Quanto a lungo può restare un’opera d’arte in luogo pubblico prima che qualcuno, finalmente, capisca il suo reale significato? 10, 20, 30 anni? Nel caso dei tre uomini di pietra del Toronto Pearson, aeroporto internazionale della più popolosa città del Canada, ne sono trascorsi ben 54. E sarebbero stati ancor di più, probabilmente, se la pagina Facebook del notiziario CBC Nunavut, rivolta agli abitanti di una delle regioni più settentrionali abitate dall’uomo, non ne avesse pubblicato per caso l’ennesima foto, accompagnata dall’enigmatica domanda: “Che cosa ne pensate?” Strano, in effetti, che non si trattasse di un semplice post mirato a sollevare un collettivo orgoglio verso l’evidente apprezzamento rivolto all’identità culturale di un’etnia ormai agli sgoccioli, che faticosamente mantiene il suo legame con le antiche tradizioni, bensì un’oggettiva richiesta d’interpretazione. Che puntualmente arrivata, da parte di un’utente che ha fatto notare con tono assolutamente neutro: “Quel tipo di inukshuk indica l’orribile presagio di un luogo di morte.” Perfetto, direi, per un aeroporto. Se si ha paura di volare. Ma è altamente probabile che in effetti, tale implicazione non fosse in alcun modo desiderata in origine, per quelle che dovevano costituire semplicemente tre decorazioni etniche e un modo per onorare il “patrimonio culturale” del Canada intero. Come potrete facilmente immaginare, in patria si tratta di un tema controverso: gli Inuit furono all’epoca, e per certi versi lo sono tutt’ora, una di quelle popolazioni native a cui vennero tolte le terre dai primi coloni, in cambio di pagamenti simbolici o mere promesse, benché su una scala decisamente minore rispetto alle tribù che presero il nome inesatto di indiani. Questo per il semplice fatto che molti dei luoghi di proprietà degli Inuit si trovavano talmente a Settentrione, nel più costante gelo ed assenza di facili risorse, che l’uomo bianco semplicemente non avrebbe potuto abitarle. Resta comunque un fatto che all’epoca delle Olimpiadi Invernali di Vancouver del 2010, l’insolita mascotte Ilanaaq dalla forma visibilmente pietrosa sia stata fortemente criticata da alcune associazioni, come appropriazione indebita di un tratto culturale che non è, non potrà mai essere canadese.
La definizione di inukshuk (pronuncia inuksuk, plurale inuksuit) è in senso letterale “[Ciò che] fa le veci di un uomo” essenzialmente assolvendo ad un ventaglio di mansioni molto ampio. Questa classe di costrutti di pietre accatastate, per una metà opere d’arte e l’altra strumenti utili alla vita di tutti i giorni nella tundra glaciale dell’Artico, hanno uno scopo diverso in base alla forma scelta dal loro costruttore. Ve ne sono di dedicati a segnare il passaggio di un sentiero sicuro, oppure in luoghi da evitare a tutti i costi, mentre altri indicano l’inizio di un terreno occupato da una particolare tribù. Nella caccia alle renne, tipici ungulati della regione, gli inuksuit hanno un ruolo importante: come unica presenza che sporge dalla distesa innevata, essi spaventano gli animali, i quali per sicurezza evitano di avvicinarsi, finendo dritti nella trappola degli umani. A partire dal primo aprile 1999, quindi, uno di questi punti di riferimento è comparso sulla bandiera ufficiale del nuovo Territorio a Maggioranza Inuit del Nunavut, in rosso su campo bianco e giallo. La sua particolare e riconoscibile forma, molto diversa da quella di un tipico cairn (cumulo segnavia) degli escursionisti occidentali, è quindi diventata famosa in tutto il Canada, che ha trovato in essa un tratto distintivo, ed unico, appartenente geograficamente al suo territorio. Un importante approccio all’arduo e sempre sentito problema di differenziarsi dall’altro paese di origine europea presente nel Nordamerica, gli ingombranti Stati Uniti. E da lì è iniziato, inevitabilmente, il problema: perché per una questione apparentemente semplice, come disporre le pietre in un cumulo vagamente antropomorfo, si nascondevano in realtà i diversi significati, trasmessi per lo più attraverso la via orale, e per questo inaccessibili ai non nativi. Molti, ad esempio, hanno lamentato la stessa definizione della mascotte delle Olimpiadi con il termine di inukshuk, quando in realtà si trattava di un inunnguaq, ovvero cumulo con testa e braccia spalancate, a esprimere un messaggio di qualche tipo. Un “piccolo” dettaglio, sfuggito in qualche modo alla designer canadese Elena Rivera MacGregor. O forse l’intento commerciale di semplificare le cose. La questione dei tre innunguat (pl.) dell’aeroporto di Toronto, tuttavia, è notevolmente più ricca di possibili interpretazioni.
Le tre statue, se così vogliamo continuare a chiamarle, furono infatti l’opera di Kiakshuk (Keeakshook) probabilmente il più importante artista ad aver divulgato nel mondo la cultura e le usanze degli Inuit del Nunavut. Colui che, nato nel 1886 sull’isola di Baffin, aveva sempre ammirato gli oltre cento inuksuit stolidamente eretti sulla propaggine meridionale nota come Enukso Point, vestigia di un antico e misterioso luogo di culto dei suoi antenati. Dopo aver iniziato con una sua interpretazione di tali canoni, quindi, egli ebbe modo di dedicarsi all’arte grafica, elaborando un particolare stile espressivo, schematico e un po’ naïf, in grado di esprimere alla perfezione le sensazioni e i ritmi della vita al di sopra del Circolo, includendo anche numerose figure mitologiche relative alla religione ancestrale del suo popolo, ormai da tempo convertito al cristianesimo dai missionari europei. Negli anni ’70, Kiakshuk si specializzò nella produzione di stampe tramite l’incisione diretta, un’attività che gli permise di guadagnare ben presto non soltanto la stima degli abitanti del Meridione, ma anche quella dei suoi connazionali, che ne apprezzavano l’appartenenza autentica ad una cultura ormai in via di sparizione. L’artista era anche, infatti, un abile cacciatore e cercatore di tracce, nonché praticante dei metodi tradizionali di sopravvivenza nella tundra polare. Attraverso la sua lunga carriera, avrebbe avuto anche l’occasione di partecipare a una produzione cinematografica come narratore (1958 – The Living Stone) ed illustrare assieme all’artista e connazionale Pudlo un libro intitolato “Storie e canzoni degli eschimesi” raccolte dal viaggiatore Knud Rasmussen. Oltre, ovviamente, a realizzare i tre innunguat donati all’aeroporto di Toronto, per intere generazioni scambiati per un omaggio ai controllori di volo, o addirittura “tre amici che chiamano il taxi.”
Sull’origine della posizione particolarmente malaugurante, apparentemente quella del cumulo antropomorfo con un singolo braccio alzato, già sono state elaborate diverse teorie. Dal momento in cui su Facebook è stato segnalato il problema, qualcuno ha ricordato come in un momento imprecisato delle ultime tre decadi le tre figure siano state temporaneamente immagazzinate, per alcuni lavori di ristrutturazione dell’aeroporto. Possibile che dopo quel momento, gli innunguat siano stati riassemblati in maniera non corretta? Possibile. Ma non è così: nello stesso thread in effetti, compare una fotografia su una vecchia rivista, in cui l’uomo di pietra faceva già lo stesso identico gesto. Alcuni ipotizzano quindi che il montaggio fosse stato effettuato in maniera non corretta fin da subito e che l’artista, poco raggiungibile visto il suo particolare stile di vita, non avesse mai avuto l’occasione di correggere il fraintendimento. E un’indagine riportata dal portale Atlas Obscura, in effetti, sembrerebbe confermare l’idea: Kiakshuk non aveva infatti realizzato le statue da solo, bensì con l’aiuto dell’amico e collega (forse, apprendista) Egeesiak Peter, che oggi è ancora vivo alla veneranda età di 80 anni. Figura anche lui di artista, che racconta come la visione originaria del suo maestro fosse stata per la creazione di un solo, grande inukshuk, di natura assolutamente apotropaica e beneagurante. Il che, direi, sarebbe stato decisamente preferibile. Ma siamo sicuri che questa sia TUTTA la verità? Un aeroporto decide di onorare la cultura di una minoranza etnica, e quando riceve l’opera di un artista di fama (essenzialmente, nient’altro che un cumulo di pietre) decide poi di montarla in maniera totalmente diversa? Non è anche possibile che nell’intera realizzazione ci fosse una sorta di messaggio nascosto, un’intento vagamente sovversivo e nichilista, volutamente incomprensibile ai non-iniziati? Certo è che diventa difficile, mantenere un simile segreto, nell’epoca della comunicazione perfetta di Internet. Ed in effetti, così è stato.
La cultura tradizionale può diventare un simbolo e si potrebbe anche affermare, volendo, che questo sia il suo più importante ruolo nella moderna società delle immagini, dove tutto è marketing e apparenza. Quando persino un gadget, il souvenir di un ciondolo costruito con ciottoli incollati assieme, può giungere a costituire l’inizio di una conversazione sulla condizione del popolo Inuit nel Canada contemporaneo, questa è la chiara dimostrazione che nessuno nasce naturalmente disinteressato, del tutto incosciente del mondo che l’ha preceduto e a vari livelli, lo circonda tutt’ora. Il problema, semmai, è proporre la giusta interpretazione.
È possibile che l’intento già dichiarato da parte dall’aeroporto di Toronto, di “Migliorare immediatamente la presentazione dell’opera d’arte di Kiakshuk” impiegando l’aiuto di un altro importante artista Inuit, Piita Irniq, sia una via molto pratica per evitare le controversie. Può anche essere che ciò costituisca, invece, uno stravolgimento di un messaggio sconveniente, che era stato giudicato corretto dal produttore originale. Di sicuro, quell’opera è nata così, ed in questo modo ha saputo trovare una sua misura di fama tra i viandanti del terminal, che per un motivo o per l’altro passavano di lì. Personalmente, avrei preferito pensare che ciò fosse ormai una parte indiscussa della sua storia. Un avviso di sventura, dopo tutto, non è altro che l’invito a prestare cautela. Altrimenti, come potremmo spiegare la spinta in avanti d’intere generazioni d’esploratori?