La grande fame di galassie di un ragno cosmico mai sopito

Spazio, ultima groviera: per un formaggio d’Emmental lungo la cui superficie, che potremmo definire in senso lato “curva dello spaziotempo” si susseguono una serie d’aperture verso il nucleo stesso degli eventi. Buchi neri, se vogliamo, scavati per l’effetto di un processo largamente ignoto ma che ben sappiamo caratterizzare, fin dalla sua genesi remota, il senso logico fondamentale dell’Universo. Perché a lungo astronomi, teologi e filosofi si sono interrogati sulla dimensione, diffusione e frequenza degli SMBH o supermassive black hole, gli oggetti astrali simili, nell’aspetto e la funzione, a quello che consegue dal collasso di una stella che ha esaurito i termini della propria millenaria esistenza. Ma che in modo distintivo, presentano una massa pari a milioni se non trilioni di volte quella del nostro Sole. Il che sarebbe possibile, in linea di principio, soltanto dopo un tempo sufficientemente lungo affinché tali estremi poli gravitazionali riescano ad ingurgitare una quantità sufficiente di massa energetica dal cosmo e i sistemi stellari vicini; se non fosse per l’insignificante “dettaglio” che c’è un limite alla quantità possibile di materiale assorbito in un tempo X, causando un’età stimata per alcuni di tali buchi antecedente alla presunta nascita di ogni possibile cosa-che-è.
Big Bang, l’esplosione che in un attimo cambiò e diede l’origine, un po’ come la scoperta pubblicata dall’astronomo Marco Mignoli dell’INAF di Bologna e colleghi alla fine di questo settembre 2020 e che soltanto adesso, per cause scatenanti non del tutto chiare, sta venendo ripresa dalla maggior parte dei quotidiani generalisti alla ricerca di un tema indubbiamente degno di essere approfondito. Questo poiché una simile presa di coscienza, se approcciata con il giusto atteggiamento, può effettivamente trasformare la comune cognizione in merito a cosa siamo e dove ci troviamo, nello schema generale che ci contiene. Tutto inizia il mese antecedente con l’osservazione per un tempo insolitamente lungo, mediante l’impiego dei colossali telescopi dell’ESA presso l’osservatorio del Paranal nel deserto dell’Atacama in Cile, di un settore di spazio noto come z=6.31 quasar SDSS J1030+0524, per la presenza estremamente significativa di uno dei cosiddetti oggetti “quasi-stellari” che dal 1964 sono stati ipotizzati essere, dall’astrofisico statunitense Hong-Yee Chiu, dei dischi d’accrescimento caratteristici del periodo antecedente alla formazione di una nuova galassia. Luoghi tanto luminosi, ed estesi nella loro forma pseudo-globulare, da costituire il fondale perfetto per individuare ciò che, normalmente, virtualmente ed essenzialmente invisibile risulta essere per qualsivoglia tipo di strumentazione umana. Un aspetto niente meno che fondamentale quando si considera come, nella maniera in cui potreste già sapere, ogni osservazione cosmica è in realtà un viaggio nel tempo, dato il tempo necessario affinché la luce possa attraversare i grandi spazi vuoti dell’Universo. Permettendo, in casi talmente estremi, di gettare un letterale sguardo verso le origini stesse del presente stato delle cose.
Ecco dunque, l’inaspettata quanto surreale verità: di un corollario al buco nero collocato in tale area, con una massa stimata attorno al miliardo di soli che lo rende certamente imponente ma neanche tra i maggiori fin qui scoperti, circondato a sua volta da una serie di fonti di luce. Che sono state comprese essere, dopo un tempo ragionevole per l’approfondimento, nient’altro che un minimo di sei galassie giovani, quattro del tipo Lyman Break e due Lyman Alpha Emitters. Ma è stato più che altro ciò che occupa lo spazio tra di loro e il centro di un simile vortice, ad attirare l’attenzione degli scienziati…

In questa breve intervista pubblicata dall’Istituto Nazionale di Astrofisica sul suo canale di YouTube, Mignoli spiega in termini chiari l’importanza scientifica della sua scoperta. Con un titolo e nome per la struttura cosmica “a forma” di ragnatela che si richiama, in un encomiabile tentativo di divulgazione, al ragno magico Aragog, della serie di romanzi Harry Potter.

Un ragno tesse la sua tela, più che altro, nell’aspettativa di acquisire a un certo punto il pasto necessario a soddisfare la sua famelica e continuativa esistenza. Mentre per quanto concerne l’orizzonte degli eventi di un buco nero, non sembrerebbe esserci alcun tipo d’intento o determinazione volontaria, laddove l’attrazione gravitazionale non può fare altro che aumentare in modo esponenziale, sempre più, mentre una certa quantità di materiale sfugge a un simile destino per l’effetto delle radiazioni cosmiche che noi, a centinaia di migliaia di anni luce, riusciamo infine a rilevare. Ed è questa la ragione che ha indotto la branca rilevante dell’astrofisica contemporanea, in tempi relativamente recenti, ad individuare nei buchi neri supermassicci come una possibile “forgia” delle stelle, alle origini del mistero stesso di cosa, esattamente, abbia dato l’inizio a un tale ciclo paragonabile a quello prototipico dell’uovo e della gallina. Così che era già probabile, dal punto di vista teorico, che mentre il nucleo della stella collassata continuava ad attrarre ogni cosa gli capitasse a tiro, parimenti liberasse una parte dell’abnorme energia risultante. Ed ora finalmente, grazie alla ricerca pubblicata sulla Rivista Internazionale d’Astrofisica ed Astronomia, potremmo averne scoperto modalità e ragioni.
La metafora usata con finalità divulgative da Mignoli, ed entusiasticamente ripresa dai giornali che hanno riportato l’argomento, è per l’appunto quella della trappola appiccicosa del ragno, proprio per la presenza di questa serie di filamenti di gas e particelle appena osservabili, che il VLT ha rilevato in posizione intermedia tra il buco e le suddette giovani galassie. Luoghi cosmici che, a questo punto, sembrerebbero essere in qualche modo interconnessi alla sua immane e quasi immisurabile presenza. Ciò che caratterizza il presente caso, rispetto a configurazioni simili scoperte in precedenza, è proprio l’evidente antichità del buco nero supermassiccio in questione, che in base alla sua distanza possiamo stimare risalire a meno di un miliardo dalla genesi stimata dell’Universo stesso. Il che ci permette d’ipotizzare, per la prima volta, che le sei galassie siano in qualche modo non il prodotto, bensì il pasto necessario a giustificare l’esistenza stessa di un così cospicuo aracnide aguzzino, incapaci di sfuggire non soltanto al suo potere d’attrazione, bensì a uno schema originario del destino che in qualche maniera attraversa, subdolo e non visto, ogni possibile regione dello scibile immanente. Sto parlando dell’invisibile ma onnipresente materia oscura, che alcuni credono presentarsi come una sorta di rete o griglia, lungo le cui maglie potrebbe aver trovato disposizione, per l’appunto, la rete gassosa che interconnette la rivoluzionaria scoperta degli astronomi dell’ESA.
Comprendere l’effettiva portata di una tale osservazione potrebbe quindi non risultare particolarmente intuitivo, finché non si considerano le sue effettive dimensioni: stiamo parlando infatti di un’area di spazio paragonabile a circa 300 volte l’estensione dell’intera Via Lattea, la cui eminente presenza potrebbe essere soltanto, nei fatti, la punta di un iceberg in grado di cambiare la nostra cognizione stessa dell’Universo. Data la difficoltà nel rilevare tale ragnatela, scovata solo grazie alla presenza fortunata della quasar nella sua specifica sezione di cielo, non è difficile valutare la possibile esistenza di una quantità enorme di strutture simili, per ciascun buco nero massiccio sufficientemente antico, destinate ad essere scoperte man mano che i telescopi disponibili migliorano le loro prestazioni, permettendo di sfruttare come fonti di luce direttamente le stesse galassie giovani di tipo LBG ed LAE, veri e propri mattoni all’origine del cupo ragno al centro della sua incorporea tana.

Valido e da sempre utile, allo scopo di approfondire i più occulti misteri delle galassie, si è saputo dimostrare lo strumento della tecnologia. Ben pochi telescopi, d’altra parte, possono vantare gli oltre 8 metri di diametro dello specchio posto all’interno del VLT in Cile, che per l’ennesima volta si è dimostrato in grado di giustificare i costi niente affatto trascurabili della sua continuativa esistenza.

Conseguenze pratiche nell’immediato, di una tale osservazione fatta in un’epoca di grandi difficoltà geopolitiche e sociali dovute all’attuale situazione pandemica, risultano difficili, se non impossibili da identificare. Sebbene resti consigliabile rivalutare in sua funzione, almeno in parte, alcuni dei concetti pre-acquisiti che potremmo essere arrivati a dare per scontato sul nostro effettivo stato d’esistenza.
Primo tra tutti, quello secondo cui stelle, galassie o buchi neri, monadi essenziali che galleggiano in mezzo a un grande nulla, possano esistere senza nessun tipo d’interconnessione tra i diversi aspetti della loro immemore esistenza. Laddove nessun oggetto, concettualmente, può esser definito “un’isola”… Così come l’uomo non potrà mai essere davvero solo, in quanto essere senziente e dotato di un’anima, nell’Universo? Ed a questo punto sull’approfondire la risposta a un simile interrogativo, forse il più importante ogni qualvolta si discuta di situazioni cosmiche al di là della coscienza, consiglierei una moratoria temporanea di qualche mese. Dopo tutto, il 2020 è ancora lungo e non sia mai che entro Natale, quanto successo fino ad ora non finisca per sembrare un semplice antefatto del catartico main event.

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