Come perdersi tra i sette cerchi del castello della terracotta ad Hanoi

La struttura di un cono invertito composto da un succedersi di cerchi progressivamente maggiori evoca, nella concezione mistica dell’universo prevalente in Europa, la visione del paradiso cristiano, luogo delle anime destinate ad un luogo migliore al compiersi del proprio destino terrestre. Tale immagine probabilmente non figurava, tuttavia, al centro dei pensieri dell’architetto vietnamita Hoàng Thúc Hào, alle prese con quello che sarebbe diventato, dopo il 2019, uno dei simboli più iconici del suo particolare modo d’interpretare gli spazi civici ed abitativi. Nonché una destinazione di assoluto primo piano nel panorama urbano di questa città: Hanoi, la capitale sulla riva destra del fiume Rosso. Lungo il cui corso, un po’ più a valle verso il golfo del Tonchino, sorge da più di 500 anni un polo dell’artigianato e della produzione artistica profondamente celebrato nel contesto di questa particolare area geografica. Sto parlando del villaggio “della ceramica” di Bat Trang, tradizionalmente abitato da 23 famiglie, ciascuna titolare di un forno in grado di rafforzare la propria reputazione nel succedersi delle generazioni fin qui trascorse. Un luogo da visitare per trovarsi circondati dalle straordinarie fogge, colori e geometrie di manufatti utili o decorativi, ed ora farlo anche tra le mura di un’istituzione pensata per massimizzare l’esperienza multimediale che conduce a un tipo più contemporaneo d’apprendimento. Così il Trung tâm Tinh hoa Làng nghề Việt (“Centro per l’Essenza Artigianale dei Villaggi Vietnamiti”) sorge con tutte le amenità di una perfetta destinazione turistica tra le sue mura del colore dell’argilla, senza dimenticare la sua importante funzione di commemorare e mettere in mostra la lunga storia produttiva all’origine di questi luoghi. In ogni aspetto fin dalla sua particolare struttura, assemblata dal titolare dello studio “1+1>2” come una metafora visuale e iterativa di due significativi oggetti: la ruota del ceramista, base per la produzione di ogni vaso ricavato con le mani dalla sabbia silicea dell’argilla; ed il forno di mattoni tradizionali del tipo Lo Bau, costituito da una cupola di mattoni refrattari capaci di raggiungere i 12.500 gradi di temperatura. Tutto l’opposto, in altri termini, della struttura tanto rinfrescante da meritarsi l’attribuzione dopo l’apertura del premio internazionale Architecture Masterprize (AMP) per la migliore realizzazione culturalmente commemorativa, nel perfetto incontro di forma, significato e funzionalità. Nient’altro che il primo capitolo di quella che sarà, senz’altro, una lunga storia di successi nel massimizzare la visibilità e i meriti di quest’arte antica che non potrà, semplicemente, mai passare di moda…

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Il dolce profumo di un villaggio dell’incenso vietnamita

Molto probabilmente l’impressione viene dal cappello: lo stereotipato copricapo conico, da sempre visto in Occidente come parte dell’abbigliamento degli agricoltori tra i confini delle vaste terre all’altro capo dell’Asia. Detto ciò, è innegabile che questa immagine possa creare un senso di entusiastica perplessità: “Rosso? Non sapevo che lo fosse! Ma si tratta di una pianta? Piccoli cespugli? Che genere d’incenso è questo?” Quel tipo di domande sul tema dell’ovvietà per rispondere alle quali tanto spesso Internet risulta sorprendentemente inefficace. Poiché nessuno appare pronto, o in qualsivoglia incline, a dissolvere il carattere di una leggenda. Come quella, riassunta in poche inquadrature, del villaggio Quang Phu Cau nei dintorni meridionali di Hanoi, forse le capitali mondiali del tipo di essenza utilizzata in molte religioni, come ausilio al gesto estremamente umano della preghiera. Quell’incenso cui in Europa normalmente siamo inclini ad associare, più di ogni altra possibile cosa, la resina sottoposta a lavorazione dell’albero del genere Boswellia, chiamato fin dai tempi antichi olibanum, comunemente detto franchincenso. Laddove vuole il caso, e l’evidenza, che nei molti secoli di storia e soprattutto all’altro capo del mondo, molti siano gli estratti ed i sistemi usati per raggiungere lo stesso fine, soprattutto tra quelli considerati fondamentali dall’omni-pervasiva medicina cinese: legno di sandalo, aloe, rabarbaro officinale, linfa dell’albero della gomma Styrax, ambra fossile e Syzygium aromatico, albero sempreverde dell’Indonesia. Molti dei quali pronti a convergere, grazie a una rete commerciale antica quanto la penisola dei draghi, presso questo luogo antistante alla sua capitale. Ove il sistema produttivo utilizzato, semplice quanto efficiente, vede la riduzione in polvere ed il successivo impasto degli ingredienti profumati e pronti da bruciare, successivamente plasmati nella forma di specifici elementi: cubi, piccole piramidi o coni arrotolati, ma soprattutto quella maggiormente pratica per le abitudini buddhiste, il bastoncino ligneo per la preghiera. Ed ecco così svelato, l’arcano. La fabbricante dell’immagine mostrata in apertura, chinata e all’opera nel mezzo di tanti surreali piccoli “cespugli” è in realtà intenta a rassettare, e catalogare attentamente, un vasto numero di asticelle di bambù, colorate tradizionalmente di rosso prima di essere disposte in tale modo affinché i raggi del sole possano raggiungerle tutte assieme, favorendone la seccatura e il conseguente completamento del processo di fabbricazione. Per occasioni particolari, come la celebrazione del capodanno lunare o specifiche feste di primavera, ma anche durante il resto dell’anno, a valido supporto di uno dei materiali considerati irrinunciabili per qualsivoglia attività votiva locale di svariate provenienze religiose, inclusa la preghiera o celebrazione degli antenati, divinità locali ed ovviamente il Buddha stesso, non tanto per l’ottenimento di favori mistici quanto al fine di riuscire a favorire quello stato d’animo che ci dovrebbe far sentire più vicino a lui. Ed appare del resto innegabile come la realizzazione di un compito tanto elevato, per quanto semplice e ripetitivo, non possa che finire per conformarsi nettamente verso quell’ideale di armonia e precisione che tanto spesso, idealmente, dovrebbe condurre verso il singolo momento d’illuminazione tanto ricercato dai filosofi delle discipline Zen. Verso cui persino una semplice foto, talvolta, può riuscire a far da chiave dell’alto portone…

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L’agghiacciante battaglia dei ratti di Hanoi

Sapete qual’è stato il problema fondamentale del colonialismo? Che non ha importanza quanto una potenza occidentale pensasse di stare “aiutando” un popolo tecnologicamente disagiato, o di fornire assistenza nella stabilizzazione di un potenziale conflitto politico all’orizzonte; ogni singolo gesto, ciascuna infrastruttura edificata costituiva essenzialmente un’imposizione, mirata alla manifestazione di un’immagine ideale che non faceva mai parte, e come avrebbe potuto… dell’ordine naturale della Storia. Così a guardarla, la splendente capitale dell’Indocina francese all’inizio del secolo scorso, vi sarebbe sembrata l’immagine della salute: la zona vecchia delle 36 strade risalente all’epoca della dinastia Nguyễn, con i suoi templi e mercati, i grandi palazzi bianchi del quartiere europeo, la scuola di medicina, un sistema di strade ampie e dall’altro grado di razionalità. Ma al di sotto di questa patina d’equilibrio, oltre i petali del grande fiore, dietro lo stelo, e in mezzo alla terra, già germogliavano i semi del più terribile disordine che la mente europea potesse anche soltanto provare ad immaginare. Nessuno dimenticherà l’orrore, alla presa di coscienza della verità… Che per i circa 150.000 abitanti visibili, accorsi dalle campagne per beneficiare dell’opulenza e i servizi edificati dagli stranieri, ce n’erano all’incirca sei volte tanti, appartenenti alla vecchia guardia, ovvero operanti al di fuori dell’ordine costituito. Esseri striscianti oppure volanti, brulicanti, creature dell’ombra e dell’umidità tropicale, che qui abitavano molto prima degli umani. E che milioni di anni dopo la loro inevitabile scomparsa, saranno di nuovo i signori dell’intero Sistema Solare.
Costituisce una pesante verità di ogni epoca, il fatto che al di sotto di determinate latitudini, la convivenza in grandi comunità di tipo urbano tende a diventare più complessa. Questo perché all’equatore sussistono determinate condizioni climatiche ed ambientali, per cui insetti, rettili velenosi, germi e portatori di germi prosperano più che mai, moltiplicandosi molto più di quanto sia possibile farlo per noi presunti padroni del fuoco e degli elementi, i quali a ben poco servono, quando contrai il colera, il tifo o la peste bubbonica, finendo a patire tra le lenzuola mentre già esse iniziano a trasformarsi in sudario. Ecco esattamente cosa aveva in mente il radicale Paul Dormer, funzionario politico e futuro primo ed unico presidente della Francia ad essere assassinato con un colpo d’arma da fuoco (caspita, quale onore!) quando era giunto in questo luogo ameno nel 1897, in qualità di Governatore Generale dell’Indocina, con un preciso progetto di miglioramento: rendere Hanoi, un po’ come Parigi. Non nel senso della cultura e delle dinamiche sociali, proposito in cui chiunque avrebbe fallito, ma per quanto concerneva l’ordine costituito: sotto il suo rigido ma giusto governo, sarebbero stati completati il ponte di Long Bien, la ferrovia, imposte tariffe sull’importazione dell’oppio e sarebbero stati incrementati i commerci con l’Europa. E poi, si sarebbe portato a coronamento il progetto per le moderne fogne cittadine, un vero punto d’orgoglio in quell’epoca, soprattutto nei remoti territori dell’Asia meridionale. Una cosa… Buona, giusto?
Più o meno. Il problema, semmai, era una questione di disparità civile laddove in effetti, sarebbe stato meglio ricercare l’equanimità. Perché nelle zone abitate dall’elite europea, patria operativa di funzionari, commercianti e ricchi industriali, il sistema dell’acqua corrente e dello smaltimento funzionava in entrambi i sensi e secondo i migliori crismi della tecnica disponibili allora. Mentre per quanto concerneva tutto il resto del centro abitato, era stato giudicato sufficiente un semplice sistema di drenaggio che scaricava nel Petit Lac, il lago sacro legata alla leggenda di un antico guerriero (vedi la fine di questo precedente articolo per la storia della sua tartaruga). Il che significava che nei periodi di molta pioggia, il reflusso fuori dai tombini era qualcosa di assolutamente indescrivibile, che riportava tutto quanto era stato inviato a perdersi sotto gli occhi degli abitanti, assieme a qualcosa di nuovo ed ancor peggiore: migliaia di esseri pelosi e squittenti, che correndo per le strade, andavano a nascondersi nelle intercapedini dell’inconsapevole società. Ora, la popolazione degli occidentali era naturalmente propensa ad ignorare questa spiacevole situazione, considerandola un male endemico di questo luogo essenzialmente incivile, associandola alle condizioni “poco salubri” dello stile di vita vietnamita. Se non che proprio i meravigliosi chilometri di fogne, fresche ed umide, giunsero a costituire un’autostrada da sogno per i roditori, dando luogo alla loro comparsa sempre più frequente nella splendente ville européenne, e persino qualche primo timido caso di peste bubbonica, possibile anticipo di un disastro privo di precedenti. Fu così che il governatore Dormer, dopo attenta pianificazione, assunse una quantità imprecisata di sterminatori tra la popolazione locale. Era il 1902, quando ebbe inizio la grande battaglia dei ratti di Hanoi.

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Il coraggio di guidare il motorino in Vietnam

Il sentimento che pare albergare dietro a questo video potrebbe sembrarci molto familiare: un altro giovane senza rispetto per la legge, dietro il manubrio di un pericoloso bolide, guidato senza alcun riguardo per la sicurezza propria ed altrui. Costui si piega in mezzo al traffico, schiva le automobili sterzando il minimo richiesto, attraversa incroci come fossero uno svincolo dell’autostrada. Non c’è cautela e all’apparenza, neanche istinto di conservazione personale. Tutto questo, finché non si nota la nazione presso cui è girata l’inquietante scena: l’estremità di una penisola, non molto più grande dell’Italia, che fu martoriata dalla guerra, affetta da un crisi senza precedenti e poi, a partire dalla metà degli anni ’80, ricreata grazie all’apertura dell’economia privata, con l’adozione della politica nazionale del Doi Moi. Grandi motori, sospensioni rigide, pneumatici da gara: che ne ha bisogno? Per il Vietnam, c’è un solo simbolo che può trascendere tali aspetti propri del materialismo diseducativo: due ruote ed un sellino, l’umile e fidato motorino. Siamo ad Hanoi. Città affollata (7 milioni di abitanti) tentacolare e dalle molte ombre, in cui i semafori sono sostanzialmente un optional, per lo meno nella maggior parte dei sentieri. Intendiamoci: non è che presso le maggiori strade di scorrimento, manchino le basilari luci usate per chiarire la precedenza. Ma se anche l’amministrazione cittadina dovesse estendere il servizio altrove, sarebbero ben pochi a rispettarlo. Purtroppo, aggiungerei. Lo sapevate che in quel paese muoiono per gli incidenti in media 30 persone al giorno? Per un totale annuale che supera quello delle vittime dovute alle pandemie. È come la savana. Dove non ci sono regole, sopravvive il più svelto, il più scaltro, quello dotato dei riflessi migliori. Difficilmente, il più cauto e attento a rispettare alcuna regola di contesto.
Quindi eccoci qui, trasformati nel cubetto di una telecamera d’azione, posti virtualmente a bordo di un Honda Astrea di cilindrata medio-piccola (non dovrebbe superare i 125 cc) che poi altro non sarebbe che la versione estremo-orientale della serie Wave/Innova. Il che ci dice, in linea di principio, già diverse cose in merito al pilota. In un paese dove i mezzi due ruote registrati raggiungono i 16 milioni, superando di gran numero le auto e addirittura, le abitazioni delle grandi città, ciò che si guida quotidianamente diventa un simbolo del proprio status, un prezioso mezzo per esprimere se stessi. E colui che guida un motorino giapponese o americano, per quanto possa trattarsi di un vecchio modello, vuole generalmente dimostrare la propria appartenenza ad una classe benestante che lo usa per recarsi al lavoro, piuttosto che per lavorare direttamente, ovvero fare le consegne di merci, giornali o animali di vario tipo. Simili veicoli vengono spesso personalizzati dai giovani, con colorazioni o livree particolari (se è una donna) o modifiche alle prestazioni, talvolta finalizzate alle competizioni illegali notturne (se si tratta di un uomo). Un caso a parte, a tal proposito, costituiscono le Vespe di progettazione italiana, generalmente molto costose da queste parti e mantenute nello stato originario, con la qualifica di preziosi cimeli di famiglia. C’è un qualcosa, in effetti, che accomuna l’Italia dell’immediato dopoguerra al Vietnam dell’ormai trascorso e pieno accettato Doi Moi, dove un’intera generazione di fautori della contro-cultura si dimostrarono fermamente intenzionati a fare di questi mezzi lo splendente destriero in grado di condurre un’intera società verso il nuovo capitolo della sua storia. Con una significativa differenza: mentre da noi la moto costituiva uno strumento per liberarsi dalle imposizioni delle vecchie generazioni, inclusa la necessità d’integrarsi e produrre, lì serviva esattamente allo scopo contrario: fare dei suoi proprietari degli orgogliosi appartenenti al sistema del consumismo, appena nato dopo le lunghe generazioni di economia gestita con pugno di ferro dal governo. Avveniva spesso verso l’inizio degli anni ’90, quando ancora radunarsi in strada era rigorosamente proibito dalle leggi vietnamite, che interi gruppi di motorini percorressero le strade a bordo dei propri mezzi, passando silenziosamente di fronte alla polizia. Non è chiaro quale fosse l’origine di questi assembramenti. Ma nessuno sembrava avere l’autorità, né l’intenzione di fermarli. Mano a mano che la società acquisiva nuovamente il senso dell’individualismo, quindi, simili piccoli atti di ribellione diventarono insignificanti. E il tiro, così come la quantità, degli individui liberi da alcun concetto di codice della strada aumentò a dismisura, finché oggi, si guida così…

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