L’irresistibile tentazione di passare in volo sotto i monumenti di Parigi

Avete mai sentito parlare di un certo Charles Godefroy? Uno degli aspetti più importanti per comprendere il processo di maturazione e sdoganamento del trasporto aereo tra le due guerre è quello implicato dalle gesta estreme dei primissimi aviatori militari, perennemente in cerca di una valvola di sfogo dopo il termine degli anni eroici, combattuti lungo il filo di un affilatissimo rasoio. Molti uomini e qualche donna per cui l’evanescente linea di demarcazione tra ragionevolezza e follia era già stata ampiamente superata, nel momento in cui avevano deciso di salire sopra quegli instabili, sferraglianti, lentissimi biplani, dimostrandosi del tutto incerti della loro stessa imprescindibile mortalità. Al primo ventennio dell’età del volo, dunque, ne seguì un secondo, durante cui ogni possibile manovra venne messa in atto, qualsiasi prototipico granaio attraversato, ciascun potenziale aeroporto di fortuna improvvisato, in mezzo a campi, piazze o altri luoghi precedentemente ameni. Sarebbe tuttavia un gran peccato, per non dire il più formale degli errori, tralasciare di far risalire tutto questo al singolo e drammatico gesto, che avrebbe fatto trasalire ed inalberare nel 1919 una significativa porzione dei gendarmi di Parigi.
Erano in effetti ormai trascorsi esattamente 14 giorni dal l’atteso evento della parata del 14 luglio sugli Champs Élysées per la fine della grande guerra, quando un’ombra impossibilmente sfocata e rumorosa fece la sua comparsa sopra il corso della Avenue de la Grande Armée, costringendo i passanti a sollevare lo sguardo per tentare un qualche tipo d’identificazione: “È un uccello! È uno pterosauro dell’Alto Mesozoico! No, mie care Madames et Messieurs, si tratta di un bebè.” O l’aereo Nieuport XI, per essere precisi, in tal modo battezzato per le dimensioni alquanto compatte rispetto ai suoi contemporanei, sia in termini di lunghezza (5,80 metri) che per l’apertura del suo paio di ali sovrapposte (7,55 metri) in grado di donargli un certo tipo di agilità, tutt’altro che superflua nei conflitti a fuoco combattutosi recentemente nei cieli tersi d’Europa. Una dote che ben presto si sarebbe dimostrata, ancora una volta, niente meno che determinante: poiché in modo inesorabile, l’aeroplanino in questione andava procedendo verso ciò che sin dall’epoca della vittoria Napoleonica di Austerlitz, graziava il culmine dell’importante arteria di collegamento cittadina, al centro di una piazza circondata, come un orologio, da dodici possibili punti di fuga in configurazione radiante. E fu così dunque, con somma sorpresa dei presenti, che l’oggetto volante identificato puntò dritto verso l’Arco di Trionfo e dopo un attimo saliente, sembrò scomparire integralmente al suo interno. Per riemergere gloriosamente, dopo un singolo attimo d’esitazione, all’altro lato! Oh gioia, oh giubilo! Il torto era stato ripagato. L’umiliazione, reale o percepita, di un’intera classe di aviatori…

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Il fragile decoro metropolitano di una casa inesistente

Lord Savington calcò meglio il suo cilindro con un fiero gesto della mano destra, mentre aggrottando le sopracciglia rivolgeva una domanda al giardiniere Adam della sua tenuta, fabbro a tempo perso, che l’aveva accompagnato nel corso di un così strano e disdicevole frangente: “Che cosa intendi, questa porta non ha neanche la serratura?” Gli uccelli cantavano tra gli alberi della tranquilla Leinster Garden, strada in stile vittoriano posta a costeggiare il lato settentrionale di Hyde Park, graziata dal silenzio che soltanto un quartiere di abitanti facoltosi poteva avere verso i mesi di luglio ed agosto, quando la maggior parte di loro si era spostata in campagna o verso altre località distanti, abituali luoghi di ritrovo dell’alta società londinese. “Signore, mi dispiace ma sospetto che si tratti di uno scherzo dell’agenzia immobiliare. Sono mesi che cerca una seconda residenza da utilizzare nel corso dei sopralluoghi all’interno della city, e tutti sanno cosa pensa delle perdite di tempo e del suo corrispondente presso di loro, a seguito di del vostro alterco all’ippodromo di Sandown Park durante la corsa del 1836. Se si tratta davvero di una così splendida occasione, perché non ha mandato qualcuno ad accoglierci, stamane?” Ora alcuni ragazzi di strada, provenienti da un vicolo laterale, si erano assiepati all’altro lato del marciapiede, probabilmente richiamati dallo sferragliare del grosso paio di tenaglie portato da Adam per varcare eventuali usci recalcitranti sulla loro strada: “Del resto l’avevamo anche sospettato…” Quando a un tratto, costui tacque. Perché guardando negli occhi il suo datore di lavoro, aveva scorto quella luce particolare che indicava il punto di non ritorno, l’attimo in cui Lord Savington aveva scelto che non sarebbe tornato indietro a nessun costo, dimenticando ogni possibile implicazione ulteriore o eventuale conseguenza. “Passami gli attrezzi del mestiere, per favore; credo di aver sentito un suono in lontananza e c’è qualcosa che non torna” Un boato riecheggiò tra le colonne vagamente neoclassiche e nell’aria tremula per il calore, mentre un individuo dal bastante rango, come raramente capitava, faceva valere i privilegi e il vasto spazio di manovra derivante dalla propria posizione. Quindi un secondo e un terzo: adesso innanzi agli occhi rassegnati del compunto dipendente, l’uomo stava percuotendo selvaggiamente il pannello in rovere del varco, che iniziava a creparsi. Adam ebbe appena il tempo di gettare uno sguardo all’indirizzo dei ragazzini, che ormai sorridevano come delle jene dell’Africa Nera, descritte negli articoli su David Livingstone sopra le pagine dei tabloid. Quando voltandosi di nuovo, vide che la porta si era aperta, il suo Lord scomparso e benché stentasse a crederci, al di là di essa non ci fosse alcunché di nulla. Niente pavimento, ne pareti o soffitto, neanche l’ombra di una luce artificiale. Solamente uno spazio vuoto, apparentemente sospeso tra cielo e terra, occupato da vagheggianti volute di vapore e il suono distante di un treno. “Si-signore?” Gridò Adam dentro il valico di un’altra dimensione. La sua voce riecheggiava rimbalzando sulle pareti distanti…
La leggenda dei numeri 16, 17 e 17a di Leinster Garden è una di quelle particolari storie londinesi che, ripetute attraverso le generazioni, sembrano arricchirsi di ulteriori aggiunte o corollari, conquistando un posto di rilievo nella fantasia popolare della collettività. Si narra di consegne indirizzate verso un tale luogo, da parte fattorini destinati a vivere il significato più profondo di quel termine: “perplessità”. O di raccolte fondi gestite da personalità troppo insistenti, per il quale veri e propri ricevimenti furono indirizzati oltre queste mura, con dozzine d’invitati condannati a rimanere innanzi, interrogandosi sui meriti residui della propria sanità mentale. Per non parlare di quella volta in cui un giornalista dei nostri giorni alla ricerca, chiedendo ai due gestori degli hotel sorti in epoca contemporanea ai lati delle case misteriose, si sentì rispondere che entrambi credevano facesse parte dell’altrui complesso, stranamente silenzioso non importa in quale mese dell’anno. Cosa inspiegabile per molti residenti e non, finché la diffusione delle foto satellitari scattate per quel fenomeno tecnologico che è Google Maps (o Earth che dir si voglia) non avrebbero offerto una nuova prospettiva all’uomo della strada. Capace di rivelare come simili facciate nascondessero, nei fatti, nient’altro che una voragine profonda e tenebrosa. Verso le viscere segrete di un sottosuolo urlante!

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L’automobile costruita vent’anni prima della Rivoluzione francese

Titolare di un periodo di regno incuneato tra quello straordinariamente significativo del suo bisnonno, il Re Sole, e il suo nipote ed ultimo sovrano di Francia, ribattezzato il Cittadino Louis Capet negli ultimi drammatici mesi prima della condanna alla ghigliottina, il monarca Luigi XV è una di quelle figure ingiustamente menzionate a margine nei libri di storia generalisti. Notoriamente influenzato, secondo le dicerie di corte, dalla sottile mente della sua amante Madame de Pompadour, nonché esimio sconfitto nella sanguinosa guerra dei sette anni per il controllo del Canada contro gli inglesi, pur trattandosi di un uomo capace di guidare il paese più influente della sua epoca per ben 72 anni, è singolare che in molti tendano a dimenticare il modo in cui favorì, e diede spazio, alla corrente di pensiero che avrebbe presto cambiato il mondo. Grande mecenate delle arti, della letteratura e filosofia, proprio grazie all’educazione ricevuta da quegli uomini di scienza, per lo più gesuiti, che avrebbe fatto perseguitare a partire dal 1764, il re ospitò a corte numerosi poeti, tra cui la stessa figura monumentale di Voltaire, primo teorico dell’Illuminismo. E come spesso avviene nella storia delle catene di comando, questa propensione alla ricerca di un nuovo metodo di fare le cose ebbe ripercussioni fino alle più remote province del regno, dove inventori e ingegneri avevano modo di farsi strada, ricevendo encomi per le loro opere più eclettiche e ogni punto di rottura con il passato. Individui come Nicolas-Joseph Cugnot, membro del genio militare che aveva ricevuto la sua formazione presso Void-Vacon, in Lorrena e del quale non sapremmo in realtà quasi nulla, se non fosse che il suo principale capolavoro, portato a termine nel 1769, esiste ancora e si trova custodito, perfettamente integro, presso il Musée des Arts et Métiers di rue Réaumur, nel pieno centro di Parigi. E non è difficile immaginare quel surreale oggetto a tre ruote, sferragliante e sbuffante in un’impressionante quantità di vapore, mentre procedeva a passo d’uomo lungo il cortile dell’Arsenale, sotto l’occhio attento del generale Gribeauval e il duca di Choiseul, suoi principali sostenitori dinnanzi alle legittime obiezioni dei militari maggiormente tradizionalisti. Con l’inventore stesso al comando, intento a manovrare la caldaia anteposta al sedile con un lungo bastone, mentre con l’altra mano roteava freneticamente, sempre più freneticamente la manovella dello sterzo. Un gesto destinato ben presto a rivelarsi inutile, quando le due tonnellate e mezzo dell’astruso veicolo impattarono fragorosamente nel muro dell’edificio antistante, causando un crollo dalle conseguenze terribili nonché immediate.
Vuole infatti la leggenda, poiché di questo si tratta in assenza di testimonianze scritte ufficiali, che l’inventore di quella che viene talvolta definita la prima automobile sia stato anche il primo ad essere incarcerato per la propria mancanza di cautela al volante, benché la colpa maggiore di cui si fosse macchiato, nell’opinione dei suoi due “angeli custodi” fosse stata quella di avergli fatto fare una pessima figura, sperperando inappropriatamente i soldi del re. Il che da un certo punto può essere anche capito: il fardier (carro pesante) à vapeur, pur essendo il frutto diretto dell’esperienza pregressa di Cugnot nel corso della guerra nelle distanti Americhe, in cui era stato inviato come parte del corpo di spedizione, presentava numerosi problemi in grado di renderlo, essenzialmente, una delusione. In primo luogo la sua caldaia, ben più piccola di quella delle prime macchine a vapore che stavano prendendo piede come metodi per pompare l’acqua fuori dalle miniere, o far funzionare i primi timidi tentativi di fabbriche parzialmente automatizzate, era sostanzialmente insufficiente a spostarne la massa indubbiamente ponderosa, donando al veicolo un’autonomia funzionale di appena 15 minuti. A seguito dei quali, ogni volta, era necessario attendere che il serbatoio dei liquidi fosse ritornato a una  temperatura adatta ad essere riempito, il che limitava ulteriormente l’utilizzo del carro. L’altro problema era inerente al meccanismo stesso di trasformazione della pressione del vapore in un movimento rotatorio capace di trasportare cose o persone il quale, per quanto fosse indubbiamente rivoluzionario per l’epoca, risultava in grado di sviluppare una velocità massima di appena 4 Km orari. Ora aggiungete a tutto questo l’ovvia inesistenza all’epoca di un sistema di sospensioni realmente efficace, o pneumatici ad aria da usare per il movimento su strada o meno, e capirete presto come l’idea originaria venduta ai rappresentanti del governo, relativo all’impiego per il trasporto diretto di una bocca da fuoco sul campo di battaglia (costituendo, essenzialmente, il primo prototipo del carro armato) fosse ben più di una remota speranza, quanto piuttosto un’evidente impossibilità funzionale. Eppure sarebbe assurdo, pensare anche soltanto per un attimo, che l’opera di un tale eclettico inventore non abbia lasciato un profondo solco nella storia futura dei mezzi di terra concepiti dall’uomo…

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L’inumana precisione del cannone meridiana

Scorrono le nubi, si agitano i rami. Squittiscono tra i passeri le ali di cicala. Siamo all’interno del giardino formale alla francese, un prodotto dell’ingegneria e dell’arte, dove tutto avviene per una specifica ragione. Tra siepi esatte come una scacchiera, statue, monumenti e un piedistallo di granito. Sopra cui sfolgora, colpito dalla luce che proviene perpendicolare, un qualcosa di metallico, stranamente in attesa. Quando una sorta di segnale senza volto, assolutamente limpido nel mezzo di cotanta precisione, non avvia il processo chiaramente definito e un COLPO dall’estrema e roboante POTENZA non riecheggia tra il silenzio delle circostanze. Uno sbuffo di fumo di dirada dall’oggetto minaccioso, portando via con se ogni margine residuo d’incertezza. Provate pure a ricercare chi ha sparato, con il piccolo cannone. Qui nei pressi, non c’è un’anima smarrita. Son già tutti avviati verso il tavolo del mezzogiorno, consapevoli dell’ora di pranzo.
Il più grande dono, e dispetto al tempo stesso, che l’uomo ha fatto a se stesso è stato lo scorrere delle 24 ore. Uno strumento logico per la scansione delle giornate, in se stesse entità soggette al solipsismo e per questo diseguali. È forse la stessa cosa, svegliarsi una mattina e andare a scuola, o a lavorare, piuttosto che doversi preoccupare solamente, la domenica, di praticare a fondo l’arte del riposo? Mi sembra ovvio che nel primo caso, lo spazio che intercorre tra l’alba e il tramonto dovrebbe durare appena un attimo. Mentre nel secondo, una generazione intera! Eppure, poiché c’è sempre questo Eppure, la scienza matematica si è fatta sua premura di mostrarci come, se vogliamo aver sempre lo stesso numero di giorni in una settimana, settimane in una decade, secoli all’interno di un millennio (e lo vogliamo, chissà poi perché) la nostra unica speranza è far di conto col trascorrere dei singoli momenti, una sequenza inenarrabile e del tutto priva di un appiglio. Come potevano mai fare i nostri antenati, dunque, per non scivolare immersi nei granelli di una simile clessidra continuamente rigirata, privi di cristalli liquidi o le oscillazioni atomiche sul meridiano zero… È presto detto. Fino al XV secolo, almeno, c’era un solo metodo affidabile per misurare la distanza dagli alti muri messicani posti al termine e all’inizio delle ore diurne: un palo nel terreno, oppure orizzontale a gettito da una parete, che potesse gettare la sua ombra sopra un qualche tipo di riferimento. Il che, in effetti, aveva una sua chiara utilità. Presentando nel contempo un’ampia serie di problemi. In primo luogo, le impercettibili variazioni della rotazione e dell’asse terrestre, discontinue come qualsivoglia processo naturale, generavano un’imprecisione di circa 15 minuti, come esemplificato dalla cosiddetta equazione del tempo (Edt=tempo solare medio – tempo solare vero). Inoltre, l’avrete certamente notato, un dì d’inverno non ha la stessa durata che in primavera o piena estate. E questo, inevitabilmente, rendeva alquanto problematico impiegare uno schema di calcolo invariabile annualmente, benché esistessero diverse soluzioni, come quadranti multipli o gnomoni (le asticelle) che potevano essere spostati tra i diversi buchi. Ma sempre e comunque, questo qui è il nesso principale, dalla mano imperfetta dell’uomo.
C’era, tuttavia, ci tengo a farvelo notare, un singolo concetto uguale in ogni giorno di un singolo anno, e quello a venire verso all’indomani, fin dall’epoca della civiltà Egizia, quando i primi scribi presero a impiegare la bottiglia con la sabbia dentro, con il probabile scopo di farsi pagare a ore. Quel momento straordinariamente significativo, in cui l’ora del sorgere della luce (per inferenza, del risveglio) e quella della sua scomparsa (ovvero l’ora di andare a dormire) sono esattamente equidistanti. Il fondamentale mezzogiorno, tanto spesso scandito, nei porti e presso le caserme, dallo sparo a salve di un’utile arma, che sincronizzasse in qualche modo il trascorrere delle giornate soggettive. E che a partire dall’invenzione dei primi, inesatti orologi, avrebbe permesso di creare la concordia tra le moltitudini del ticchettante caos. C’era quindi quel momento, nella vita assai noiosa di un qualcuno, in cui l’ora esatta della meridiana raggiungeva il punto culmine, giungendo all’attimo di prendere la polvere, lo scovolino, caricare il tutto e accendere la miccia. Ma sapete che vi dico? L’errore è umanamente imprescindibile. Noi non siamo degli automi. A chiunque dovesse pensare che quell’uomo, giorno dopo giorno, possa compiere la sua missione con la cadenza semi-esatta concessagli dallo strumento già piuttosto inadeguato… Direi, beh: non avete mai provato la perfetta alternativa. Lasciate che vi parli del cannone/meridiana…

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