Alto e magnifico, il Grido di Pietra si erge nel Campo di Ghiaccio Patagonico Meridionale, come una colonna posta in essere dal più profondo e inarrivabile desiderio degli Dei. E noi lievemente gli giriamo attorno, trasportati dal vortice tecnologico di così strani giorni, in cui le telecamere possono volare sull’ali di una batteria elicotteristica incorporata. Non è di sicuro questa, la montagna più alta del suo gruppo, né la più larga ed imponente, assomigliando piuttosto ad un sottile albero d’abete o un ago, sormontato da una strana forma dal colore candido e accecante: el hongo, il fungo della montagna. Che forse potreste conoscere attraverso l’appellativo, da sempre avvolto da un alone di mistero, di Cerro Torre, strettamente legato alla figura di alcuni dei più celebri, ed almeno in un caso lungamente discussi, tra i rinomati personaggi dell’alpinismo italiano.
Grandi nomi che si trovano associati a grandi imprese, per il semplice fatto di aver raggiunto l’obiettivo per primi. Con il trascorrere delle diverse fasi esplorative, quindi, l’impossibile tende a diventare progressivamente realizzabile, persino mondano. Fino al punto che cercando tra gli archivi d’Internet, puoi trovare la testimonianza di un outsider nettamente sconosciuto che da un giorno all’altro, è riuscito ad uguagliare i suoi più insigni predecessori. É questo il caso di Jeff Wright e sua moglie Priti, i “vagabondi alpini” che partendo dalla Florida nel 2017, hanno iniziato a farsi un nome come validi istruttori di scalate prima d’iniziare a girare per il mondo, raggiungendo alcune delle vette più difficili e famose del mondo. Per poi raggiungere, finalmente, nella giornata dell’ottobre del 2020 la fondamentale cima del K9, punto più elevato della Terra. Ma poiché come si dice Roma non fu costruita in un giorno, ed allo stesso modo i più difficili traguardi hanno bisogno di un preambolo adeguato, è in questo video in 4K ripreso via drone che compare la testimonianza del momento topico datato circa 7 mesi fa, quando i due ebbero la prima e più significativa occasione d’iscrivere i propri nomi nella storia nelle scalate. Esistono, a tal proposito, due maniere per concludere una sfida verticale contro la natura: il primo è quello della spedizione, con campi base disseminati lungo l’intero estendersi del tragitto e se possibile, l’aiuto di un’intera squadra esperta, la cui assistenza può sfociare nel vero e proprio himalayismo, con il cliente che viene letteralmente “traportato” dagli sherpa fin sopra la cima del mondo. Il secondo, invece, detto stile alpino, è quello dell’arrampicata solitaria o di un piccolo gruppo, dotato unicamente degli attrezzi e gli strumenti che è possibile trasportare nel corso di un singolo viaggio, permettendo il raggiungimento della vetta attraverso tempistiche notevolmente più brevi, dove le settimane si trasformano in ore o giorni, d’intensa, esperta attività fisica mirante all’obiettivo finale. Ebbene non tutte le montagne, indipendentemente dalla loro fama, permettono entrambi gli approcci, come nel caso del Cerro le cui ripide pareti, soprattutto verso l’approccio finale che conduce al conseguimento ultimo della vittoria assomigliano più che altro alla sfida di un vero e proprio rocciatore sportivo, impegnato in un campionato all’interno di contesti sicuri ed attentamente controllati. Un fattore, quest’ultimo, che aveva lungamente fatto considerare l’alta torre della Patagonia come totalmente impossibile da scalare, almeno finché in un fatale 1959, l’alpinista trentino Cesare Maestri accompagnato dal collega austriaco Toni Egger non dichiarò di fronte a un mondo in trepidante attesa che si, la belva era stata domata. E il nesso ultimo raggiunto, sebbene dei due eroici scalatori, soltanto lui fosse riuscito a ritornare sano e salvo fino alla pianura. Causa un incidente che avrebbe portato allo smarrimento, contestualmente, della videocamera portata fin lassù dai due come prova inconfutabile del trionfo, dando inizio ad uno dei più lunghi e per certi versi tuttora irrisolti contenziosi nella storia dell’alpinismo mondiale…
Il racconto incredibile di Maestri fu quindi destinato, fin da subito, a fare di lui una vera e propria celebrità, anche fuori dal settore specifico dell’alpinismo. Fino ad allora, con le tecnologie ed i metodi in possesso di coloro che praticavano una simile attività, era stato considerato estremamente improbabile che chiunque, indipendentemente dalle proprie abilità ed esperienza, potesse dire di aver sconfitto la più difficile montagna dell’America Meridionale e forse, il mondo intero. Il preciso resoconto, descritto in numerosi articoli, interviste e testi redatti dall’importante sportivo, non sarebbero stati posti a scrutinio eccessivamente approfondito per almeno cinque anni, quando una serie di problemi cominciarono ad emergere in merito alla sua presunta veridicità. Le diverse squadre che si susseguirono verso l’agognata vetta, senza comunque mai riuscire nell’impresa, non potevano infatti fare a meno di notare l’assenza dell’inevitabile prova del passaggio lasciata dall’italiano e l’austriaco durante il loro leggendario trionfo, come chiodi, tende ed altro equipaggiamento normalmente lasciato durante simili tragitti. E non solo: le stesse caratteristiche del percorso apparivano sostanzialmente differenti da quelle descritte da Maestri, lasciando serpeggiare il dubbio che in effetti, fin lassù lui non ci fosse mai riuscito ad arrivare. Fu quindi a quel punto che l’alpinista di Trento, stanco di dover controbattere ai propri detrattori, organizzò a sue spese nel 1970 un’ulteriore avventura ponendosi a capo di un gruppo di sei persone, fermamente intenzionato a raggiungere “di nuovo” la sommità della Torre. Utilizzando, questa volta, ogni mezzo a sua disposizione incluso quello tanto spesso discusso del trapano a compressione, con cui attrezzò circa 350 metri di scalata con un numero elevato di chiodi e viti, destinati a rimanere a imperitura testimonianza della sua impresa. Quindi, con gesto beffardo, appese a quello più elevato l’attrezzo stesso, affinché chiunque avesse dubitato in futuro di lui potesse andare fin lì a vederlo coi propri occhi. In tale frangente, tuttavia, Maestri si fermò giusto dove cominciava il candido fungo di neve, da lui considerato essenzialmente “Non parte della montagna”. Una scelta spesso condivisa da molti dei suoi successori (non i coniugi Wright) per l’estrema difficoltà e pericolosità di quest’ultimo, composto del tipo di neve definita in gergo tecnico calabrosa, con vaste sacche d’aria all’interno della sua massa soltanto in apparenza compatta e incline proprio per questo a scatenarsi in devastanti valanghe. Una caratteristica tipica delle montagne che sorgono in prossimità della costa e battute dai feroci venti come quello che percorre le propaggini più estreme di un intero continente, e la montagna che come un guardiano, si erge innanzi al grande gelo del meridione.
La prima scalata priva di obiezioni del Cerro Torre si sarebbe compiuta, quindi, nel 1974 ancora una volta ad opera di quattro italiani, Chiappa, Conti, Ferrari e Neri, destinati a passare alla storia con l’appellativo de I ragni di Lecco. La cui via, contrapposta a quella più breve ma estremamente artificiale del Compressore, è poi la stessa utilizzata dagli americani Jeff e Priti poco prima d’iniziare a girare il loro memorabile video via drone.
Considerato a lungo un vero e proprio mito dagli amanti delle montagne più inaccessibili, nonostante i dubbi ragionevolmente leciti sulla sua impresa del ’59, Maestri avrebbe quindi mantenuto fino all’inizio degli anni 2000 una ragionevole schiera di sostenitori, tra cui grandi nomi dell’alpinismo come Reynold Messner (che in seguito cambiò idea pubblicamente) ed Ermanno Salvaterra, anch’egli trentino, il quale nel 2005 riuscì finalmente con la sua squadra, grazie ai progressi compiuto in ambito tecnologico e preparatorio negli approcci moderni alla montagna, a percorrere con successo l’intera facciata che tanti anni prima era costata la vita ad Egger. Soltanto per scoprire, non senza una certa sorpresa, un numero tanto elevato di discrepanze e persino la sostanziale differenza del paesaggio rispetto al soggetto fotografato dal connazionale ai suoi tempi, suggellando quella che viene considerata in molti ambiti, oggi, la prova di un antico racconto non corrispondente alla realtà.
Il bello del passato è quindi che nulla sparisce mai, davvero, del tutto, continuando ad ispirare coloro la cui missione nella vita è il raggiungimento di un fine ultimo, remoto ed encomiabile allo stesso modo del tesoro ereditato all’inizio della propria generazione. Garantendo, in questo modo, la natura ininterrotta di questa catena senza fine, che conduce fino alla remota vetta delle circostanze alpine. Chi può dire, dunque, quale sia stata la soggettiva esperienza vissuta da Maestri nel corso di quella difficile nonché tragica arrampicata? E quanto di essa sia mai stato compiuto, nei fatti, all’interno del nostro stesso e tangibile universo… Forse, proprio questo, è in ultima analisi il valore di un drone. Poiché registra a beneficio di tutti, ciò che non potrà mai più essere dubitato. Che poi tutto ciò riesca a risultare straordinariamente spettacolare, non è che un valore aggiunto, e se vogliamo inerente, all’implicito splendore della natura.