Il fatto stesso che la cinta muraria principale di Grande Zimbabwe venga considerata indicativa di quella che riceve la definizione di “città perduta” è la prova di un fondamentale fraintendimento. Poiché essa si trova parzialmente in pianura, esposta in assenza di vegetazione eccessivamente significativa, non lontano da centri abitati come Masvingo o Ngomahuru. Ed a circa quattro ore di macchina lungo una strada trafficata dalla capitale Harare, una metropoli abitata da oltre due milioni di persone. La cui densità di popolazione comunque non è nulla, fatte le dovute proporzioni, con la quantità che si stima tradizionalmente abbia potuto vivere presso l’insediamento che oggi da il nome al paese: circa 20.000 persone, concentrate in appena 2,9 Km, implicando un’ottimizzazione degli spazi comparabile a quella di alcune regioni popolose del mondo all’inizio del XXI secolo. Ragion per cui decenni di approfondimenti e studi scientifici, coadiuvate dal mancato ritrovamento del tipo di discariche sepolte che ciò avrebbe dovuto comportare, ha portato ad una graduale revisione della cifra verso il basso, fino alle stime odierne maggiormente ottimistiche che calcolano la cifra attorno alle “appena” 10.000 anime riunite sotto una singola egida o totem. Che non è poi molto meno notevole o sorprendente, quando si considera l’epoca di cui stiamo parlando: almeno due secoli prima dell’anno Mille, corrispondente a quella che possiamo definire come l’Età del Ferro nella parte meridionale del continente africano. Chi fossero stati materialmente costoro, dunque, si sarebbe dimostrato l’oggetto di un contenzioso secolare a partire dalle prime notazioni dell’esistenza di un tale luogo nel 1506, in una lettera inviata dall’esploratore portoghese Diogo de Alcáçova al suo Re e di nuovo nel 1513, nei diari di viaggio del mercante viaggiatore António Fernandes. Fino al resoconto maggiormente dettagliato offerto dallo storico João de Barros, il quale pose l’accento sull’incapacità da parte degli abitanti odierni della regione di comprendere la notevole portata architettonica di quanto era possibile osservare, portandoli ad affermare che potesse essere stata soltanto “opera del Demonio”. Ed in effetti Grande Zimbabwe costituisce un’eredità unica non soltanto nel suo specifico panorama territoriale ma tutto il continente ove risiede ed in senso maggiormente ampio, il mondo intero…
Come città costituita da tre zone distinte, chiamate rispettivamente il complesso collinare, quello della valle ed il grande recinto o “tempio” l’antico centro del potere mostra la realizzazione ciclopica di mura ponderose edificate a secco, alte al loro massimo 11 metri e di una lunghezza complessiva di 250, da cui trae il termine effettivo che si usa per definirla: Zibmabwe vuole dire, infatti, “casa di pietra”. Con numerosi macigni e monoliti accatastati nel complesso principale attorno ad una torre centrale conica, forse un granaio, probabilmente finalizzati ad accrescere il prestigio di un’elite le cui residenze si trovavano nella fortezza antistante, oggi stimata non aver mai superato la cifra complessiva di 200-300 abitanti. Forse la casta regale o sacerdotale di un qualche antico, misterioso impero. La cui appartenenza etnica è stata oggi individuata nel gruppo culturale dei Gokomere, probabili antenati degli odierni Shona ed in senso più ampio, la vasta discendenza dei Bantù africani. Laddove ciò non fu sempre possibile, viste le significative implicazioni politiche e sociali contenute nell’attribuzione di una simile struttura a quello che veniva visto, all’epoca, come un contesto etnico poco incline alla costituzione di civiltà durature. Una percezione data per palese almeno fino all’inizio del XIX secolo, quando a seguito della “riscoperta” di Grande Zimbabwe da parte della gente d’Europa e le conseguenti scoperte di manufatti difficili da contestualizzare, iniziò una corsa nel tentativo di creare un contesto in grado di giustificarne l’esistenza. Questa indubbia capitale di un regno durato almeno quattro secoli entro quella che all’epoca era chiamata Rodesia, molto probabilmente finanziato almeno in parte dalle vicine ed antiche miniere d’oro, si stava infatti dimostrando il sito di provenienza di oggetti quali monete o pegni commerciali provenienti dall’Egitto, l’Asia ed il Medioriente, implicando l’esistenza di una rete d’interscambio tramite i porti dell’odierna Mauritania paragonabile a quella del Mediterraneo di epoca Classica o altri grandi punti d’origine delle culture a noi maggiormente affine. Il che permise ad una teoria, in particolare, di trovare un numero sempre maggiore di sostenitori: quella di Karl Mauch, il geografo tedesco che si sarebbe prodigato nell’individuare, in maniera del tutto arbitraria, un collegamento tra la città e le storie bibliche sulla Regina di Saba e Re Salomone, affermando incredibilmente che un listello ligneo ritrovato in-situ dovesse necessariamente costituire un esempio di cedro libanese, trasportato fin qui dai Fenici. Fino alle circostanze destinate ad avvalorare ulteriormente, negli occhi di coloro che si erano già formati un’idea, tale ipotesi priva di un reale fondamento. Ovvero il modo in cui nel 1889 il cacciatore ed avventuriero tedesco Willi Posselt, avendo letto i testi di Mauch, si recò presso il complesso collinare sacro ai nativi dietro il pagamento di un pedaggio al capo locale, trovando e rubando in tale occasione una serie di manufatti assolutamente eccezionali. Si trattava di otto sculture monolitiche in steatite di uccelli alti circa 40 cm, collocati su altrettanti pilastri dell’altezza unitaria di un metro e mezzo. Dalla manifattura armoniosa ed elegante, probabilmente raffiguranti creature rapaci come il falco giocoliere o l’aquila urlatrice, con modalità oggi familiare alla maggior parte degli abitanti dello Zimbabwe. Questo per l’inclusione delle riconoscibili ed iconiche opere d’arte in buona parte dei simboli della moderna nazione indipendente, a seguito della dichiarazione del 1965 nei confronti dell’istituzione coloniale britannica, cui fece seguito un lungo periodo di disordini e guerra civile.
Il che avrebbe allontanato nelle decadi successive e non senza una certa inveterata resistenza accademica, il sostanziale veto delle autorità governative bianche dell’ex-Rodesia su qualsiasi pubblicazione scientifica osasse menzionare la costruzione di Grande Zimbabwe da un qualsivoglia popolo di etnia africana, nella diffusa quanto ingenua percezione che particolari discendenze o contesti geografici fossero imprescindibili, per il raggiungimento di traguardi architettonici superiori ad effimere capanne di legno o terra pressata. Vedi la censura operata a più livelli sulla ricerca del 1929 dell’archeologa britannica Gertrude Caton Thompson, tra i primi ad ipotizzare ufficialmente la creazione del sito ad opera di genti di discendenza esclusivamente Bantù, sebbene individuando alcune influenze possibilmente arabe nelle soluzioni tecnologiche degli edifici più elevati. Ma il danno, ormai, era fatto e non si può fare a meno di sottolineare come ogni ricerca contemporanea nella regione, nonostante l’iscrizione a partire dal 1986 nella lista dei patrimoni dell’UNESCO, debba essere condizionata dai lunghi anni di scavi semi-amatoriali e furti istituzionalizzati dei beni contenuti all’interno dell’arcaico insediamento monumentale. Il che dimostra come la storia possa essere talvolta una corsa, tra coloro che possono e devono cercare di raggiungere in tempo i rispettivi traguardi. Prima che altri, provenendo da fuori, pongano il proprio sigillo ed ottengano il possesso degli altrui tesori. Sia in senso pratico, che oltraggiosamente, dolorosamente metaforico e figurativo.