Duecentomila persone abitavano Lisbona nel Settecento. Finché la terra stessa non si sollevò a condannarle

Ripercorrendo a ritroso la sequenza degli eventi storici che hanno condotto all’elaborazione dell’Illuminismo, la filosofia moderna e il metodo scientifico, pare inevitabile immaginare unicamente una sequenza di trionfi della razionalità rispetto all’ignoto. Ovvero l’inconoscibile natura, che pervade e condiziona i reciproci rapporti tra i diversi elementi, posti a confronto col carattere e l’infinita capacità d’inanellare il rapporto tra le cause e gli effetti da parte della complessa mente umana. E da un punto di vista dell’analisi storiografica ciò può essere considerato relativamente corretto, fatta eccezione per un singolo momento durato poco più che una giornata, durante cui una delle più vaste, ricche ed influenti città d’Europa fu letteralmente rasa al suolo, in una maniera più che semplicemente inaspettata; poiché chi aveva mai sentito menzionare, se non in vaghi racconti e resoconti di seconda e terza mano, di un disastro naturale delle proporzioni di quello subito da Lisbona nel 1755? Erano le 9:40 di mattina del primo novembre, dunque, giorno di Ognissanti, quando la maggior parte dei devoti nella popolosa capitale del Portogallo si trovava nelle grandi chiese ad ascoltare la messa, oppure a casa per preparare il pranzo coi propri cari e conoscenti. Quando una scossa tellurica, di proporzioni mai provate prima, colpì l’intera area centro meridionale del paese, causando danni e vittime anche lungo la costa, sulle isole di Madeira e delle Azzorre, al di là del Mar Mediterraneo e nella punta estrema dell’Africa sottostante. Un sommovimento le cui esatte caratteristiche sono tutt’ora dibattute, con epicentro probabile nell’Atlantico ad occidente della penisola iberica e una magnitudine stimata tra 7,7 e 9,0 sulla moderna scala Richter. Entrambi dati largamente ignoti all’epoca, mentre fu brevemente e chiaramente possibile determinare la portata delle conseguenze: crolli, devastazioni, vittime e feriti. Ancor prima che un evento oceanico categorizzabile come il più recente mega-tsunami europeo spazzasse via letteralmente il porto e le piazze più esterne della città, dove in molti erano corsi a rifugiarsi per sfuggire ai crolli degli edifici. E neppure quello, effettivamente, fu il momento più tragico della tremenda contingenza, quando probabilmente in forza delle numerose candele accese nelle chiese e le dimore per la ricorrenza sacra, rovesciate dai tremori e il panico collettivo, scaturì un incendio altrettanto privo di precedenti. Mentre i forti venti della stagione continuarono a soffiare ininterrotti, diffondendo le fiamme per diversi giorni durante qui giunse persistere una letterale tempesta alimentata dall’effetto camino, capace di attirare a se cospicue quantità d’aria continuando ad ardere a temperature sempre maggiori. Molti perirono in questo modo tra le macerie, nella sostanziale impossibilità di prestare soccorso, mentre altri furono letteralmente soffocati all’aperto, con l’ossigeno rapidamente risucchiato dal vortice incandescente. Gli storici ritengono, a tal proposito, che il conteggio delle vittime nel suo complesso possa essersi aggirato tra le 30.000 e 70.000, il quale unito a coloro che dovettero trasferirsi per la perdita della propria dimora portò a un probabile dimezzamento della popolazione urbana nel suo complesso. Il re stesso, Giuseppe I di Braganza, ebbe la fortuna di salvarsi in quanto momentaneamente fuori città, per l’insistenza di una delle sue figlie di andare a messa per la festa in una chiesa di campagna. L’intera corte, che l’aveva seguito fuori dal palazzo reale di Ribeira sulle rive del fiume Tagus, scampò alla sorte toccata ai circa 70.000 libri rari ed opere d’arte contenute nelle vaste sale dei suoi tesori. Ma ora, contemplando dalle alture ciò che rimaneva della loro sede un tempo magnifica, i potenti del Portogallo non potevano far altro che guardare ammutoliti, interrogandosi sul loro domani. Tutti, tranne uno…

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Ma le anatre meccaniche digeriscono il grano ad orologeria?

Nella versione alternativa della Rivoluzione Francese presentata all’interno del recente videogame Steelrising l’assemblea degli Stati Generali riunitasi per la prima volta nel 1789 sarebbe stata il primo capitolo di un incubo di proporzioni inusitate. In una Parigi devastata dalle sommosse e ribellioni, con barricate ad ogni incrocio e la stragrande maggioranza dei cittadini rifugiatisi all’interno delle proprie abitazioni, creature mostruose soltanto in parte antropomorfe avrebbero vagato per le strade, in un vortice di archibugi, elettriche scintille e lame insanguinate. Frutto dell’unione sacrilega con le anime dei morti intrappolate dal sortilegio di una figura storica vicina al Re di Francia (probabilmente conoscete il nome di quell’occultista) le macchine pensanti di Jacques de Vaucanson hanno preso vita e sono in cerca di soddisfazione. È lo scenario del metallo che sovrasta ogni cosa, tanto spesso presentato come l’alba delle macchine, oppure la spietata rivincita di Prometeo. Ma ciò che resta forse maggiormente impresso al giocatore, al termine della disordinata e qualche volta confusionaria avventura vissuta nei panni di uno di questi stessi essere, potrebbe individuato nella sfida finale al centro di tutto questo: il vorace demone di forma vagamente aviaria, le piume della coda a dipanarsi come quelle di un ventaglio, le ali spalancate che si aprono e richiudono ritmicamente. La versione sovradimensionata di un qualcosa di altrettanto a suo agio nei laghetti della reggia di Versailles, ovvero quella che la gente chiama anatra, quando è intenta a lanciargli il pane. Fantasia? Strana iniziativa dei progettisti? Ulteriore ed ancor più curiosa reinterpretazione della Storia? Forse, in parte. Ma anche un valido riferimento a ciò che fu il più grande capolavoro di una figura effettivamente vissuta. La più perfetta rappresentazione di una serie di processi biologici mai realizzata fino a quel momento. Parlando della quale lo stesso Voltaire avrebbe scritto, non senza un certo grado d’ironia: “Tutte le grandi conquiste della Francia potrebbero oggi essere state dimenticate. Se non fosse stato per l’anatra che defeca.”
Notevole, nevvero? Stiamo dopotutto parlando di una di quelle figure di grande ingegneri e costruttori di meccanismi, per lungo tempo ignorati durante la propria vita e all’improvviso diventati popolari in epoca Barocca, quando il frutto del loro lavoro iniziò ad attirare l’attenzione dei ricchi e dei potenti, diventando il fondamento di un particolare tipo d’intrattenimento: essere soavemente, profondamente meravigliati. Così come avrebbe potuto permettergli di ritrovarsi questo decimo figlio di un fabbricante di guanti di Lione, che avendo vissuto in un prevedibile stato di relativa indigenza i primi anni della propria vita a partire dal 1709, cominciò ben presto ad essere istruito per vestire il saio sotto l’egida salvifica di Madre Chiesa. Il che avrebbe incluso, in base agli aneddoti narrati in alcune delle sue discordanti biografie redatte a posteriori, la visita reiterata alla parrocchia di riferimento mentre la madre provvedeva a confessare i suoi peccati, con conseguente lunga attesa sui genuflessori di quell’imponente edificio. Tempo perso per chiunque, forse, ma non lui, che lo trascorse studiando attentamente il funzionamento di un grande orologio esposto per la convenienza dei fedeli, che ad un certo punto sarebbe stato in grado di riprodurre con le proprie stesse mani, da assoluto autodidatta, all’interno della propria casa. Non poteva avere, all’epoca, più di 10 anni e suo padre era già morto da tre. Entrambe validi ragioni, secondo la mentalità dell’epoca, per accelerare la sua marcia educativa verso il convento…

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L’automobile costruita vent’anni prima della Rivoluzione francese

Titolare di un periodo di regno incuneato tra quello straordinariamente significativo del suo bisnonno, il Re Sole, e il suo nipote ed ultimo sovrano di Francia, ribattezzato il Cittadino Louis Capet negli ultimi drammatici mesi prima della condanna alla ghigliottina, il monarca Luigi XV è una di quelle figure ingiustamente menzionate a margine nei libri di storia generalisti. Notoriamente influenzato, secondo le dicerie di corte, dalla sottile mente della sua amante Madame de Pompadour, nonché esimio sconfitto nella sanguinosa guerra dei sette anni per il controllo del Canada contro gli inglesi, pur trattandosi di un uomo capace di guidare il paese più influente della sua epoca per ben 72 anni, è singolare che in molti tendano a dimenticare il modo in cui favorì, e diede spazio, alla corrente di pensiero che avrebbe presto cambiato il mondo. Grande mecenate delle arti, della letteratura e filosofia, proprio grazie all’educazione ricevuta da quegli uomini di scienza, per lo più gesuiti, che avrebbe fatto perseguitare a partire dal 1764, il re ospitò a corte numerosi poeti, tra cui la stessa figura monumentale di Voltaire, primo teorico dell’Illuminismo. E come spesso avviene nella storia delle catene di comando, questa propensione alla ricerca di un nuovo metodo di fare le cose ebbe ripercussioni fino alle più remote province del regno, dove inventori e ingegneri avevano modo di farsi strada, ricevendo encomi per le loro opere più eclettiche e ogni punto di rottura con il passato. Individui come Nicolas-Joseph Cugnot, membro del genio militare che aveva ricevuto la sua formazione presso Void-Vacon, in Lorrena e del quale non sapremmo in realtà quasi nulla, se non fosse che il suo principale capolavoro, portato a termine nel 1769, esiste ancora e si trova custodito, perfettamente integro, presso il Musée des Arts et Métiers di rue Réaumur, nel pieno centro di Parigi. E non è difficile immaginare quel surreale oggetto a tre ruote, sferragliante e sbuffante in un’impressionante quantità di vapore, mentre procedeva a passo d’uomo lungo il cortile dell’Arsenale, sotto l’occhio attento del generale Gribeauval e il duca di Choiseul, suoi principali sostenitori dinnanzi alle legittime obiezioni dei militari maggiormente tradizionalisti. Con l’inventore stesso al comando, intento a manovrare la caldaia anteposta al sedile con un lungo bastone, mentre con l’altra mano roteava freneticamente, sempre più freneticamente la manovella dello sterzo. Un gesto destinato ben presto a rivelarsi inutile, quando le due tonnellate e mezzo dell’astruso veicolo impattarono fragorosamente nel muro dell’edificio antistante, causando un crollo dalle conseguenze terribili nonché immediate.
Vuole infatti la leggenda, poiché di questo si tratta in assenza di testimonianze scritte ufficiali, che l’inventore di quella che viene talvolta definita la prima automobile sia stato anche il primo ad essere incarcerato per la propria mancanza di cautela al volante, benché la colpa maggiore di cui si fosse macchiato, nell’opinione dei suoi due “angeli custodi” fosse stata quella di avergli fatto fare una pessima figura, sperperando inappropriatamente i soldi del re. Il che da un certo punto può essere anche capito: il fardier (carro pesante) à vapeur, pur essendo il frutto diretto dell’esperienza pregressa di Cugnot nel corso della guerra nelle distanti Americhe, in cui era stato inviato come parte del corpo di spedizione, presentava numerosi problemi in grado di renderlo, essenzialmente, una delusione. In primo luogo la sua caldaia, ben più piccola di quella delle prime macchine a vapore che stavano prendendo piede come metodi per pompare l’acqua fuori dalle miniere, o far funzionare i primi timidi tentativi di fabbriche parzialmente automatizzate, era sostanzialmente insufficiente a spostarne la massa indubbiamente ponderosa, donando al veicolo un’autonomia funzionale di appena 15 minuti. A seguito dei quali, ogni volta, era necessario attendere che il serbatoio dei liquidi fosse ritornato a una  temperatura adatta ad essere riempito, il che limitava ulteriormente l’utilizzo del carro. L’altro problema era inerente al meccanismo stesso di trasformazione della pressione del vapore in un movimento rotatorio capace di trasportare cose o persone il quale, per quanto fosse indubbiamente rivoluzionario per l’epoca, risultava in grado di sviluppare una velocità massima di appena 4 Km orari. Ora aggiungete a tutto questo l’ovvia inesistenza all’epoca di un sistema di sospensioni realmente efficace, o pneumatici ad aria da usare per il movimento su strada o meno, e capirete presto come l’idea originaria venduta ai rappresentanti del governo, relativo all’impiego per il trasporto diretto di una bocca da fuoco sul campo di battaglia (costituendo, essenzialmente, il primo prototipo del carro armato) fosse ben più di una remota speranza, quanto piuttosto un’evidente impossibilità funzionale. Eppure sarebbe assurdo, pensare anche soltanto per un attimo, che l’opera di un tale eclettico inventore non abbia lasciato un profondo solco nella storia futura dei mezzi di terra concepiti dall’uomo…

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Il Panopticon, la prigione modello del guardiano onnisciente

Edifici in muratura rossastra, sperduti tra i venti dell’Isla de la Juventud, Cuba. Abbandonati. Dalla forma simile ad un tamburo, come Castel Santangelo, ma pieni di finestre allineate alla maniera del Colosseo. Un tempo, sarebbero stati gremiti di uomini e donne, originariamente imprigionati durante il mandato di Gerardo Machado, quinto presidente del paese tra il 1925 ed il 1933. E poi di nuovo, durante il regime dittatoriale di Batista, tutti coloro che osavano opporsi alla sua egemonia, in una bailamme biblica di corruzione, infelicità e sofferenza. Ogni finestra una cella, illuminata dalla luce naturale proveniente dall’esterno, facendoli stagliare come figure di ombre teatrali danzanti dinnanzi allo sguardo di…Qualcuno, non si sa chi. Chi ancora oggi dovesse fare il suo ingresso in una di tali arene, ormai considerate un monumento nazionale, si troverebbe quindi di fronte a una torre centrale, con finestre rivolte in ogni direzione possibile, verso le celle circostanti. Da cui il guardiano avrebbe potuto osservare, alla maniera del mitico gigante greco dai molti occhi Argus Panoptes, in ogni direzione. E nessuna al tempo stesso. Sapere tutto senza conoscere nessuno. Guardare ma non essere visto. L’imperfetta, e per questo perfetta comunicazione.
“La soggettività dell’individuo è un illusione” avrebbe affermato il filosofo, giurista e teorico sociale Jeremy Bentham, vissuto tra il XVIII e XIX secolo nella grande città di Londra. Nella quale, riportando la conoscenza del mondo antico acquisita nel college di Oxford, rielaborò una visione del mondo risalente al filosofo greco Protagora, definita Utilitarismo. Secondo cui la misura della bontà di qualsiasi azione non è data dalle intenzioni o dalla visione finale di colui la compie, bensì da un’esatta misura di quali vantaggi essa porta al più grande numero di esseri senzienti, messa a confronto con la sofferenza che arreca a lui stesso. In un mondo perfetto, l’origine di una vera e propria utopia, in cui nulla può essere compiuto a discapito degli altri, nella più perpetua serenità ed armonia. Ma poiché questa società umana è la risultanza di un insieme di pulsioni contrastanti, non tutte originate dalla stessa visione altruistica del mondo, persino un simile luogo ameno dovrà fare i conti con la necessità di confinare, e possibilmente rieducare, tutti coloro che non si conformano costituendo un danno per il bene comune. Ed anche per questo, Bentham aveva un piano.
Prima di proseguire, è importante considerare come il concetto di totalitarismo non fosse assolutamente parte di questa equazione: il nostro filosofo, che era un liberista ed un positivista legale, credeva fermamente nel governo di una elite saggia e ragionevole, che permettesse ai suoi sottoposti di esprimere se stessi, autoregolandosi secondo un concetto universale del bene. Mancava ancora oltre un secolo, al concetto orwelliano del Grande Fratello, il leader dello stato immaginario di Oceania nel romanzo intitolato “1984”, che governava il suo paese con il sorriso baffuto ed un pugno segreto guantato di ferro. La sua idea per il panopticon (pan– tutto opticon-vedere) un nuovo tipo di edificio, era piuttosto il raggiungimento della stessa conclusione per vie alternative, un tipo, se vogliamo, di convergenza evolutiva verso un obiettivo “accidentalmente” comune. E questo obiettivo era la sorveglianza assoluta; poter tenere d’occhio, i propri cittadini nel caso della fiction fin troppo realistica dell’epoca successiva alla seconda guerra mondiale, e l’intera popolazione di un carcere nel secondo, verso una ricerca da parte del filosofo illuminista, che era in primo luogo economicizzante: ridurre i costi potendo mettere un singolo individuo a tenere d’occhio centinaia, persino migliaia di prigionieri. Ma che faceva di tale figura anche una sorta di demiurgo, in grado di dispensare ricompense e punizioni senza esporsi in alcun modo allo sguardo dei suoi sottoposti. Qualcosa che oggi, con l’invenzione delle telecamere a circuito chiuso e gli altri sistemi di sorveglianza remota, potrebbe anche apparirci triviale. Ma che all’epoca costituiva una vera, terrificante rivoluzione.

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