Il gemello segreto che insegue il Sole

Tutto appariva normale, nel braccio periferico del disco della galassia. Ma se lo si guarda da abbastanza lontano, è praticamente sempre così… Quale enorme supernova, che incomparabile disastro, potrebbe risultare abbastanza forte da scuotere in un dato momento l’agglomerato di un milione di stelle? Ogni cosa è importante, in senso cosmico eppure da un certo punto di vista, proprio per questo, quasi niente lo è davvero. Una simile situazione cambia radicalmente soltanto quando un evento si analizza nello specifico, dal particolare verso l’assoluto, immaginando il punto di vista di chi deve vivere (o non-vivere) con le conseguenze di simili cause spropositate. Eppure, come nel caso delle antipatie e differenze tra antiche divinità, che condussero a guerre apocalittiche nell’era delle antiche mitologie, nessuno poteva davvero profetizzarlo. Quando d’un tratto, trascorsi i canonici 26 milioni di anni, ritornò lui. L’astro cupo delle profondità galattiche, una silenziosa nana grigia dalle emissioni praticamente impercettibili, passando attraverso l’agglomerato della nube di Oort. Colui o colei che da sempre aveva condotto un’esistenza del tutto solitaria, senza influenzare o essere influenzato da chicchessia. Tranne che in quei singoli e rari, ma regolari casi, in cui oltrepassando il velo glaciale, era sbucata nell’oscurità oltre l’ultimo dei pianeti. Trascinandosi dietro una certa quantità di meteore e comete. Stiamo parlando, sia chiaro, di un qualcosa di largamente ipotetico. Una risposta, piuttosto che la domanda, relativa al perché, effettivamente, possa essersi verificata a più riprese l’estinzione di un parte significativa della vita terrestre. Che fa da corollario alla celebre teoria del grande impatto, andando ad analizzarne la remota e poco luminosa ragione: la vendetta di un fratello. Il ritorno di un dio offeso. Colui che nascendo assieme alla nostra stella, aveva avuto la peggio, crescendo debole e malaticcio.
Il come e perché ciò potesse essersi verificato, fin dall’elaborazione di questa sfrenata ipotesi verso la metà degli anni ’80 e la denominazione dell’oggetto col nome piuttosto suggestivo di Nemesis, sono rimasti largamente ignoti alla scienza. Finché lo scorso 28 aprile non è stato pubblicato, sul server online dell’università di Cornell, un nuovo studio realizzato da Steven Stahler, astronomo di Berkeley, e la sua collega Sarah Sadavoy, mirato a presentare un’analisi dell’indagine astronomica di tutte le protostelle della nube molecolare di Perseus, sita a circa 230 parsec dal nostro sistema solare, un’operazione denominata VANDAM (VLA nascent disk and multiplicity survey). La precisa catalogazione, sostanzialmente, di una vera e propria forgia galattica all’interno della quale si verificano la serie di reazioni e coincidenze alla base della nascita di un corpo astrale del tutto nuovo. Il procedimento dell’elaborazione di una statistica matematica, si sa, è la strana prassi per cui il frequente verificarsi di un qualcosa lo rende più probabile in futuro. Oppure, in casi ancora più privi di una logica generativa, si presume succedere l’esatto contrario. Fatto sta che all’ennesimo spalancarsi di una simile finestra sull’infinito, in molti casi la sola che abbiamo, è apparso evidente come la maggior parte delle stelle neonate di classe spettrale G2 di Perseus, ovvero le più simili alla nostra, apparissero come parte di un sistema binario distante. Il che voleva dire, sostanzialmente, che esse ruotavano l’una attorno all’altra, a una distanza di circa 500 unità astronomiche, che poi sarebbero 17 più della distanza che c’è tra il Sole e il suo ultimo pianeta, Nettuno. Questo perché, come ampiamente dimostrato dai radiotelescopi del New Mexico usati nel corso del sondaggio, per ciascuna formazione stellare era presente una concentrazione molecolare nota come “ammasso denso” simile a un uovo con due tuorli distinti. Talvolta più distanti, e quindi propensi a separarsi per l’effetto della forza centrifuga rotativa, e qualche altra invece estremamente vicini, inevitabilmente destinati a formare sistemi multipli come quello della vicina Alpha Centauri. Ma il caso del Sole e di Nemesis, per inferenza, dovrebbe essere ancora diverso, ovvero quello di una delle due parti che assorbe una simile quantità di materiale da subordinare la sua controparte, limitando le sue dimensioni sufficientemente da farla restare intrappolata nel suo campo gravitazionale. Con le succitate conseguenze che purtroppo, noi già ben conosciamo. È una strana correlazione di fattori, che ci permette di comprendere qualcosa del nostro più prossimo vicinato attraverso l’osservazione di una realtà sita ad oltre 700 anni luce di distanza. Il che significa, incidentalmente, che stiamo osservando il passato. Ma questo, come si dice, è tutto un’altro paio di maniche…

Le nubi molecolari, come questa di Barnard 68, appaiono in qualità macchie scure nel panorama stellare, oltre cui nessun telescopio convenzionale può sognarsi di penetrare. L’analisi delle loro emissioni radio, tuttavia, permette di comprendere i molti segreti del cosmo.

 

La teoria di Nemesis non ha mai avuto prove dirette, il che in effetti risulta piuttosto strano. I moderni radiotelescopi, tra cui il VLA utilizzato da Stahler, risultano in grado di rilevare le nane grige anche a una distanza molto superiore a quella ipotizzata per il sinistro oggetto. E per quanto concerne la teoria biologica delle estinzioni multiple, precedentemente basata sul confronto di fossili provenienti da ere geologiche distinte, anch’essa può vantare oggi molto meno seguaci rispetto a 20-30 anni fa. Eppure è indubbio che il nuovo studio riporti potenzialmente in auge entrambi le ipotesi, attualizzandole e rendendole in qualche modo più prossime alla nostra inconsapevole esistenza. L’effettivo passaggio occasionale della stella esiziale, tra l’altro, potrebbe giustificare a cascata un’altra stranezza particolarmente inspiegabile: l’esistenza dell’oggetto cosmico Sedna, talvolta associato al mitologico decimo pianeta, Nibiru. Un corpo non meglio definito, che potrebbe ruotare trasversalmente al piano delle orbite solari, ritornando al termine di lunghi periodi a portata della luce stellare, diventando visibile all’improvviso. Osservando la sua grande ellisse persa nel vuoto cosmico, almeno secondo quanto tratteggiato dagli astronomi, sarebbe impossibile non chiedersi che cosa, effettivamente, lo porti periodicamente a tornare sui suoi passi, piuttosto che andarsi a perdere nel vuoto interstellare. È possibile, dunque, che ciò avvenga proprio per la forza gravitazionale di Nemesis, la stella-sorella del Sole? Diciamo soltanto che nessuno, in tutta coscienza, si è sognato di negare completamente una tale vertiginosa eventualità.
Nelle interviste rilasciate alle riviste scientifiche, Stahler si dice fiducioso del fatto che i nuovi dati ormai raccolti quasi quotidianamente, grazie al progresso tecnico di impianti radio come l’ALMA in Cile e lo Scuba-1 delle Hawaii, saranno presto in grado di dimostrare la veridicità del suo studio, cambiando fondamentalmente la nostra comprensione dell’universo. Poiché essi dovrebbero dimostrare, ad un certo punto, che nessuna stella nasce da sola, ma piuttosto si ritrova tale in forza di un evento voluto dal caso, mentre avrebbe potuto altrettanto facilmente verificarsi il contrario. Ed è in effetti altamente improbabile, per non dire del tutto impossibile, che la vita possa svilupparsi nel caos gravitazionale e termico di un sistema binario. Il che, purtroppo, renderebbe l’esistenza di una razza senziente come la nostra ancora più difficile da giustificare. Indipendentemente dall’occasionale scoperta dei pianeti cosiddetti “simili alla Terra” sbandierata con estrema fierezza dalle più svariate pubblicazioni generaliste.

Ecco l’aspetto di un nucleo denso della nube Perseus attraverso l’occhio di un radiotelescopio. Nonostante l’inevitabile bassa definizione, appare evidente la forma marcatamente ovoidale. C’è una strana sorta di delicata armonia, in molti aspetti dell’Universo…

Quando ritornerà, dunque, l’odiata e lesiva Nemesis, a precipitare meteore sulle nostre innocenti teste? Applicando il succitato modulo dei possibili 26 milioni di anni all’estinzione più celebre in assoluto, quella dei dinosauri verificatosi 65,95 Mya, una semplice doppia sottrazione posizionerebbe l’evento ad esattamente 13,95 milioni di anni da questo preciso giorno. Il che, dopo tutto, lo pone come una minaccia piuttosto lontana nel tempo. Benché molto più prossima di tante altre elaborate nel corso dell’ultimo secolo, in forza di osservazioni che finiscono quasi sempre, irrimediabilmente, per essere in qualche maniera inquietanti.
Siamo, dopo tutto, gli abitanti di nient’altro che un’ammasso di fango e terra, costretto a ruotare al massimo della sua velocità attorno a una sfera di fuoco. Mentre altre palle, del tutto prive di considerazione per noi, oscillano attorno, come elementi catartici di disturbo. E se aggiungiamo, a tutto questo, anche un’involucro di stalattiti, pronte ad essere scagliate dalla nube di Oort al nostro indirizzo per il passaggio di un rabbioso fratello dimenticato, il desiderio di migrare altrove inizia a farsi piuttosto preponderante. Almeno se lo proiettiamo in senso ultra-storico verso il nostro più vertiginoso futuro. Perché per il momento, tutto quello che possiamo fare è osservare. E mangiarci le unghie mentre continuano le guerre, la crisi e l’invidia che ci impedisce di fare qualcosa di grande. Ma resta senz’altro palese che un giorno, un’astronave ci servirà. Oppure verrà a farci visita, assieme alla fine infuocata dei tempi già noti? Difficile capire quale sia l’ipotesi più remota. Ma il mutamento dei tempi, non importa quanto epocale, non può tardare per sempre. E un giorno, inesorabile, giungerà per lasciare un segno indelebile sulla storia di tutto il creato.

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