinnanzi al pubblico con lo sguardo perpendicolarmente alzato e stuntmen dell’industria cinematografica. Fino alla famosa comparsa di uno di questi minuscoli jet nella scena d’apertura del film di James Bond del 1983 con Roger Moore 007 – Octopussy (Operazione Piovra) nel quale fuoriusciva a sorpresa dal retro di un rimorchio per il trasporto equino, permettendo alla super-spia inglese di fuggire rapidamente dagli inseguitori e un pericoloso missile a ricerca nemico. Altri due BD-5j diventarono, in epoca coeva, il duo di aeroplani Budweiser, usati per promuovere la famosa marca di birra negli eventi organizzati dalla compagnia. Detto ciò, alquanto prevedibilmente, la più alta percentuale di questi velivoli rimase vittima di una sensibile varietà d’incidenti, finendo per farne effettivamente dei pezzi di storia dell’aviazione piuttosto rari.
I ritardi evitabili nella consegna del BD-5 convenzionale assieme alla vasta serie d’incidenti, quindi, portarono le autorità della Federal Trade Commission a interdire John Bede dal vendere aerei in scatola di montaggio per un periodo di 10 anni, durante i quali la sua compagnia andò prevedibilmente in fallimento e molti dei velivoli non ancora completati finirono nel dimenticatoio, per la mancanza di supporto, pezzi di ricambio e supporto tecnico di un qualsivoglia tipo. Lungi dal perdersi d’animo, tuttavia, l’inarrestabile progettista d’aeroplani tornò nuovamente alla carica nel 1992 fondando la nuova compagnia Bede Jet Corporation, con la proposta di un kit plane denominato BD-10, dall’aspetto e le prestazioni comparabili a un Northrop T-38 Talon dell’aviazione americana. Evitando molti degli errori commessi in passato e progettando quindi l’intera struttura attorno ad un affidabile nonché facilmente reperibile motore a jet della General Electric J85, capace di garantire una consegna in tempo di tutti gli esemplari per i quali, ne era certo, gli ordini non sarebbero tardati ad arrivare. Ma nonostante gli ottimi risultati nelle prove tecniche dell’aereo, questa volta il lato commerciale dell’impresa non ebbe lo stesso successo, anche in forza di un diverso contesto economico e le aspirazioni mutevole degli appassionati di aeronautica. Forse la gente si era abituata, dopo tutto, a condurre la propria vita fino all’età avanzata, assemblando nel proprio garage oggetti dalle implicazioni meno irrimediabili e potenzialmente nefaste. Curioso: più i tempi cambiano, meno la gente assomiglia ai propri spericolati e volitivi progenitori. Forse a causa di una sostanziale perdita di fibra morale, che porta ad “immaginare” piuttosto che al “fare” le cose in primissima persona. Oppure potrebbe trattarsi, chi può dirlo? Del raggiungimento lungamente paventato di quel valore ultimo ed aleatorio, la lungamente ricercata consapevolezza della propria innegabile mortalità.
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