L’annosa ed inspiegabile questione delle viti più antiche al mondo

Che la storia si svolga attraverso il ripetersi di una serie di cicli è una questione risaputa. Ciò che riesce più difficile da definire, è la lunghezza esatta di questi periodi relativamente uguali a loro stessi: Atlantide, Kitež , il continente perduto di Mu, le massicce ed inspiegabili mura di Nan Madol… Tutte ipotesi, o nell’ultimo caso una tangibile realtà, di antichi e ormai perduti agglomerati di persone, capaci di creare quello che saremmo inclini a definire una possibile approssimazione del concetto di civiltà. Anche senza l’intervento di fattori esterni, alieni e sovrannaturali ed anche in quel caso, quali sono esattamente gli strumenti per scartare a priori tali alternative possibilità? Laddove oggetti fuori dal contesto, a più riprese nella linea ideale disegnata dalla ricostruzione archeologica delle epoche, sembrano esulare da qualsiasi tentativo di spiegarli, integrarli o contestualizzarli sulla base di una logica apparente. OOPArt, li chiamano gli anglofoni: Out Of Place ARTifacts, “oggetti fuori posto”, così come risultò senz’altro essere, negli anni tra il 1991 e il 1993, una serie di minuti orpelli metallici, apparentemente ritrovati dai cercatori d’oro operativi nella parte orientale delle montagne degli Urali, tra i fiumi di Narada, Balbanyu e Kozim. Così come dettagliatamente riportato in una trattazione ufficiale, spesso citata dagli amanti delle teorie parascientifiche, dell’ente governativo moscovita ZNIGRI – Istituto Centrale di Geologia e Ricerca di Metalli Preziosi, aridamente intitolato rapporto n. 18/485. Dove l’improbabile diviene un fatto sostanzialmente acclarato, almeno in base a quanto riportato da quei pochi fortunati che si sono ritrovati a leggerne il contenuto, tra cui a quanto pare l’autore tedesco Hartwig Hausdorf, noto ufologo nonché sostenitore delle teorie sui pregressi contatti extra-terrestri.
D’altra parte, le foto provenienti dall’assurdo documento sembrerebbero aver goduto di una significativa circolazione, accompagnate dalla dettagliata descrizione del soggetto: una serie di oggetti del tutto indistinguibili da una vite dei nostri giorni, fatta eccezione per le dimensioni straordinariamente ridotte: da un massimo di 3 cm, fino a un minimo di 0,003 mm, perfettamente in linea con le proporzioni di un’assurda componentistica nanotecnologica, soprattutto considerato l’aspetto relativo delle tempistiche. In base alla profondità degli strati geologici all’interno dei quali è stato possibile fare il ritrovamento, infatti, gli scienziati dello ZNIGRI sarebbero stati capaci di datare approssimativamente questi oggetti: attorno ai 20.000 anni di età, con le stime più conservative in grado di farli risalire fino a 100.000. A rendere ancor più difficile lo spontaneo tentativo di spiegazione tramite un qualche tipo di formazione naturale, la varietà e tipologia di materiali utilizzati, tra cui il rame per gli esempi di maggiori dimensioni, e metalli rari e di difficile lavorazione per quelle più piccole, tra cui tungsteno e molibdeno.
Volendo escludere perciò l’idea che l’intera faccenda sia uno scherzo o falso storico di qualche natura (sempre possibile in simili circostanze) apparirà evidente come il tipo d’incertezze sollevate sia di un genere piuttosto arduo da spiegare con mere irregolarità e coincidenze. E non si può semplicemente capovolgere l’intera cronologia della vicenda umana sul pianeta Terra, senza una serie di prove inconfutabili dei nostri precedenti errori. Come ALTRE viti, in ALTRI luoghi…

Tra i molti affascinati studiosi a distanza delle viti degli Urali e di Kaluga, nessuno sembrerebbe essersi posto l’interrogativo primario: se siamo di fronte a un qualche tipo di antico meccanismo, che fine avrà mai fatto il dado? E la rondella?

La Russia è quel paese che occupando un territorio particolarmente vasto, finisce per costituire spesse volte il luogo di un portale adatto a percepire la realtà con lenti o vari tipi di finestre utopiche o trasformative. Del tipo tanto spesso ricercato, attraverso le sue pregresse avventure, da un altro seguace delle cosiddette teorie alternative sui trascorsi epocali, lo studioso eclettico Vadim Alexandrovich Chernobrov, fondatore del gruppo ufologico Kosmopoisk. La cui tesi per certi versi più interessante, oltre che effettiva pertinenza relativa al qui presente oggetto della trattazione, si colloca attorno al 1995, quando poco dopo il misterioso ritrovamento degli OOPArt degli Urali si trovo in maniera non del tutto accidentale a contribuire alla disquisizione con un suo importante, quanto inaspettato contributo. Durante le sue lunghe peregrinazioni per il paese, compiute assieme a un gruppo di seguaci utilizzando principalmente il metodo dell’autostop, egli raccontò allora di essersi trovato nell’oblast di Kaluga, nella Russia Europea centrale, di fronte a un altro esempio di componentistica meccanizzata risalente ad epoche ormai trascorse. Una seconda serie di viti, in questo caso non metalliche e dalle dimensioni più convenzionali rispetto ai minuscoli esempi del fiume Narada, perfettamente racchiuse all’interno di solide concrezioni rocciose, databili secondo le nozioni dell’odierna geologia attorno a un periodo di 300 milioni di anni fa. Ovvero pari, grosso modo, all’Era in cui la forma dell’originale Pangea terrestre cominciava a separarsi, rendendo ancor più arduo qualsivoglia tentativo di giustificarne l’esistenza grazie alla pregressa opera di antiche civiltà dimenticate. Sebbene almeno in questo caso, il tentativo di attribuire lo strano ritrovamento a un processo naturale risulti essere decisamente più percorribile. Come già fatto per situazioni simili e grazie all’effettiva considerazione di una certa tipologia di fossili, risultante da una classe di animali capaci di costituire la stragrande maggioranza delle forme di vita verso la fine del Paleozoico, coerente alle viti mistiche di Chernobrov. Che in tal caso non avrebbero rappresentato affatto la componentistica di alcun tipo di macchina primordiale, bensì la copia pietrificata del fusto centrale di un crinoide (cl. Crinoidea) ovvero quel tipo di echinoderma, imparentato con ricci e stelle marine, che oggi siamo soliti chiamare giglio di mare. Creatura evolutasi per occupare una precisa nicchia ecologica, tutt’ora esistente, che consiste nel filtrare passivamente l’acqua di mare mentre se ne sta saldamente attaccata ad uno scoglio o altro solido elemento del fondale. Mentre il suo lungo collo oscilla sinuoso nella corrente. Ed è soltanto prendendo in analisi altri fossili di questa stessa provenienza, che l’intera probabilità della questione inizia a spostarsi decisamente verso l’asse della normalità, almeno per quanto concerne l’OOPArt dell’oblast di Kaluga, soltanto in apparenza produttivo in merito alla coltivazioni di particolari correnti contro-culturali o visioni alternative che in determinati ambienti tendono a farsi dogmatiche, con gli appassionati che farebbero di tutto pur di giungere a giustificare la propria idea. Non che tutto ciò risulti sufficiente, d’altra parte, ad acquietare le insistenti voci sull’occulta viteria dei primordi…

La somiglianza con il tipico fossile di Crinoide non dovrebbe essere sottovalutato. Sebbene non si abbia notizie di alcun processo geologico capace di trasformare il carbonato di calcio in metallo.

Sarebbe perciò un chiaro segno d’incompletezza, mancare di citare a questo punto della trattazione un ulteriore e più recente esempio incluso in questa linea ideale di stranezze, questa volta originario della prefettura cinese del Lanzhou, con data risalente all’anno 2002. Quando alcuni geologi del Bureau delle Risorse del Gansu, assieme al dipartimento scientifico dell’università locale, si sono trovati grazie alla chiamata dello scopritore Zhilin Wang alle prese con un altro gruppo di concrezioni, anch’esse databili all’epoca Paleozoica, contenenti una serie di ciò che possiamo soltanto definire come delle viti dalla forma conica, del tipo usato per montare i mobili a parete. Della lunghezza di 6 cm ed un peso di 466 grammi, costruite questa volta in metallo, apparentemente di provenienza meteorica e composizione non del tutto acclarata. Nozioni vaghe, e particolarmente ardue da confermare, come spesso avviene in merito a qualsiasi aspetto collegato al mondo assai stigmatizzato delle pseudoscienze, anche quando prove tanto acclarate dovrebbero spostare la discussione all’interno di ambiti maggiormente formali e produttivi d’idee. Una volta scartato l’improbabile arrivo degli UFO, o superata l’eccessivamente vaga concezione di avanzatissime perdute civiltà, tutto quello che ci resta in mano è un qualcosa che semplicemente non dovrebbe esistere. Eppure, molto chiaramente, dovrebbe esulare dall’interesse di persone appartenenti a circostanze e nazionalità così diverse tra loro, seppur avessero desiderato stare al centro dell’attenzione mediatica, semplicemente perché metodi maggiormente efficaci avrebbero potuto palesarsi nei loro trascorsi. Perché chi mai penserebbe di falsificare, tra tante possibili alternative, una vite?

Costituendo una combinazione del fattore antichità e quello dei materiali metallici dei due casi russi, le trivelle cinesi sembrerebbero appartenere alla casistica di più ardua spiegazione. Forse proprio per questo, risultano essere le meno documentate.

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