Da BOR a Dream Chaser: il lungo viaggio di una “scarpa” spaziale

La notizia risale a circa una settimana fa, benché abbia avuto una risonanza non propriamente altissima tra i diversi canali dell’informazione generalista: il progetto per un nuovo velivolo prodotto interamente negli Stati Uniti dalla compagnia privata Sierra Nevada Corporation, da usare per portare personale o rifornimenti alla meta distante della Stazione Spaziale Internazionale che orbita sopra le nostre teste, ha finalmente passato lo stadio progettuale identificato dalla NASA con la dicitura arbitraria di IR5. Il che significa che completato il piano di fattibilità, i primi test di volo controllato e le ultime revisioni dei sistemi di supporto, potrebbe entrare ben presto nella fase finale di prototipazione, aprendo la strada verso una futura quanto imminente entrata in servizio operativa. Certo, nella lunga e arzigogolata storia dell’ente nato come National Advisory Committee for Aeronautics (NACA) nell’ormai remoto 1958 ci sono stati progetti fermati anche successivamente a una fase così relativamente avanzata. Detto ciò parrebbe comunque ragionevole affermare, giunti a questo punto, che ben presto qualcosa di nuovo solcherà il distante cielo notturno delle nostre più cosmiche aspirazioni. Ma siamo davvero sicuri, che questo concetto possa essere definito del tutto “nuovo”?
Esiste una leggenda ripetuta occasionalmente, in determinati ambienti vicini al complicato proposito dell’esplorazione spaziale, secondo cui l’ambasciatore russo, durante un ricevimento negli Stati Uniti verso la prima metà degli anni ’80, sarebbe stato posto di fronte alla questione del recente aereo spaziale Buran da un membro della commissione politica incaricata di supervisionare il lavoro della NASA. In merito alla questione, ormai largamente di dominio pubblico, per cui il nuovo aereo orbitale dell’Unione Sovietica, nome in codice Buran (come il terribile vento del Settentrione) fosse straordinariamente simile, nell’aspetto ed assai probabilmente anche nel funzionamento, alla linea del già iconico Space Shuttle, recentemente presentato alla stampa e prossimo a spiccare per la prima volta pubblicamente il volo. Al che l’uomo venuto dal freddo avrebbe risposto, o almeno così racconta l’aneddoto: “Mio caro amico, se anche il mio paese stesse producendo qualcosa di simile, davvero non riesco a capire che cosa possa esservi di tanto sorprendente. È la pura e semplice realtà dei fatti, che le leggi della fisica siano essenzialmente le stesse per tutti noi.”
Aspetto, aerodinamica, funzione. Così come l’evoluzione delle forme di vita su questo pianeta tende a convergere verso particolari configurazioni e sistemi biologici, perseguiti in maniera variabile da specie anche notevolmente diverse tra loro, esistono effettivamente determinate linee guida nel mondo della tecnologia, che indipendentemente dai (certamente legittimi) sospetti di attività spionistica di settore, tendono a instradare ed incapsulare l’intento creativo delle distanti equipe scientifiche ed ingegneristiche, indipendentemente dalla distanza geografica che le separa. E ciò risulta nei fatti tanto più vero, quanto difficile, e al tempo stesso remoto, può essere definito l’obiettivo bersaglio alla fine dell’ideale tragitto che ci si propone di perseguire. Così non fuoriesce del tutto dall’inclusivo ventaglio degli scenari alternativi, una risposta da parte dell’ambasciatore, indispettito dalle sottintese accuse non del tutto prive di fondamento, sulla falsariga di: “E invece voi?”
Il che non dovrebbe idealmente rappresentare in alcun modo una sorta di fanciullesca ripicca ai nostri occhi ed orecchie potenzialmente disinformati, quando si considera il modo in cui un altro paese del Blocco Occidentale, con innegabile e fondamentale mandato statunitense, era stato colto in flagrante mentre fotografava nel 1982 con un aereo spia P-3 Orion le delicate operazioni di recupero nell’Oceano Pacifico di un vero e proprio oggetto volante non identificato, dotato di grossi galleggianti dalla colorazione arancione che sembravano riconfermare il più preoccupante di tutti i possibili sospetti: quello che fosse appena rientrato nell’orbita, dimostrando un’almeno momentanea superiorità (di nuovo) della tecnologia Sovietica finalizzata ad acquisire la temutissima superiorità spaziale. Mentre ciò che i fotografi stratosferici effettivamente non potevano ancora sapere, era che il velivolo momentaneamente soggetto a uno stato continuativo di galleggiamento non costituiva altro che un mero prototipo in scala ridotta, di quello che doveva diventare in seguito il Mikoyan-Gurevich MiG-105, correntemente ancora allo stato primordiale di BOR (БОР, ovvero: Aerorazzo Orbitale Senza Pilota) forse il più imponente, e costoso aereo radiocomandato mai costruito fino a quel drammatico e significativo momento. Un letterale predecessore, di un periodo di oltre 10 anni, rispetto al progetto portato fino alle più estreme conseguenze da parte degli americani a partire dall’aereo X-15, per quel letterale “autobus” o “traghetto” ricoperto di mattonelle refrattarie (lo Shuttle) che potesse raggiungere le più alte vette dell’orbita planetaria per poi atterrare di nuovo, senza la benché minima difficoltà, presso un qualsiasi comune aeroporto di questa Terra. Ora ovviamente, come esemplificato dalla situazione descritta poco fa, quest’ultimo passaggio necessitava ancora di qualche piccolo perfezionamento. Ma la natura considerata essenziale di quello che i russi chiamavano “Progetto Spiral” non poteva che essere ulteriormente esemplificata dal curioso nomignolo che si era diffuso tra gli ampi strati di tecnici e commissari incaricati di supervisionare l’ampia e complicata faccenda: Lapot (лапоть) ovvero un particolare tipo di scarpa nazionale, ricavata dagli esterni della corteccia di un albero di betulla. Giudicate un po’ voi, il perché…

La forma tozza e stondata caratteristica di molti aerei spaziali può essere ricondotta alla loro natura di corpi portanti, ovvero velivoli in cui il sostegno in aria è dovuto principalmente alla forma dell’intera carlinga, piuttosto che al piccolissimo, quasi ridicolo e proprio per questo assai più resistente paio d’ali.

Il problema di questa storia risalente all’epoca della guerra fredda, come del resto quello di molte altre vicende coéve, resta principalmente relativo al fatto di conoscere soltanto una campana delle due coinvolte in quella che potrebbe definirsi, a tutti gli effetti, una disputa sull’annoso argomento della proprietà intellettuale. Per tornare quindi all’aneddoto di apertura, nella nostra ipotetica conversazione tra i dignitari di due nazioni avverse l’americano avrebbe dunque potuto avanzare sul tavolo metaforico il nome ormai di dominio pubblico del Boeing X-20 Dyna-Soar, un altro velivolo a forma di scarpa che aveva ampiamente superato la linea di demarcazione dello stadio IR5 per quanto concerneva la committente NASA, soltanto per essere cancellato nel 1963 dai vertici del Congresso a causa del costo raggiunto di circa 660 milioni di dollari, senza che alcun progresso fosse stato compiuto verso il suo presunto (difficile) obiettivo di partenza: imparare a rimbalzare, letteralmente, oltre gli strati superiori dell’atmosfera terrestre, fuoriuscendo e rientrando più volte in essa, fino al raggiungimento pochi minuti dopo, come un sasso lanciato nello stagno, del suo obiettivo agli antipodi del sottostante globo terracqueo, sopra il quale sganciare un segreto CARICO (chissà di cosa mai avrebbe potuto trattarsi?) decapitando in siffatto modo il furioso avversario di quella che avrebbe potuto trasformarsi eventualmente in una vera e propria apocalisse nucleare.
Detto questo, il MiG-105 sovietico presentava alcune significative differenze con il Dyna-Soar, capaci di dimostrare un intento preliminare di tutt’altro e meno guerrafondaio tipo: in primo luogo, per il fatto che anche l’ipotizzata versione finale del più piccolo BOR radiocomandato (ne furono prodotti effettivamente 4, di grandezze differenti) avrebbe potuto contenere unicamente il singolo pilota, il che sembrava sottintendere più che altro l’impiego del velivolo come uno stadio intermedio verso la costruzione di un qualcosa di più grande e funzionale. In altri termini, proprio quello che sarebbe diventato, oltre vent’anni dopo, il fac-simile dello Space Shuttle, nome in codice Buran. Inoltre, se pure davvero derivasse da un qualche tipo di attività spionistica nei confronti della Boeing, lo spazioplano russo sembrava rappresentarne un ulteriore evoluzione: esso avrebbe dovuto raggiungere l’orbita, infatti, non più grazie a un ponderoso razzo dalla potenza paragonabile a quella di un costosissimo e non riutilizzabile Titan, bensì da una speciale nave madre fuoriuscita dalle officine della Tupolev (nome in codice OKB-156) il cui progetto sarebbe diventato, in seguito, la base per il bombardiere supersonico Sukhoi T-4 la quale l’avrebbe scagliato, come una freccia, assieme ad un razzo ausiliario destinato a precipitare verso l’oceano sottostante. Altrettanto interessante risultava essere il progetto per la piegatura diedrica delle ali, al fine di ridurre il profilo e conseguente surriscaldamento delle stesse durante il rientro nell’atmosfera. Ma come noi sappiamo fin troppo bene, entro l’epoca in cui un simile sentiero ancora allo stato preliminare avrebbe potuto trovare finalmente la propria realizzazione effettiva, l’Unione Sovietica si sarebbe trovata ad affrontare diversi e ben più significativi problemi. Lasciando il totale controllo agli Stati Uniti, ancora una volta, di quella che potremmo definire il perfetto negozio di calzature spaziali.

C’è sempre un fascino particolare nei rendering informatici risalenti agli albori di questa particolare forma di approccio progettuale e ingegneristico, frutto della prima tecnologia digitale. Particolarmente quando rappresentano un qualcosa che, NASA permettendo, potrebbe risultare risolutivo a distanza di quasi trent’anni da quella data.

Verso la fine degli anni ’80, in effetti, non possiamo che trovarci di fronte ad un qualcosa che costituisce un’ulteriore scalino verso le vette presto raggiunte dall’odierno Dream Chaser: la spazioplano aereo proveniente interamente dall’istituto ingegneristico della NASA a Langley, grazie alla più recenti applicazione delle prime teorie risalenti agli anni ’50 di R. Dale Reed, l’ingegnere pluripremiato e riconosciuto come primo teorico di un concetto di velivolo sviluppante la sua portanza grazie alla forma della carlinga stessa, in aggiunta a quella delle proprie ali. Il che è davvero insolito, quando si considera come l’HL-20 PLS (Personnel Launch System) non avrebbe effettivamente mai volato, costituendo per lo più un modello da mostrare orgogliosamente alla stampa, portato in tour nelle più diverse occasioni mondane e spesso ripreso mentre affascinanti figure in tuta spaziale si mettevano in posa da un lato all’altro della sua forma carica di significato.
Il ruolo proposto per l’HL-20, nei fatti, risultava chiaro: proporsi come principale mezzo di approvvigionamento e supporto per la Space Station Freedom, la Stazione Spaziale (non ancora Internazionale) fortemente voluta dall’allora presidente Ronald Reagan e costruita unicamente da mani americane, per garantirsi quella superiorità orbitale, considerata importantissima per la sopravvivenza, di cui avevamo fatto l’accenno nel nostro ipotetico scenario di guerra futura. Il che rendeva certamente ironico, non che significativo, il fatto che all’insaputa del grande pubblico lo spazioplano non fosse altro che una versione coi loghi e le insegne nazionali cambiate di quel modellino radiocomandato a forma di pantofola russa, fotografato dagli australiani nell’Oceano Indiano tanti anni prima. Ed ecco qualcosa che un ipotetico ambasciatore potrebbe rispondere, ancora oggi, tenendo bene a mente la forma del nuovissimo progetto della Sierra Nevada Corp: “Le leggi della fisica sono uguali per tutti, sia che si tratti di camminare in mezzo alla neve della Kamchatka, che scrutarla col cannocchiale dall’immensa vastità dell’orbita terrestre.” Ciò che serve, sempre e comunque, è l’occhio capace d’individuare una valida prospettiva. E una sufficiente quantità di corteccia di betulla, niobio, tungsteno o la formidabile lega di nickel capace di resistere ai 1200 gradi centigradi, nota come René 41…

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