I dannati sulle isole perdute di New York

Nel 1614, quando i coloni finanziati dalla Compagnia olandese delle Indie occidentali giunsero per la prima volta in massa presso le acque di quello che sarebbe diventato l’East River, autostrada d’acqua nel bel mezzo della city newyorkese, loro erano già lì: De Gesellen, i compagni. E ci sono ancora, benché si siano riscoperte consanguinee tra di loro, diventando Brothers – fratelli. Due isolette che si guardano, in grado di attrarre l’interesse dei misantropi che passano di lì. Perché sembra impossibile, che possa esistere un luogo completamente abbandonato nel bel mezzo di una delle metropoli più grandi e celebrate al mondo, poco prima della baia in cui si trova la terza “sorella” Ellis, con il plinto che ospita l’intramontabile Statua della Libertà. Possibile che a nessun fautore dello sviluppo urbanistico programmato, o costruttore edilizio,  o altro tipo di speculatore delle proprietà immobiliari, sia mai venuto in mente di impiegare queste terre emerse in modo utile all’allora nascente società delle colonie americane? Il fatto è che di spazio, in origine, ce n’era in abbondanza. Così che per quasi due secoli, costruire i propri edifici presso un luogo scollegato dalla terra ferma non avrebbe portato alcun vantaggio degno di nota. Finché nel 1850, a qualcuno non venne in mente di spostare qui l’ospedale dell’isola più grande di Blackwell, poco più a monte in quel canale ormai altamente modificato dall’uomo. Ma con un approccio progettuale totalmente differente: alte pareti, solide cancellate, porte chiuse a chiave e ben pochi infermieri, abbastanza coraggiosi ed abili da mantenere le distanze. Volete conoscerne la ragione? Questo divenne ben presto il luogo in cui la città di New York teneva i suoi abitanti più temuti e al tempo stesso, considerati indegni di attenzione: coloro che rimanevano colpiti dalla malattia del vaiolo. In un’epoca in cui la vaccinazione era ancora guardata con estrema diffidenza, e l’umanità non possedeva alcun tipo d’immunità del branco, il concetto di lazzaretto sopravviveva immutato, essenzialmente fin dall’epoca degli antichi, offrendo un terreno fertile a ogni sorta di sgradevole iniquità. Le malattie infettive colpivano preferibilmente nei luoghi sovraffollati, coinvolgendo intere famiglie disagiate, che da uno stato d’indigenza sostanziale venivano rapidamente deportate in questi luoghi dove, tanto spesso, incontravano una morte atroce. Nonostante gli esperimenti di Pasteur del 1796 coi microbi e i vetrini, l’opinione del senso comune, nonché purtroppo il consenso tra molti professionisti della sanità, era che le epidemie nascessero dai miasmi dello sporco e del disagio, in una sorta di generazione spontanea comparabile a quella delle larve putrefacenti nella filosofia di Aristotele, che l’aveva elaborata 14 secoli prima a partire dalle inesistenti conoscenze scientifiche dei suoi tempi remoti. Una situazione che, ben presto, sarebbe cambiata. Proprio grazie alla figura di una donna destinata a rimanere, negli annali della storia, perennemente legata all’isola fratello del Nord, la più grande delle due.
La legge del karma, prodotto di un metodo assai distante di vedere il mondo e la società, è sostanzialmente diversa dal concetto di un angelo vendicatore, perché riguarda unicamente ogni singolo individuo, ed è il prodotto delle sue stesse gesta. Mentre il volere dell’Onnipotente non colpisce mai i deboli, ma proprio coloro destinati al Paradiso, perché credono maggiormente in lui. Ecco a voi un esempio, se dovesse mai servire: nel 1904, la nave a vapore PS General Slocum (che per i molti incidenti subiti, si diceva fosse maledetta) si trovava a navigare presso le due Brother Island, quando all’improvviso, un’incendio si scatenò a bordo. Delle 1.342 persone a bordo, quasi tutti membri della Chiesa Evangelica Luterana di St. Mark che si stavano recando ad un pic-nic, ne sopravvissero soltanto 321, ovvero quelli che avevano avuto la fortuna, e la capacità, di raggiungere a nuovo le vicine rive dell’isola-ospedale, attendendo lì i soccorsi inviati dalle autorità civili. Fu il più grande disastro subito dalla città di New York fino all’attentato delle torri gemelle, e resta tutt’ora il secondo per numero di vite umane perdute al mondo. Ma pur costituendo il più grave e terribile fatto di storia legato alla storia delle due isole dell’East River, non resta probabilmente il più famoso. Un primato legato invece al personaggio di Mary Mallon, cuoca, irlandese, forte di carattere e di fisico, portatrice sana della febbre da tifo. Che potrebbe aver ucciso, con la sua negligenza più o meno intenzionale, un numero stimato di fino ad oltre 50 persone.

L’ospedale di North Brother fu abbandonato per la prima nel 1938, per riaprire brevemente, dopo la seconda guerra mondiale, come comunità per riabilitare le vittime dell’eroina. Ma anche quell’esperimento fallì, per i metodi inadeguati e il conseguente immediato ritorno dei pazienti alle vecchie abitudini. Privi di manutenzione, gli edifici caddero ben presto in rovina.

Sul chi fosse, realmente, questa donna e da dove avesse origine la sua problematica condizione, molte parole sono state spese, assieme a biografie, romanzi ed attente ricostruzioni televisive. Tutto ciò che sappiamo per certo, è che ella aveva contratto in giovane età la condizione nota come tifo addominale (ileotifo) e il suo organismo, trovando la forza chissà dove, aveva fatto tutto il necessario per debellarlo. Senza riuscirci. Oggi, teorie scientifiche ritengono che i macrofagi della Mallon, cellule associate ai globuli bianchi, avessero acquisito l’abilità di convivere con i batteri del terribile malanno, inglobandoli e mutando per in una sorta di soluzione di compromesso. La donna, quindi, pur scoppiando a tutti gli effetti di salute, costituiva un ricettacolo vivente, ovvero la sostanziale personificazione della morte stessa. Considerate questo: il microrganimo che provoca il tifo, pur essendo molto contagioso, non ha capacità d’infezione particolarmente sviluppate: occorrono nei fatti almeno 10.000.000 di batteri perché soltanto il 50% delle persone nel suo raggio d’azione subiscano gli effetti della malattia. Proprio per questo, quando un certo numero di famiglie appartenenti all’elite newyorkese cominciarono ad ammalarsi, gli enti preposti alla sanità iniziarono a farsi la fondamentale domanda del come, e perché, la più letale delle febbri avesse infine varcato la soglia della povertà. In quell’epoca la Mallon, per ragioni che successivamente divennero fin troppo chiare, era solita cambiare spesso posto di lavoro: tra il 1900 e il 1907 lavorò in sette famiglie differenti nella zona di Oyster Bay. Ogni volta, nel giro di poche settimane la sua famiglia ospitante sviluppava i sintomi del tifo. Una lavandaia perse la vita. Verso la fine del periodo, prese un impiego presso casa di un avvocato. 6 delle 11 persone che vivevano sotto lo stesso tetto contrassero la malattia. Una casistica considerata inusuale in quel periodo e zona, tanto da convincere il dipartimento cittadino della salute ad assumere uno specialista epidemiologo, George Soper, che sorprendendo forse i suoi stessi committenti, prese a svolgere un lavoro che non differiva troppo da quello dell’investigatore privato. Come in una puntata del Dr. House, l’uomo iniziò a comparare i possibili fattori, scoprendo con immediata soddisfazione che ciascuna delle famiglie colpite aveva cambiato da poco la cuoca. Quindi gli riuscì di rintracciare la stessa Mallon, che si era già trasferita presso una grande villa di Park Avenue. Segue una scena particolarmente famosa, in cui lo scienziato, presentandosi formalmente alla donna, si offrì di aiutarla con estremo tatto e diplomazia. Se non che, giunto l’inevitabile momento in cui egli dovette chiedergli campioni di feci ed urina, la cuoca impugnò un forchettone e lo inseguì fino all’altro lato della strada. Il primo capitolo della missione, a quel punto, poté dirsi concluso. Con un completo fallimento.

Oggi North Brother Island, con tutti i suoi spettri, ricordi e le macerie, costituisce una destinazione particolarmente amata dai cultori dell’URBEX, l’esplorazione urbana, che vi si recano abusivamente per girare dei video. Essa è inoltre un importante santuario per gli uccelli, dove nidifica l’airone blu.

Ma Soper non era tipo da perdersi d’animo, ed a seguito dell’esperienza iniziò un percorso paragonabile per certi versi al confronto tra il vampiro della Transilvania e il mitico Van Helsing, cacciatore dei rappresentanti di Satana su questa Terra. In breve tempo chiese, ed ottenne, che la portatrice sana fosse arrestata e trasportata sull’isola di North Brother, come individuo potenzialmente pericoloso per la società. Era il 1907, e la questione ebbe un’enorme risonanza sui giornali del tempo: era davvero possibile che una persona perfettamente sana, ovvero priva di sintomi visibili, potesse trasmettere una malattia letale? Nulla di simile era stato comprovato, a memoria d’uomo, nella scienza medica moderna. Fotografie e ritratti della cuoca vennero diffusi ai quattro venti. Finalmente, grazie alle analisi cliniche che vennero effettuate forzosamente, Soper dimostrò la presenza di un nucleo di batteri terribilmente possente nella vescica della donna. Colpito dalla gravità della situazione, si offrì quindi di farla operare gratuitamente rimuovendo l’organo, e con esso il problema principale della sua vita. Ma ella, non capendo o non volendo capire, ancora una volta si rifiutò. Ciò che avvenne dopo, ha dell’incredibile: Typhoid Mary si trovò un ottimo avvocato, il due volte candidato repubblicano George Francis O’Neill, avvocato di fama con forti legami con la comunità irlandese. Lavorando con lui, quindi, pur non riuscendo a vincere nessun appello, gli riuscì d’instillare il dubbio nell’opinione popolare che nulla di quanto era stato detto fosse reale, e che in effetti lei non aveva fatto nulla di male. Finché nel giugno del 1909, per intercessione del giudice Erlanger e del commissario per la salute Eugene H. Porter, non si decise che la donna dovesse essere liberata, a patto che “non svolgesse più le mansioni di cuoca e facesse il dovuto per salvaguardare l’altrui salute.” Ella giurò con enfasi di farlo. Quindi, non lo fece. Dopo qualche settimana trascorsa lavorando come lavandaia, per uno stipendio da fame, Mary Mallon cambiò nome, si trasferì e riprese a fare la cuoca. Non è noto quante altre persone furono così infettate, finché nel 1915, mentre si trovava presso l’ospedale di Sloane a New York, non gli capitò di contagiare ben 25 persone, di cui 2 persero la vita. A quel punto, le autorità intervennero immediatamente e lei, per una volta, si arrese senza prestare alcun tipo di resistenza. Da quell’anno fino al 1938, completamente dimenticata dall’opinione pubblica assieme all’isola presso cui risiedeva, avrebbe trascorso il resto della sua vita confinata nella vecchia tenuta del direttore dell’ospedale, dove morì di polmonite all’età di 69 anni. L’autopsia portata a termine successivamente al decesso dimostrò come, nella sua vescica, la coltura di batteri del tifo fosse ancora più vivace e pericolosa che mai. Il giudizio dei posteri su Typhoid Mary è duplice: da una parte, c’è chi fa notare il suo costante tentativo di eludere le autorità, causando il contagio per la cattiva abitudine di non lavarsi le mani. Possibile che non ci fosse un intento malefico in tutto questo? Del resto, è anche vero che quasi due secoli fa l’igiene era ancora un concetto alieno, e comprensibilmente, ella non credette mai all’ipotesi di essere la prima portatrice sana di una malattia tanto grave.
La sua vicenda, ad ogni modo, offre lo spunto per ragionare sulla figura da sempre temuta dell’untore, completamente diversa dal diavolo feroce che si tendeva a farne fin dall’era medievale. In realtà nient’altro che un essere umano come tutti gli altri, anzi addirittura, ancor più sfortunato sulle strade della sua breve vita. Mary ebbe un solo amore nella sua vita, un uomo assuefatto all’alcol di nome Breihof. Che molto prevedibilmente, morì di tifo. Credo che questa, se mai ce ne fosse stato bisogno, costituisca una punizione sufficiente per qualunque peccato.

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