Il volto trasformista che attraversa l’arte, l’incubo, l’intercapedine tra i mondi

“Non avere paura” disse l’angelo dell’Antico Testamento, mentre fluttuava vorticando sopra il letto della sua prescelta, completamente immobile del tutto incapace di comprendere in diretta la propria esperienza. I suoi milioni di occhi, iscritti nelle fasce che formavano il suo corpo, sembravano guardare tutto e niente allo stesso tempo, mentre la fiamma pulsante al centro si rifletteva sulle quattro ali di colomba simmetricamente poste a diramarsi dal nucleo centrale. “Tu che hai visto le regioni periferiche del mondo. Da oggi sarai molto più che meramente… Umana.” Morte o trasformazione. Annientamento o la discesa inarrestabile verso gli abissi dell’entropico disfacimento. Non è forse proprio questo, l’esistenza? E il tipo di scelte che dobbiamo compiere ogni giorno, l’una dopo l’altra, per poter continuare ad attribuirci la desiderabile qualifica di creature realizzate in questa vita, piuttosto che un’altra. Così come scelse notoriamente di fare l’artista originaria di Macao, naturalizzata canadese Mimi Choi, quando a 28 anni si rese conto che il suo futuro non sarebbe stato quello di continuare ad insegnare in una scuola materna di Vancouver. Ma trasformarsi a tempo pieno nella sua versione per così dire “proibita”, la donna interiormente ed esteriormente dedita a rendere manifesta la propria singolare visione del mondo. Maturata in molti anni d’incubi, poiché “Ogni artista è tormentato” Afferma lei; soltanto non capita poi così spesso che sia tormentato in modo allucinogeno da mostri, belve e orribili cascate di ragni. “Soffrendo di paralisi notturne, ne vedevo praticamente ogni giorno.” Prosegue nella collaudata narrazione, ripetuta in qualche dozzina d’interviste: “Finché non decisi di disegnarmene uno sulla guancia.” Questo fu l’Inizio, di un sistema molto conveniente: lei che dipinge sopra il proprio stesso volto l’anima e l’aspetto delle sue paure; integrandole, in un certo senso, nel proprio ego profondo. Una scelta destinata a a dargli la forza, assieme all’incoraggiamento di sua madre, per lasciare un mondo ed un lavoro che la costringeva ad una doppia vita. Ed iscriversi, con entusiasmo, in una scuola professionale. Niente meno che il Blanche Macdonald Centre, con programmi di estetica, trucco cinematografico, acconciatura e (!) decorazione delle unghie. Ma nessuno, tra i suoi insegnanti, aveva mai conosciuto una studentessa tanto abile nell’innovare ed adattare al proprio stile una così antica ed attentamente codificata forma d’arte…

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La leggendaria cascata di sabbia verso gli abissi dell’Oceano Indiano

Come un puntino dai margini frastagliati 550 Km ad est del Madagascar, la terra emersa di Mauritius sembra campeggiare nel mezzo ad un mare senza confini, affiancata dalla sua sorella più giovane, la  Île de la Réunion. Nella sua particolare conformazione paesaggistica, spicca a sud-ovest un massiccio basaltico alto 556 metri, situato in corrispondenza di una stretta penisola che per tanto tempo svolse la funzione di approdo sicuro e lontano dallo sguardo indiscreto delle autorità. Le Morne Brabant, è chiamato questo particolare rilievo, ma per gli abitanti di un tale luogo conserva l’antico nome di Promontorio della Libertà. Qui vissero, in segreto, numerose generazioni di fuorilegge, pirati e soprattutto gli uomini di mare di etnie africane, miracolosamente sfuggiti a una vita di schiavitù presso le colonie del Nuovo Mondo. Secondo una storia nazionale quindi, nel preciso momento in cui il primo febbraio 1835 la polizia dell’isola si recò in questo luogo per annunciare che l’antica legge che permetteva di possedere la vita di una persona era stata tardivamente abolita, una certa percentuale degli abitanti del posto si lanciarono giù dalla loro rupe e da lì, dentro il più profondo baratro che fosse mai stato osservato dall’occhio umano: come una voragine spalancata ad accoglierli, l’abbraccio lungamente desiderato della sempiterna e finalmente inviolabile libertà. Alcuni dicono, che i loro corpi stiano ancora cadendo, quasi due secoli dopo…
Perché in realtà la stessa definizione tanto spesso usata di “deriva dei continenti”, elaborata per la prima volta nel 1912 dal geologo Alfred Wegener, può stimolare l’immaginazione verso una direzione almeno parzialmente errata. Con queste enormi masse di terra e pietra che, spinte a vagabondare come altrettante zattere galleggianti sul magma sotterraneo, si spostano agevolmente sopra e sotto gli oceani, compenetrandosi l’un l’altra attraverso il processo di subduzione. Ma se la storia fosse realmente tutta qui, secondo la corrente interpretativa seguita dal maggior numero di fan, cosa accadrebbe nelle battute successive agli spazi originariamente occupati dai cinque protagonisti di questa danza? (che poi considerazioni politiche a parte, suddividendo le Americhe in Nord e Sud, dovrebbero essere sei) Voragini spalancate verso le viscere fiammeggianti, come spazi d’ingresso verso le regioni degl’Inferi dimenticati! Micro-universi dalla densità paragonabile al nucleo planetario di Giove… Questo sarebbe il tragico destino del fondale marino, se non fosse per il costante fenomeno, raramente discusso, dell’espansione delle dorsali. Ovvero questi materiali incandescenti, espulsi e mescolati ogni giorno per le fluttuazioni geotermiche al centro del nostro mondo, che emergono a pressioni persino superiori a quelle degli oceani. Per poi solidificarsi, spostando di lato il fronte stesso di ciò che viene comunemente chiamata una piattaforma continentale. Ecco perché abbiamo affermato che l’isola di Mauritius “sembra” trovarsi circondata dal nulla. Quando in effetti, il suo ruolo è contrassegnare una criticità d’importanza primaria, ovvero il bordo stesso di uno dei componenti generativi dell’intero sistema sotterraneo globale. O per essere più precisi, quello che un tempo dominava l’intero meridione del mondo, sorgendo sul cosiddetto pianoro delle Mascarene, l’ultimo frammento residuo del super-continente Gondwana, unione delle masse che oggi costituiscono Sud-America, Antartide, Africa, Australia e la penisola indiana.
Abbandonando ogni indugio proviamo, quindi, a gettare lo sguardo oltre il margine estremo delle spiagge che permettono l’approdo verso Le Morne Brabant; coronate dalla superficie del mare più azzurro e trasparente che si riesca ad immaginare, al di sotto del quale è possibile scorgere linee chiaramente definite. Così mentre la mente fatica a comprendere ciò che sta osservando, d’un tratto appare chiara la cognizione di trovarsi correntemente sul bordo di un tavolo enorme. Mentre il fondale stesso, trascinato nel baratro dalla mera forza di gravità, sembra precipitare verso il vuoto teorizzato dagli estimatori del concetto di Terra piatta, oltre l’azzurro nulla ove nessuno, mai, potrebbe sperare di riuscire a spingersi. E ancora una volta, la verità è più complessa e stratificata di così…

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L’obiettivo fuori-fuoco che rimpicciolisce le cascate del Niagara

Niagara tilt shift

Un mondo dall’aspetto simile all’ambiente in cui viviamo, ma stranamente divergente nei dettagli di contesto: tutto è rapido, iper-attivo. I colori sono ancor più luminosi. E ciò che dovrebbe essere lontano, sembra invece assai vicino, perché visto dall’alto, e stranamente indistinto, in modo da dare risalto al resto della scena. Come nella tecnica fotografica del bokeh (dal termine giapponese boke confusione) in cui la profondità di campo viene artificialmente ridotta, attraverso la riduzione del rapporto tra lunghezza focale e foro d’accesso per la luce, verso il sensore o la pellicola dello strumento in uso. Valore che viene definito talvolta il numero f e che viene sempre condizionato, in fotografia, dalla distanza e dimensione del soggetto. Pensateci: quanto è tipica l’immagine di un piccolo animale, magari un uccello o un insetto, preso in primo piano con potenti cannocchiali, come sospeso nel colore verde indistinto dell’ambiente circostante…Mentre ottenere un’effetto simile nella foto di una quercia, o ancora peggio, una montagna, richiederebbe una macchina fotografica a misura di Titani.
Ed ecco ciò a cui stiamo assistendo con la fantasia, almeno in quello che parrebbe derivare dalla tecnica usata nel presente video del canale LittleBigWorld: ingigantiti fino all’altezza di 60, 70 metri, dominiamo il ruggente ferro di cavallo in fluido divenire, punto leggendario in cui il vasto fiume Niagara si getta lugiù dal dislivello che divide l’Ontario dagli Stati Uniti. Splendenti nei loro impermeabili rossastri, le turbe dei turisti che si affrettano a salire sulle imbarcazioni Hornblower e Lady of the Mists, due delle tante che permettono di vivere da vicino l’impatto di tonnellate cubiche d’acqua al minuto. Mentre noi, con la testa tra le nubi, delicatamente ci chiniamo ad osservare. Se soltanto avessimo un bicchiere, per saggiare il gusto rinfrescante di ciò che da un millennio erode il suolo dell’Onguiaahra, santuario del Dio Tuono…Sarà buono, certamente. Addirittura, inebriante. Utile a ricordarci che in effetti, ancor non comprendiamo quello che stiamo vedendo. Realisticamente, ci sono solo due maniere in cui una simile scena può essere stata ripresa: l’elicottero, oppure il drone telecomandato. Eppure, con l’aumentare della distanza dal soggetto ripreso, l’ottica ci insegna che il punto di messa a fuoco diventa necessariamente più inclusivo, tanto da poter contenere due isolati di un paesaggio cittadino, oppure lo spazio che separa una parete del Grand Canyon da quella antistante (tanto per restare in tema di meraviglie naturali). Mentre qui, nemmeno due filari degli alberi posti a cornice paiono altrettanto definiti. Esattamente come se si stesse osservando un modellino.
La fonte di una tale meraviglia visuale, come molti già sapranno, è frutto di quella serie di tecniche che oggi vengono chiamate, per antonomasia, tilt/shift (inclinazione/spostamento) benché tali termini, in origine, fossero riferiti ad un approccio fotografico dall’impiego assai più vasto e variegato. La cui origine va rintracciata nella Regola di Scheimpflug, secondo cui, nell’ottica: “É matematico che il piano focale, dell’obiettivo e del soggetto si incontrino sulla stessa stessa retta.” Il che significa che modificando l’inclinazione della lente al termine dell’obiettivo, tramite l’impiego di apposite soluzion ingegneristiche, si può ottenere un piano di messa a fuoco non più parallelo al soggetto ripreso, bensì obliquo. Perché farlo? Possono esserci diverse ragioni. La prima e maggiormente significativa, risalente all’invenzione di questa tecnologia, era motivata dal bisogno di riprendere soggetti estremamente grandi ed inamovibili, come strutture architettoniche. Il che presentava (e presenta) dei problemi, il primo dei quali è come far entrare l’intero edificio nella foto senza inclinare la fotocamera, dando quindi l’origine ad un fastidioso cambio della prospettiva; ovvero, dei palazzi rastremati verso l’alto, come piramidi dei nostri tempi. L’altro è quello di trovarsi di fronte ad un qualcosa che si sviluppa in senso trasversale rispetto alla propria posizione, estendendosi in maniera tale da costringerci a mettere a fuoco la facciata, OPPURE tutto il resto. Perché anche l’estensione della messa a fuoco di cui sopra, dovuta alla distanza del soggetto, ha dei naturali limiti, oltre i quali serve ricorrere all’aiuto della tecnologia…

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Stella di metallo, perché pulsi quando giri?

Brusspup Star

Nel 1967, gli astronomi Jocelyn Bell e Antony Hewish scoprirono qualcosa d’incredibile, e non solo! Ciò avvenne come al solito, per puro caso. Mentre puntavano il proprio radio-telescopio, da scienziati di già larga fama, verso il nucleo galattico di una quasar, chiaramente alla ricerca delle origini dell’universo, furono improvvisamente abbacinati da un perfetto sfolgorìo del tutto regolare, quella che sembrò a tutti, in un primo momento, la chiara dimostrazione di una civiltà galattica sperduta all’altro capo del Creato. Era infatti impossibile spiegare, altrimenti, quel fenomeno: una luce intermittente, sempre uguale a se stessa, spenta e accesa, spenta e accesa all’infinito. L’energia, per quanto ne sappiamo, non si comporta a questo modo. Una volta accesa una fornace intergalattica, con una potenza sufficiente a scalvacare i parsec millenari, questa può soltanto ardere, fino all’esaurimento. Eppure…
Si accendano i riflettori. Uno spazio cosmico infinito, punteggiato da sperduti sprazzi di materia. Globulari ammassi opachi, qualche volta riflettenti, appena. Certe altre, invece, fulgidi di splendida energia. E speranza ed opulenza! Chi ha spostato le nubi molecolari fino all’incontro degenere, portando a poderose onde d’urto iper-cariche di gravità? Chi ha messo in moto i fiumi di gas pesanti e polveri oscure, accelerati fino a celeri conglomerati rotativi? Chi ha compresso il vento di particelle cariche, finché l’idrogeno, senza più una via di fuga da quel pozzo inconoscibile, si è riscaldato fino ad ardere, di un fuoco appassionato e senza un grammo di pietà? Chi mai? Chi potrebbe? Se non Brusspup, il presunto “autore” qui già trattato ben due volte ma che stavolta finalmente dico, si è dimostrata essere un’autr-ice (lo smalto azzurro sulle unghie, guarda caso, l’ha tradita) Tanto intenta ad appendere un pezzo di metallo, all’apparenza privo di segreti, sotto l’architrave abitativo, l’attaccapanni, addirittura un lampadario chi lo sa. Ma quel maneggevole oggetto con tanto di cristallo giroscopico nel centro, per girare meglio, è stato intagliato con una particolare attenzione alla sua ricorrenza matematica, per cui la stessa forma, ricreata, esattamente identica ma in scala ridotta, ivi ricompare nei diversi gradi dell’inclinazione rotativa, sui diametri del tempo di rivoluzione. E la forma è il fondamento dell’azione, in questo caso, perché pare un asterisco del pensiero. Si tratta dello stereotipo geometrico, tanto antico quanto immotivato fisicamente, utile a rappresentare quel concetto astrale… Niente affatto astratto, per inciso. Di un corpo spropositato in grado di produrre luce, e calore, e potenza e un peso filosofico per niente indifferente. Quand’ecco, si accende un riflettore sul fondale bianco. Stars shining bright above you! Di stelle si riempiono le case, in determinate occasioni, perché si usa dire che tali figure segnino il sentiero delle aspettative. Che ponendole su un piedistallo, in qualche figurativo modo, si possa giungere a uno stato di coscienza superiore. Sia pure questa, guarda caso, frutto dell’incontro con un bambinello artificiale, il semplice simbolo di…

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