La grande guerra e l’inanimata congrega germanica dei cavalieri chiodati

15 marzo 1915: l’Arciduca Leopoldo d’Austria in persona, accompagnato dagli ambasciatori di Germania e Turchia a rappresentare i suoi principali alleati, sale su un palco nella Schwarzenbergplatz di Vienna. Di fronte a lui, la statua in legno di tiglio di un cavaliere senza volto in armatura, creata dall’artista Josef Müllner. Tra il silenzio reverenziale dei presenti, dunque, il capo di stato prende in mano quello che pare a tutti gli effetti un chiodo da cantiere, mentre con l’altra stringe un grosso martello. Tra l’atmosfera elettrica ed un pesante silenzio reverenziale, riverberano dunque due, tre colpi. La testa piatta del cuneo metallico, saldamente infissa, orna adesso il petto dell’armatura. Ora gli altri uomini politici presenti procedono, uno dopo l’altro, a fare lo stesso. Al completamento del terzo exploit, la gente applaude e un grosso libro mastro viene portato sul palco. Qualcuno piange per la commozione, altri gridano slogan ed esultano chiassosamente. Un apposito banco venditore di chiodi, guardato a vista dai soldati, inizia a raccogliere le offerte dai presenti per l’onore di poter imitare i potenti…
La stanchezza di guerra è quella condizione in grado di condizionare un paese, per cui non soltanto i militari ma le stesse persone comuni cominciano a dubitare delle proprie possibilità di vincere un conflitto, lasciando serpeggiare tra il popolo un senso di diffuso malcontento ed apatia produttiva. Comune sin dai tempi antichi a quelli correnti, al punto da dimostrare come, una volta che comincia a prendere piede tale processo, si tratta normalmente di un declino inesorabile, capace di contribuire in senso significativo alla disfatta che esso stesso finisce per agevolare. Particolarmente pervicace e difficile da eradicare essa diventa, inoltre, quando all’accendersi dell’ostilità era stato ripetutamente dichiarato che la vittoria avrebbe arriso ai propri uomini nel giro di pochissimo tempo, come credevano i tedeschi e gli austro ungarici nel 1914 dopo l’avanzata sull’Aisne, la battaglia delle Frontiere i trionfi a Mons, Los e Champagne. Eppure per ogni conflitto vinto, ad ogni metro conquistato, una nuova trincea della Triplice Intesa si frapponeva tra i generali e gli obiettivi di maggiore importanza, favorendo il poderoso attrito che sembrava caratterizzare quel drammatico momento tecnologico nelle campagne militari moderne. Così il morale declinava e assieme ad esso la solidità del cosiddetto fronte interno, potenzialmente destinato ad entrare in gioco al palesarsi di una sfortunata progressione degli eventi, così come la Prussia Orientale era già stata invasa, brevemente, all’inizio di quello stesso anno. E ci sarebbe voluto fino a marzo del 1915 perché agli esperti uomini della propaganda politica, gli artisti militari e gli scultori di larga fama venisse in mente un approccio notevole, quanto insolito, ad arginare l’accentuato dilagare del disfattismo. Erano le kriegsnagelungen, o in termini meno agglutinanti, le “inchiodature di guerra”. Ritualità dal senso antico ma uno scopo pratico marcatamente, innegabilmente asservito al pragmatismo dei nostri giorni…

Si ritiene dunque che l’usanza pagana d’inchiodare gli alberi, già diffusa in molte civiltà primitive, abbia raggiunto l’apice nell’area mitteleuropea durante il periodo medievale. Quando, nonostante la venuta del cristianesimo, la povera gente continuava a credere di poter esorcizzare il malocchio, chiamare la fortuna o curare malattie croniche trasferendo tutto il male a un legno vivo situato nel profondo della foresta. Un luogo mistico ed antico, così come figurava quella fuori dalla stessa città di Vienna nel XV o XVI secolo, quando si ritiene venne dato inizio alla costituzione del celebre Stock im Eisen o “Bastone di Ferro”, il nucleo centrale di un abete ornato da tre cerchi ribattuti, un grosso lucchetto non funzionante e letterali centinaia, se non migliaia di chiodi. Essendo giunto a costituire, lungo l’estendersi dei secoli, un importante talismano cittadino al punto da giustificare in tempi più recenti la costruzione di una teca di vetro sull’angolo del Palais Equitable, dove si trova esposto ed ammirato dai turisti, commemorando l’originale pratica, mai davvero scomparsa del tutto dal corpus indistinto del senso comune. Immaginate, in tal senso, il valore che poteva avere anche un singolo chiodo in epoca pre-moderna, avvicinando di fatto la laboriosa prassi al concetto largamente diffuso di gettare monete all’interno di una fontana o uno stagno. In modo analogo a quanto rievocato e messo in pratica all’inizio del secolo scorso, quando l’approccio popolare delle kriegsnagelungen dilagò in lungo e in largo nei territori delle Potenze Centrali su consiglio e con il beneplacito del governo, proprio a partire dal successo e la considerevole quantità di fondi raccolti in occasione della sopra descritta cerimonia del Wehrmann im Eisen (Cavaliere di Ferro) viennese. Con un esempio particolarmente celebre a Berlino nella statua alta ben 12 metri del cancelliere Hinderburg, eretta temporaneamente innanzi alla Colonna della Vittoria nella Königsplatz, che allora si trovava di fronte al parlamento. O ancora il celebre orso con la spada tra i denti di Berndorf, capace di evocare al tempo stesso lo stemma cittadino e un senso collettivo di belligerante appartenenza, mentre si procedeva a ricoprire di ferro la sua scorza lignea esterna. Nonché la schiera d’indistinti cavalieri ed uomini d’arme, generalmente rappresentati con la celata abbassata e privi di un volto, posti in essere nei più svariati centri cittadini e villaggi del territorio imperiale. Soltanto in seguito e con l’affermarsi delle procedure di raccolta fondi con relativa pressione sociale a contribuire, strutturalmente non diverse da quelle della campagna “Ho dato l’oro per il ferro” consistente allo scambio della fede nuziale con una controparte priva di valore, si scoprì come un maggior supporto potesse essere ottenuto tramite la realizzazione scultorea come base per i chiodi di stemmi, emblemi sugli scudi ed altre figure inanimate quali sommergibili ed incrociatori, contrastando l’innata riluttanza del pubblico a compiere un gesto d’aggressione contro effigi antropomorfe o animali. Per quanto esse dovessero rappresentare, idealmente, l’odiato nemico. Dopo le prime significative battute d’arresto nella macchina bellica austro-tedesca, ragionevolmente individuabili nella tragica ed inconcludente battaglia della Somme del 1916, il registro delle campagne di kriegsnagelungen cambiò dunque nuovamente. Non più chiedendo soldi ai partecipanti per armi e munizioni, bensì al fine di tutelare gli orfani e le vedove di guerra, o costruire gloriosi monumenti a i caduti. All’interno o in prossimità dei quali, in seguito, veniva disposta la stessa effige chiodata. Persino le istituzioni scolastiche diedero il proprio contributo con le cosiddette schulnagelungen, capaci di fruttare complessivamente circa 2,5 milioni di marchi a scopo largamente commemorativo ed umanitario. Con lo stesso spirito l’armigero viennese avrebbe dunque ricevuto sul suo plinto l’iscrizione, all’inizio degli anni Trenta: “Il cavaliere ci ricorda un tempo in cui l’amore e la misericordia erano inesauribili, così come la sofferenza della guerra!”

È inutile sottolineare come la materiale raccolta di denaro per simili iniziative, pagato dal pubblico in cambio dei chiodi venduti a un prezzo giustificatamente maggiorato, potesse in effetti contribuire ben poco alle considerevoli risorse necessarie per condurre una guerra su fronti multipli allo stesso tempo. Ragion per cui l’iniziativa della chiodatura cavalleresca aveva, nella maggior parte dei casi, lo scopo principale di salvare le apparenze, dando ai civili rimasti in patria la sensazione di stare facendo qualcosa, per lo meno, al fine di salvaguardare nel momento più difficile i confini del proprio affaticato paese. Ed in tal senso possono essere chiamati un successo, sebbene il tentativo di ricreare il fenomeno, effettuato all’inizio della seconda guerra mondiale dal governo del Terzo Reich, avrebbe finito per dimostrarsi notoriamente inconcludente. Forse si era ormai incrinato quello spirito di corpo e d’unione collettiva per uno scopo manifesto, sostituito dall’adorazione incondizionata dell’immagine di un leader, giudicato all’epoca il nucleo infallibile di un glorioso destino? O magari una chiave di lettura del passato, maggiormente utilitaristica e cerebrale, impediva ormai al simbolismo di raggiungere le stesse vette d’efficienza comunicativa. Quale che fosse la ragione, a quel punto gli uomini di ferro apparvero del tutto superflui alla popolazione. Se non come un ricordo delle sofferenze vissute in passato e che la gente, abbagliata da un miraggio, era convinta di essersi lasciata ormai permanentemente alle spalle.

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