Un foro verticale che si apre nel terreno erboso, definito in modo popolare The Bowl, la ciotola. Dove in determinati periodi dell’anno al pubblico è permesso avventurarsi, tramite il possibile sentiero d’accesso di tre adiacenti scalinate dalla forma circolare. Proprio qui, non troppo distante dagli alloggi dei soldati non più esistenti, a loro volta collegati ai profondi scavi ed edifici residui di una delle prime e più notevoli fortificazioni dell’Inghilterra Moderna. Al termine della discesa, dunque, una comune strada cittadina, originariamente territorio d’innumerevoli taverne e cosiddette case di malaffare. Di sicuro, un collegamento tanto diretto e nascosto a sguardi indiscreti tra l’alto castello necessario e il centro esatto di un insediamento portuale non era in genere comune nella pianificazione della difesa di una nazione. Benché nessuno avrebbe potuto negare l’esigenza fortemente percepita che aveva portato alla costruzione delle Western Heights, possenti mura sopra quelle costruite dalla stessa Natura nell’irto tratto di costa doveriano.
La fine del XVIIII secolo fu l’epoca in cui le antiche ostilità tra Francia e Inghilterra, impiegate come punto di partenza per molti ambiziosi e irrealizzati progetti di conquista durante gli anni dell’Ancien Régime. Finalità considerata irrealizzabile per lunghi anni fino al 1779, quando all’apice dei conflitti scaturiti dalla Dichiarazione d’Indipendenza Statunitense una nuova alleanza tra il governo di Luigi XVI diede supportò un’alleanza ritrovata con la Spagna, mirata a costituire una grande flotta che avrebbe dovuto, idealmente, approdare sulla terra emersa di Wight, per poi catturare la base navale di Portsmouth e marciare incontrastati verso la capitale. Fattori contingenti, tra cui difficoltà climatiche nonché lo scoppio di un’epidemia, impedirono il concretizzarsi del progetto. La ritrovata unità nazionale sorta successivamente alla Rivoluzione costituì perciò la base di molti paralleli progetti, mirati a realizzare il concetto meramente teorico di un Impero che potesse estendere i propri confini al di qualche limitata colonia in Africa e nel Nuovo Mondo. Con la nascita della monarchia costituzionale nel 1791 fu steso un ulteriore piano che avrebbe avuto inizio con lo sbarco in Irlanda il quale, ancora una volta, fallì a causa di tempesta inaspettate e mancanza di coordinamento. La ritrovata unità nazionale sorta successivamente alla Rivoluzione, ed ancor più in seguito grazie all’ascesa incontrastata di Napoleone, costituirono perciò la base di molti paralleli progetti, mirati a realizzare finalmente quel concetto meramente teorico di un Impero senza rivali dentro e fuori dai confini europei. Ciò portò al rinnovato “Grande Piano”, largamente noto e discusso da ambo i lati per almeno mezza decade a partire dal 1798, mediante cui i francesi avrebbero attraversato la Manica con un qualche tipo di flottiglia, pallone aerostatico o speciale zattera fortificata, previa potenziale messa in opera di un sofisticato piano di diversione ai danni della flotta inglese. Ciò che i loro acerrimi nemici settentrionali sapevano anche troppo bene, tuttavia, era come per riuscirci essi non avrebbero potuto fare a meno di conquistare il porto di Dover, aggirando o superando in qualche modo un ostacolo paesaggistico di entità tutt’altro che trascurabile: l’eponima, candida scogliera già alla base d’innumerevoli fortificazioni costruite sia in epoca Romana che nei tempi del Medioevo. E fu qui, in maniera pienamente condivisibile, che all’ufficiale degli Ingegneri di sua Maestà, William Twiss, venne dato l’incarico di costruire il complesso destinato a ricevere, ancora una volta, il leggendario soprannome di chiave d’accesso per la sacra terra di Albione…
Jacopo
I molti record di Rogfast, tunnel norvegese che trafiggerà il fondale marino del fiordo
Ormai da sette anni, potenti macchine producono rumori roboanti sotto un tratto di mare che potremmo definire come principale passerella automobilistica a vantaggio di balene e gabbiani dell’Atlantico del Nord. Là dove i veicoli del consorzio umano vengono ordinatamente caricati sopra imbarcazioni del fiordo di Bokn, quindi condotti all’altro capo come parte di un viaggio di gran lunga troppo ordinario per poter essere chiamato avventuroso. Troppo frequentemente ripetuto, onde mantenere sufficientemente alta la soglia d’interesse dei suoi annoiati praticanti. Il quale tenderà nei prossimi anni, in forza di ciò, a diventare totalmente obsoleto. Quando i grandi bruchi sotterranei sotto il fondale, partiti rispettivamente da Randaberg e Bokn, s’incontreranno al centro esatto di quel sito sotterraneo, completando i 27 Km del più lungo e profondo tunnel sottomarino costruito nella storia del mondo. Un buon punto d’arrivo se non fosse, più che altro, tappa intermedia verso il più ambizioso degli obiettivi comunitari.
Uno degli stereotipi perpetuati a livello internazionale può riassumersi nell’opinione secondo cui gli abitanti d’Europa non capirebbero le lunghe distanze. Di un continente relativamente piccolo e compatto, dove la relativa densità dei confini nazionali e centri urbani privilegia ulteriormente gli spostamenti brevi, favorendo l’acquisto di automobili meno potenti, l’utilizzo dei mezzi pubblici e le aspettative in merito a infrastrutture stradali capillari e ben funzionanti. Laddove il punto chiave è situato proprio in corrispondenza di quest’ultimo aspetto, coadiuvato dal modo in cui ben pochi luoghi nel centro pulsante del Vecchio Mondo possano essere paragonati ai grandi tratti pianeggianti nelle zone centrali di Nordamerica, Russia o Cina. E questo senza entrare poi nel merito di luoghi dalle problematiche ed aspetti particolari, come la parte esterna della propaggine abitabile chiamata complessivamente “Scandinavia” di cui la nazione norvegese presenta svariati aspetti paesaggistici del tutto privi di paragoni. Tra cui un entroterra troppo accidentato ed una costa, modellata dagli eoni geologici di ghiacciai e scongelamento, scoscesa e frastagliata quanto il taglio di un vecchio attrezzo da giardino. Trattandosi cionondimeno del settore longilineo maggiormente popoloso ed economicamente rilevante al di sotto del Circolo Polare Artico, grazie alla disposizione, come anelli di una lunga collana, di una significativa serie d’insediamenti dalle dimensioni più disparate. Così da motivare già agli albori dell’epoca moderna, lungo un asse che si estende per 1.330 Km, la costruzione di una delle arterie stradali più importanti, assumendo in seguito l’appellativo di Europavei o “Strada Europea” 39. La quale presentava, d’altra parte, un significativo problema nella lunga quantità di attraversamenti tramite l’impiego di traghetti con un tempo di percorrenza medio tra i 20 e 40 minuti, in grado di incrementare i tempi di percorrenza per l’intero tragitto a fino a 21 ore per un automobilista moderno. Praticamente il tempo equivalente a percorrere circa il doppio del tragitto spostandosi tra le città statunitensi di New York e Dallas…
La spietata lama di un popolo che non impiegò mai alcun tipo di metallo in battaglia
Verso la fine della decade del 1670, una bambina molto malata della città di Santa Fe in quella che allora aveva il nome di Nuova Spagna venne portata a pregare presso la chiesa costruita inizialmente dai Francescani che si erano stabiliti due terzi di secolo prima nei territori dell’area mesoamericana. Allora posta innanzi alla statua lignea della Madonna, una pregiata opera d’arte proveniente da Toledo, ricevette in una visione in cui quest’ultima gli apparve luminosa, avvisandola del pericolo imminente: “Entro pochi mesi, figlia mia, le genti del Pueblo si ribelleranno. Molti spagnoli verranno uccisi e le case del Signore date alla fiamme.” Nel 1680 tale profezia, immediatamente riferita al vescovo della città, si avverò portando a morti e devastazioni, finché la folla inferocita guidata dai capi dei villaggi non giunse alla capitale, avendo devastato ogni cosa proveniente dall’Europa incontrata sul proprio cammino. In quella stessa navata, dunque, un guerriero particolarmente alto ed imponente si avvicinò alla statua. E sollevando una pesante mazza seghettata, vibrò un colpo poderoso inteso a distruggere completamente l’icona della Vergine. Ma la sua inquietante mazza in legno e taglienti schegge di pietra, piuttosto che frantumarla, rimbalzò lasciandogli soltanto un segno obliquo sulla fronte, come una cicatrice. Tanto che anni dopo una sofferta pacificazione, dopo la riconquista degli spagnoli guidata dal governatore Diego de Vargas, essa sarebbe diventata nota come Nuestra Señora de la Macana, con riferimento all’arma lignea diventata simbolo dei popoli di quest’intera area geografica e non solo, essendo attestata anche tra i Maya dove prendeva il nome di hatz’ab o hadez’ab. Essendo declinata in molte differenti iterazioni, di cui la più famosa resta senza dubbio la cosiddetta “spada” dei popoli Mēxihcah, avendo un peso e modalità d’impiegò non così distanti, almeno in linea di principio, dal simbolo metallurgico della cavalleria europea. Ciò benché i materiali impiegati per l’iconica macuahuitl siano profondamente ed intrinsecamente condizionati dalle conoscenze tecnologiche di un ramo della civiltà umana in cui la lavorazione dei metalli, pur essendo conosciuta, trovava l’impiego unicamente nella costruzione di ornamenti ed oggetti sacri da impiegare nei rituali. Ragion per cui svariati millenni prima dell’inizio del colonialismo, si ritiene che l’antico popolo degli Olmechi avesse già posto le basi per questa sapiente applicazione dell’ingegno bellico, consistente nell’impiego del resistente legno di mesquite (Prosopis spp.) acacia (Vachellia farnesiana) o tepehuaje (Lysiloma acapulcense), arbusti ancora oggi celebri per la loro resistenza nella costruzione di un particolare tipo d’implemento d’offesa. Piatto ed allungato, in maniera non dissimile da un’odierna mazza da cricket, ma perforato in più punti al fine di permettere l’adesione mediante colle vegetali del principale tipo di lama in uso fin dall’età della pietra: un pezzo di pietra d’ossidiana sottoposto a scheggiatura fino all’ottenimento di un prisma. La cui capacità di taglio molecolare poteva avvicinarsi, in condizioni ideali, a quella di un bisturi in uso delle pratiche chirurgiche della medicina moderna…
La trasformazione robo-iconica di un androide nell’incubo notturno della donna ragno
All’incirca 7 milioni di anni fa, nella fascia di territorio africana nota come piana del Sahel, alcuni esemplari di ominide iniziarono a mettere in pratica una strana metodologia di deambulazione. Eretti sulle gambe posteriori, alti e instabili, essi guadagnarono immediatamente alcuni importanti vantaggi, tra cui la predisposizione ad osservare in lontananza, scorgendo in anticipo il pericolo di tigri dai denti a sciabola ed immensi orsi primitivi. Per non parlare della liberazione degli arti anteriori dal bisogno di sostenere costantemente il peso della testa, dedicandoli primariamente alla sistematica manipolazione di oggetti e strumenti. Approccio modale non costante, almeno all’inizio, la postura eretta implicò profonde modificazioni muscolo-scheletriche, diventando totalmente obbligatorio entro una manciata di generazioni. Ciò cambiò essenzialmente, cosa volesse dire essere dei proto-umani comportando nel contempo una significativa perdita di velocità, agilità e versatilità nell’arrampicarsi attraverso un certo tipo di territori. Tanto oggi ora la più funzionale via creativa in grado di condurre alla riproduzione di quell’asse dell’evoluzione, il campo della robotica, sembra soprattutto incline a imporre ai propri figli di metallo & cavi la stessa serie di punti forti accompagnati dalle debolezze intrinseche, sebbene tali esseri del mondo attuale non abbiano il bisogno di scrutare innanzi la savana, né alcun bisogno di essere simmetrici nella disposizione di una quantità e tipologia di arti che risulta più che mai arbitraria. Eppure con l’imposizione pressoché automatica delle logiche dell’economia di scala, i primi automi veramente indipendenti che hanno popolato l’interscambio del mercato globale sembrerebbero effettivamente appartenere a due categorie: un quadrupede chiamato convenzionalmente “cane” ed il cosiddetto androide, a noi simile in qualsiasi aspetto tranne volto, pelle, ossa, muscoli ed organi assembrati attorno al vivente marchingegno del sistema nervoso centrale. L’ultima e forse maggiormente iterazione del quale, può essere individuata nel prodotto largamente programmabile della compagnia cinese di Wang Xingxing, la Unitree Robotics, dal costo unitario di 13.000 dollari ed il nome commerciale alquanto descrittivo di G1 – Humanoid Agent Avatar. Un cui esemplare oggi sappiamo essere stato acquistato, nella primavera del 2025, dall’appassionato del settore nonché possessore di un curriculum pregresso nel campo della programmazione Logan Olson, proprietario di un profilo su X dove appaiono periodicamente i risultati dei suoi esperimenti non del tutto privi di una chiara ed evidente verve creativa. Tra cui l’ultimo e di gran lunga più apprezzato dal pubblico di Internet, che aveva preso come pretesto la ricorrenza di Halloween per fare un qualcosa che nessuno aveva mai tentato fino ad ora: insegnare al suo fedele servitore cibernetico una particolare mossa egualmente familiare ai cinefili e gli amanti dei videogames. Quella consistente, in parole povere, nel chinarsi in modo innaturale a terra, per incedere mediante l’uso di gambe e braccia piegate ad angolo, in un modo che ricorda sottilmente alcune categorie d’insetti o aracnidi, passando per la bambina posseduta ne “L’Esorcista” o il perverso combattente Voldo nella serie di picchiaduro Soul Calibur. O ancora e in modo più calzante, le guardie artificiali diventate ostili all’umanità nella stratificata arcologia decaduta dell’opera di animazione dal manga di Tsutomu Nihei, Blame…



