La montagna, nell’immaginario collettivo, dovrebbe essere costituita da una forma piuttosto prevedibile: una cresta nella superficie, il sollevarsi variamente obliquo della linea dell’orizzonte. Una sagoma sostanzialmente frastagliata, che si staglia contro il grande azzurro del cielo superno, gettando la sua ombra come il palcoscenico di una grande rappresentazione. E non, per quanto ci è dato comprendere, l’asse dritto e inconfondibile di una meridiana. Non la forma oceanica di una balena, che fuoriesce verticale dal velo dei flutti, trasparente grazie all’impatto traslucido dei raggi solari. Niente di simile, per avvinarci al nesso dell’intera questione, al Grande Cane dell’isola di São Tomé, nella poco estesa nazione isolana di São Tomé e Príncipe nell’Africa Occidentale. Il cui appellativo è localmente identificato in Pico Cão Grande, nella lingua portoghese di coloro che per primi, attorno al 1470, colonizzarono queste terre non così remote. A “soli” 225 Km dalla costa del Gabon, ma che a differenza di quest’ultimo non avevano minerali da estrarre, antiche civiltà di scoprire, i loro discendenti da deportare verso le accoglienti piantagioni del Nuovo Mondo. Ma piuttosto la fitta e ininterrotta copertura di una giungla virtualmente senza limiti, fatta eccezione per quelli delle rispettive coste, da cui emergeva l’occasionale caratteristica geologica degna di nota. Questo perché i due recessi emersi, e la costellazione d’isole più piccole che li circondano, hanno la caratteristica di occupare uno spazio sulla cosiddetta Linea vulcanica del Camerun, costituita dagli osservabili residui di una serie di massicci un tempo attivi che estende nell’entroterra fino alle acque del lago Ciad. E che in direzione opposta, nelle tiepide acque dell’Atlantico Meridionale, si è offerta di formare queste isole, inclusa quella principale situata grosso modo sulla linea dell’Equatore. Con il suo eminente grattacielo costruito dalla natura, che si eleva per 370 metri sul terreno circostante, raggiungendone ben 663 al di sopra del livello del mare. Compatto, attraente, appuntito bersaglio per schiere successive di abili alpinisti e freeclimbers, attirati dall’opportunità di cimentarsi in una sfida molto rara nell’interno novero del catalogo orografico del pianeta. Questo perché il Cane non è un duomo lavico, formato dalla lava che si è solidificata a seguito del raffreddamento del suo cratere, o altro simile fenomeno di protrusione solida prodotto dal sommovimento delle masse semi-solide al di sotto della crosta terrestre. Bensì l’esempio dell’eventualità più rara di un neck o “tappo” vulcanico, l’effettivo stampo negativo della forma di un cono condotto all’erosione, risultante dal suo nucleo interno maggiormente incline a resistere all’erosione. Nel dipanarsi di un fenomeno che è largamente alla base della sua forma quasi unica nel panorama del paesaggio globale…
alpinismo
I misteri del massiccio che sorge al centro del mondo asiatico e le sue molte religioni
Si racconta di come attorno alla metà degli anni ’80 il governo cinese avesse offerto a Reinhold Messner, storico alpinista ed uno degli italiani più celebri della nostra Era, di diventare il primo individuo moderno a raggiungere la cima del Kailash, montagna dallo status molto più leggendario situata nella prefettura di Ngari, presso la regione autonoma del Tibet. Famosamente, egli si sarebbe rifiutato. Posto di fronte alla domanda in un’intervista di molti anni dopo, egli avrebbe affermato di aver preso una tale scelta in quanto: “Conquistare la cima del Sumeru [raggiungendo la dimora degli Dei] sarebbe come conquistare lo spirito delle persone.” Ovvero un gesto, se vogliamo, dissacratorio e giudicato dal medesimo del tutto indegno di un conoscitore delle culture d’Oriente. Come lui che nel castello Juval in Val Venosta, dove abita dal 1983, ha dedicato un’intera stanza alla sola figura storica che sappiamo aver calcato quelle vette, il santo, poeta e stregone Milarepa, principale maestro della scuola Kagyu del Buddhismo Tibetano. Senza mai scalarlo in base alla leggenda, nonostante avesse ricevuto la sfida a riuscirci da parte di Naro Bonchung, sacerdote mistico dell’ancestrale religione di quel paese. Il quale sollevandosi da terra grazie all’uso di un tamburo magico, si vide sorpassare all’ultimo momento dal suo avversario, che molto semplicemente si era smaterializzato, cavalcando fino in vetta i raggi dell’astro solare. Un’approccio in qualche modo compatibile con l’altrettanto celebre punto di vista reso pubblico nei diari del 1936 dello scalatore austriaco Herbert Tichy, redatti a seguito di un colloquio con il governatore dello Ngari, Garpon: “Chiunque riuscirà un giorno nella difficoltosa impresa non avrà scalato affatto il ghiaccio della montagna. Bensì trasformandosi in uccello, avrà volato fino al raggiungimento della sua meta.” Ardite metafore o impegnativi piani di fattibilità a parte, resta preponderante l’aspetto indubbiamente insolito di un sito tanto celebre ed indubbiamente rilevante, ciononostante mai calcato dagli inarrestabili stivali dell’uomo moderno. Come evidenziato dal severo divieto implementato da parte del governo locale, costretto unicamente dalle circostanze a lasciar accedere i dintorni e laghi sacri a ridosso della montagna, in un annuale pellegrinaggio compiuto per ragioni del tutto simili dai fedeli delle religioni Induista, Buddhista e Giainista. Riassumibile in un avvicinamento rilevante nei confronti delle rispettive Vie dell’Illuminazione, bagnandosi nelle sacre acque e rivolgendo gli occhi all’altissima piramide, simbolo di Shiva ed innumerevoli ulteriori divinità. Partecipando di un anelito eccezionalmente profondo…
All’improvviso incoronata dalla nebbia, la visione di uno spettro tra le montagne
Poggiando il bastone da passeggio sulle asperità rocciose dell’alto picco di Bracken, rivolsi un pensieroso sguardo verso l’orizzonte. Quattro, cinque speroni di roccia che sbucavano dall’oceano del nulla, come la candida ed evanescente superficie di Saturno, sovrastata da un sole debole e indistinto. All’orizzonte il frastagliato picco del Wurmberg, la più alta montagna della Sassonia. E tutto intorno, nascoste dalle nubi dell’alba, le molte dighe costruite nel corso dell’ultimo secolo, con la finalità di generare energia elettrica, il progresso e la prosperità del mondo. In quel giorno meditabondo, tuttavia, non pensavo affatto a tutto questo. Ma piuttosto valutando il punto a cui era giunta la mia vita, continuavo a interrogarmi sulle mie possibili opportunità future, ovvero quanto fosse vero che con il trascorrere degli anni, il nostro fato appaia sempre maggiormente simile alle catene di un condannato all’insostanziale schiavitù degli eventi. Un umore ormai purtroppo familiare, ed a cui l’unico antidoto sembrava essere spostarsi lungo irti e ripidi sentieri, camminando il più possibile lontano dalla civiltà. Dove i passi riecheggiavano, riecheggiavano nell’astruso silenzio… Strano, d’altra parte. Poiché non dovrebbe essere l’eco di questo, una mera conseguenza della gestualità umana? E non ero forse fermo, ormai da svariati minuti, nell’osservazione del mare di nebbia? Dunque, ci siamo… Pensai. L’ora è giunta, d’incontrarlo e rivolgergli le mie domande. Per tanti anni avevo sospettato l’esistenza, di costui! Mi voltai di scatto, verso quello che il popolo di Scozia definiva l’uomo grigio di Am Fear Liath Mòr. E lui, naturalmente, era lì a guardarmi fisso, dalle profondità del tragitto montano. Una sagoma di almeno quattro metri, le braccia e gambe impossibilmente lunghe, la testa piccolissima e circondata da uno strano alone circolare. Cinque, sei, sette colori, l’immane risultanza di un prisma completo, formato per un vezzo imprescindibile del mondo. Nella speranza di confermare un’importante teoria, alzai quindi il braccio destro, poi il sinistro. Ed obbediente, lui fece lo stesso, in posizione cruciforme al principiar di quella lunga marcia. “Ecce homo” scandii lentamente all’interno della mente. Il vero mistero è risolto; il vero mostro che si aggira tra i boschi era sempre stato parte di me. L’oscuro doppelgänger, fondamento della psicanalisi, posto innanzi a una visione più Romantica del mondo. Poiché indipendentemente dalle proprie aspirazioni, nessuno può sfuggire al progredire della fenomenologia ottica di tutte le cose. Oggettivamente imprescindibile, quanto la morte, le tasse, l’ultimo episodio di un’interminabile telenovela in Tv.
Egli esiste, d’altra parte, veramente. Pur non possedendo nessun tipo di sostanza; si dice infatti che chiunque fosse tanto folle o fortunato da riuscire ad avvicinarsi all’uomo grigio per toccarlo, non potrebbe fare altro che trovarsi ad attraversarlo con le proprie stesse mani. Percependo magari l’unica esperienza fisica di un tenue calore, proveniente dallo stesso astro che ci da la vita. E qualche volta neanche quello. Poiché un tale criptide, se così possiamo chiamarlo per analogia con lo Yeti, Bigfoot e altri individui solitari ricoperti da quel folto pelo primordiale, compare solamente fuori dallo spettro del tangibile e all’interno dello spazio percepibile coi propri stessi occhi, Ma c’è un’importantissima, niente meno che fondamentale differenza. La maniera in cui può essere immediatamente catturato con fotocamere o registrazioni video, non di un tipo impreciso, incomprensibile o sfocato. Bensì dettagliate ed apprezzabili, come il quadro di un maestro del Rinascimento. Quanto lo studio di fattibilità di un grattacielo o di un ponte. In questi termini, egli esiste e non esiste allo stesso tempo. Ma soprattutto può riuscire a mutare forma in base al proprio osservatore, un po’ come il personaggio fantastico del mago di Oz. Questo perché lo spettro di Bracken, in modo materiale e niente affatto filosofico, si trova potenzialmente all’interno di ciascuno di noi. Previo il raggiungimento del sito idoneo ad evocarlo, ovvero un’alta montagna tra le nubi del pianeta Terra, verso le ore della prima mattina quando il sole è sufficientemente basso. Da riuscire a proiettare la nostra ombra nello spazio iperboreo del vuoto. Eppure un’ombra non possiede aureole. Non raggiunge agevolmente il secondo piano di un edificio. Non parla alla coscienza più profonda e irraggiungibile del suo padrone, mettendo in dubbio, rimescolando ogni certezza precedentemente acquisita nel corso della propria esistenza…
La lunga scala sopra l’Austria che sublima il concetto di via ferrata
“Sperate sempre in ciò che vi aspettate, ma non aspettatevi mai ciò in cui credete.” Che cosa avrebbe detto l’eternamente giovane alpinista austriaco Paul Preuss (1886-1913) alle cui imprese lungo le pendici del monte Donnerkogel Maggiore (2.054 metri) è stata dedicata tre anni fà questa opera fondamentalmente turistica, frutto dell’unione tra un luogo straordinario, vedute stupefacenti, e almeno un pizzico di sincera passione per le arrampicate…. Sotto l’egida ingombrante di chiodi, funi, attrezzature fisse dall’impatto paesaggistico tutt’altro che commisurato alla necessità di svolgere una funzione pratica immanente. Proprio lui, che più di ogni altra cosa credeva nella scalata senza nessun tipo d’ausilio tecnologico, e che l’uomo dovesse ergersi oltre le difficoltà dell’esistenza usando esclusivamente le proprie forze, com’era personalmente riuscito a fare da ragazzo, superando l’infermità causata dalla polio e diventando uno sportivo, ed un filosofo, capace d’influenzare le generazioni. E che all’età di soli 27 anni, in circostanze destinate a rimanere largamente incerte, cadde in solitudine dalle più alte propaggini Mandlkogel, precipitando per 300 metri fino alla sua improvvida dipartita. Poiché nessuno può essere infallibile, neppure i grandi della storia, e la montagna di per se non può conoscerti per nome o fare un’eccezione verso chi desidera conoscerla in assenza del “giusto” grado di timore reverenziale. Così nell’odierno scenario del bisogno di affermare, ad ogni costo, la propria capacità d’iniziativa e un certo grado di evidente sprezzo del pericolo, la costruzione di una via ferrata può arrivare ad assumere un significato del tutto nuovo: la strada d’accesso democratica, ed in quanto tale aperta nei confronti di chiunque possieda il giusto grado d’intraprendenza, per poter dire innanzi ai microfoni del mondo “Anch’io (…Posso farlo, credo nel destino, non ho nessun tipo di timore!)” Ed è forse proprio questo uno dei principali crismi interpretativi ricercati dal creatore di una cosa simile, quell’esperto scalatore Heli Putz alla guida del suo collettivo Outdoor Leadership, che ha in tal modo scelto d’offrire il suo contributo ad un parte della generazione di Instagram e Facebook, se non proprio la sua interezza collettiva e priva di suddivisioni sociali. Poiché il sentiero attrezzatissimo di quella che oggi ha preso il nome ufficiale di Intersport Klettersteig (letteralmente: Via ferrata Intersport) rientrerebbe già da principio in una categoria di tipo C/D secondo la classificazione austriaca, grosso modo presso il confine dell’MD (Molto Difficile) secondo la metrica in uso presso i montanari del nostro paese sito all’altro lato delle Alpi. Anche senza prendere in considerazione il piece de resistance dell’ormai celebre Himmelsleiter (“Scalinata verso il cielo”) lunga oltre 40 metri, ricavata da una serie di quattro funi d’acciaio e relative traversine, prima di essere sospesa sopra un ampio baratro tra due cime, del tutto sufficienti a renderla la più tangibile manifestazione biblica di quel sogno che fece Giacobbe riposando nel deserto, mentre fuggiva dal fratello Esaù. “Ed egli vide una scala splendente, la cui cima raggiungeva il Paradiso; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa.”
Ma c’è in effetti ben poco di angelico, nella fruizione di un qualcosa che ha trovato collocazione con l’esplicito obiettivo di attirare il più alto numero d’utilizzatori, alla ricerca di quello che potremmo soltanto definire un approccio particolarmente diretto allo svago tra i confini di questa esistenza terrena. All’interno di una serie di confini operativi, e largamente al di là di essi, spingendo oltre quello che potremmo definire ragionevole dal punto di vista di chi ha poco o nulla da guadagnarci. E non credo fosse esattamente questo, il messaggio veicolato dalle parole di colui che in quel giorno sfortunato avrebbe finito inaspettatamente per lasciarci la vita…