Il grande luogo d’incontro che è Internet permette di confrontare ogni tipo d’esperienza, anche quelle di tipo maggiormente personale e segreto. Come la nozione secondo cui sarebbero in molti a porsi, nel corso dell’infanzia o dell’adolescenza, quella che potremmo forse definire la più basilare delle questioni filosofiche: che cosa rende il colore rosso (o blu, o giallo) per l’appunto, rosso, blu o giallo? E soprattutto quel che ne deriva, ovvero: se ogni persona identificasse ciascuna tonalità come una totalmente diversa, in che modo potremmo comprendere l’effettiva natura del fraintendimento? Giacché non c’è alcuna natura implicita o fondamentale del mondo fisico, che trovi una diversa tipologia di giustificazioni rispetto all’individuazione soggettiva delle “differenze”: l’Alfa, e al tempo stesso l’Omega, di ogni proposito descrittivo immanente.
Chi potrebbe mai affermare, ad esempio, che la piccola tarantola sudamericana della specie Typhochlaena seladonia, con le sue otto zampe affusolate e la coppia di lunghi pedipalpi, sia in qualsivoglia modo simile ad un qualsivoglia aracnide monocromatico, del tipo che vediamo normalmente incorniciato nella ragnatela… Lui/lei con le preziose sfumature azzurre, rosa e verdi metallizzate, le zampe di un violaceo intenso e le strisce giallastre trasversali sull’addome. Abbastanza da giustificare molte pagine e letterali fiumi d’inchiostro, per approfondire lo specifico percorso evolutivo della sua genìa, se non fosse per la natura geograficamente remota del suo habitat naturale: unicamente le zone più selvagge, e remote, dello stato brasiliano di Bahia presso le cime degli alberi più alti, dove è solito ricavare lo spazio semi-nascosto che utilizza per difendere se stesso, e se presente, la sua stessa prole. L’intero genus poco conosciuto dei Typhochlaena prevede infatti sia per il maschio che la femmina, lievemente più grande, un comportamento piuttosto insolito, secondo il quale la creatura ricava uno spazio concavo all’interno dei rami della pianta, per poi coprirne l’unico accesso con un tappo fatto di corteccia, muschio e altra materia vegetale. Facendo di queste insolite tarantole, non più lunghe di due o tre centimetri, l’equivalente arboreo del tipico ragno dalla porta a trappola, anche qui utilizzata con l’obiettivo addizionale di tendere agguati alle potenziali prede. Il ragno classificato per la prima volta dall’entomologo e naturalista tedesco Carl Ludwig Koch (1778-1857) non è infatti un tessitore particolarmente attivo, né a quanto ci è dato sapere un esperto predatore come il ragno lupo o altri membri della sua vasta famiglia, potendo affidarsi unicamente sull’effetto sorpresa e la ricca biodiversità del suo brulicante ambiente di provenienza. Né possiede alcun tipo di veleno clinicamente rilevante, all’interno delle sue zanne o nella fitta peluria che gli ricopre il corpo centrale e gli arti, soltanto lievemente urticante ai danni dei potenziali aggressori. Cionondimeno perfettamente in grado di proteggersi, grazie all’unione operativa tra la capacità di costruirsi una tana mimetica e la colorazione potenzialmente aposematica dell’ingegnosa livrea, il ragno gioiello è andato incontro negli ultimi anni a un ostacolo significativo per la sua continuativa sopravvivenza: l’eccessiva bellezza, tale da farne un ornamento particolarmente apprezzato in ogni tipo di terrario immaginabile all’interno della casa di un collezionista o appassionato di questo settore…
Molte parole sono state spese sulla situazione normativa internazionale della tarantola gioiello, anche in forza della clamorosa quantità di suoi possessori che orgogliosamente affolla gli archivi video di YouTube, senza particolari remore nel mettere in mostra quanto acquistato, generalmente, ad un prezzo assolutamente non trascurabile: si parla di oltre 500 dollari ad esemplare. Benché il ragno infatti, così come tre dei suoi quattro, meno variopinti parenti più prossimi appartenenti allo stesso genere Typhochlaena (costae, paschoali e amma) non sia mai stato dichiarato formalmente a rischio d’estinzione, esso rientra a pieno titolo nell’ordinanza nazionale secondo cui l’esportazione di animali endemici dal Brasile sia formalmente vietata, ragion per cui l’esportazione della piccola creatura dal suo territorio endemico può essere effettuata soltanto mediante i metodi e gli approcci del contrabbando. Una volta fuori dai confini nazionali, d’altronde, il nuovo proprietario non sarà vincolato in alcun modo né costretto a indagare sulla provenienza secondo le leggi di alcun paese, lasciando un notevole incentivo verso chiunque intenda trarre profitto da un simile commercio ed allevamento. Diverso e ancor più grave il caso invece della specie T. curumin, denominata scientificamente sulla base del termine tupi che significa “bambino”, la cui rarità all’interno del proprio stesso areale ne ha fatto una creatura riconosciuta come a rischio critico d’estinzione, anche senza uno spazio specifico all’interno dell’indice dello IUCN.
Non che l’acquisto del T. seladonia, che Koch aveva nominato sulla base di una particolare tonalità di colore a metà tra il verde e l’azzurro in uso nella ceramiche del suo tempo (anche dette celadon, per l’appunto) sia del tutto scevro di pericoli, vista la ben nota fragilità dell’animale che in mancanza di un ambiente ricostruito in maniera ideale, errori nella nutrizione, un eccessivo livello d’umidità o stress, potrebbe semplicemente morire all’improvviso, vanificando la spesa sostenuta per possedere, in maniera meramente transitoria, la sua eccezionale bellezza ultramondana. Molte delle (poche) cose che sappiamo in merito a questa specie soggetto di un numero limitato di studi scientifici, per lo più dedicati al suo aspetto fisico e non a quello ecologico, deriva in effetti proprio dall’ambito hobbistico degli aracnofili, che tanto hanno cercato d’imparare in merito alla giusta maniera di accudire, e quindi prolungare l’esistenza di questa variopinta creatura. Capace di vivere fino a una decina d’anni, secondo la stima più accreditata, appartenendo nonostante le dimensioni ridotte all’infraordine particolarmente antico delle Mygalomorphae, che si accoppiano più volte nel corso del proprio soggiorno su questa terra. Approccio la cui metodologia, è stato accertato, prevede uno spostamento anche significativo dei maschi in cerca della propria signora, culminante in una sorta di danza o balletto, portato avanti con le proprie zampe sui sottili fili che circondano la tana-trappola, presumibilmente infusi di un’aroma feromonico dalla padrona di casa in paziente attesa. Successivamente all’accoppiamento che non sembrerebbe comportare alcun effetto negativo sui propositi di sopravvivenza del consorte (niente vedovanze obbligate, per intenderci) lei deporrà quindi le molte decine di uova all’interno della porta trappola, creando successivamente alla schiusa l’emozionante quadretto familiare che potremmo associare ad un riquadro del calendario dell’avvento; letteralmente ricolmo di pelose zampette ed amorevole soddisfazione materna.
Giunti a questo punto, non possiamo quindi fare a meno di menzionare la consueta osservazione in merito al presente e futuro di qualsiasi creatura ragionevolmente definibile come “rara”, che possa individuare il proprio ambiente naturale soltanto tra le propaggini esterne dell’Amazzonia; quegli stessi luoghi geografici notoriamente soggetti, nelle ultime generazioni, allo sfruttamento tutt’altro che sostenibile per la creazione di nuove coltivazioni intensive atte a migliorare, soltanto sulla carta, il benessere economico di un’intera nazione sudamericana. Così che oggi viviamo il paradosso per cui creature come queste, progressivamente più rare laddove un tempo eran presenti con popolose comunità indisturbate, potrebbero un giorno venire salvate proprio dall’esportazione abusiva, permettendo la reintroduzione in ambienti non ancora devastati dalla costante, spesso irragionevole ricerca del progresso.
Una visione stranamente difficile da evocare, quando si sposta la propria attenzione verso l’esistenza di creature così eccezionali e tanto memorabili nell’aspetto. Poiché qualsiasi invertebrato riesca a mostrare un così alto numero di colori all’interno della propria livrea sembrerebbe possedere un destino di rarità per sua implicita definizione. Semplicemente perché, se ce ne fossero mai stati abbastanza, non riuscirebbe e sembrarci così eccezionalmente speciale. Un po’ come succede ai colori in quanto concetti più o meno soggettivi, individuati nella percezione umana soltanto attraverso l’acclarata persistenza delle loro differenze.